Per i 100 anni dalla morte di Claude Debussy: "Una nuova concezione del tempo e della superficie"
Claude Debussy, una nuova concezione del tempo e della superficie Suggérer, voilà le rêve, diceva Mallarmé, suggerire con leggerezza e non descrivere, tratteggiare e non rappresentare, l’apparizione dell’epifania dell’ecco! Di un’immagine fuggevole colta nel suo presentarsi e subito svanita; lasciarsi andare al sogno, ai miraggi, alle fantasie, ai vagheggiamenti, a un incanto senza tempo e senza spazio, che, musicalmente, significa abbandonarsi ad agglomerati armonici (e)statici che risolvono in se stessi, affidarsi a placide frasi senza sviluppo che non vanno da nessuna parte, lasciarsi prendere dalla nuance[1] di colori soffici e vaporosi, per acudire la verticalità del proprio essere e per abbattere il dominio del tempo che scorre (vincendo così anche la morte).
Il problema della temporalità in musica venne affrontato, per primo, da Debussy (1862-1918) che, in molte delle sue composizioni, evocherà il suono libero, svincolato da ogni organizzazione formale pre-esistente per dissolversi nello spazio, immobilizzando il tempo nell’attimo, così l’istante irrompe nella musica,[2] riportando memorie arcaiche e lontane, inconsce come nella Recerche di Proust o nella filosofia di Bergson. Non vi è più un discorso musicale, non vi è vettorialità, la composizione si forma attraverso tocchi successivi, atomizzata; gli eventi vengono accostati seguendo un fraseggio vaporoso, una ritmica asimmetrica; la luce e il colore hanno accensioni istantanee e a mezz’aria. La distruzione dell’organizzazione formale classica avviene attraverso una sorta di nebulizzazione ossia grazie alla vaporizzazione della forma ridotta in pennellate sonore, belle in sé, come arabeschi sottili, che colgono l’istante, in un procedere ellittico che simboleggia il superamento della concezione rettilinea del tempo. Attenzione: non è con l’imprecisione e la vaghezza che Debussy realizza il flou, non è con un istintivo vagabondare che demolisce il tempo cronologico e consegue la temporalità sospesa ma è attraverso la costruzione di variegate situazioni strutturali, giustapposte con precisione nei dosaggi; la coerenza interna è nascosta ma impeccabile in ogni suo aspetto. Il discorso musicale viene sospeso, gira su se stesso, a vuoto, le frasi sono ellittiche ed elidono i centri tonali, mentre la ritmica si fa sfuggente e rende tutto illusorio e atemporale.
Gli accordi sono come un soffio di vento, sospesi nel tempo, in un momento di eternità; si elude il rapporto sensibile-tonica, la frase non cade ma rimane nell’aria. Écoutez la leçon du vent qui passe, soleva dire il maestro che allargava il concetto di consonanza attraverso l’introduzione, in senso aereo, dei più lontani armonici dell’accordo perfetto, nelle sonorità pianistiche la sensazione del vento che passa viene evocata dalle risonanze. L’esempio del preludio del Lohengrin e di quella tipica strumentazione senza bassi che dona leggerezza e luminosità fu presente alla mente di Debussy, come quella dell’inizio de L’oro del Reno e l’orchestrazione del Parsifal e in specie dell’Incantesimo del Venerdì Santo, ma anche la scena di Sigfrido che dorme sotto il tiglio deve aver influenzato il fauno dormiente nel bosco, sognante e ardente. L’oggetto sonoro non ha una profilatura definita, in quanto soggiace al primato dell’attimo. Malgrado l’antiwagnerismo, le influenze di Wagner su Debussy furono profonde, anche a livello strutturale, per esempio nel Pelléas et Mélisande il dramma si sviluppa da se stesso, momento dopo momento, come nella struttura che si sviluppa dagli Ur-motive, in modo differente da Wagner ma basata su motivi che si formano, dissolvono e riformano costantemente.
Gli accordi sono ‘brividi sonori’, scivolano l’uno sull’altro, sono accordi (s)fuggenti che svaniscono, liberamente, come in Soirée dans Grenade. Non si danno consonanze e dissonanze, né un prima o un dopo, così come non si dà un tematismo lineare, perché sempre segmentato, in una costante aspirazione alla (e)staticità, fuori dal tempo degli orologi ma comunque sempre pensata e costruita, secondo una logica topologica. La temporalità è circolare, con evidenti riferimenti alla concezione asiatica sospesa del tempo, come in Pagodes, dove si fa ricorso alla scala pentatonica (si – do# - re# - fa# - sol# - si) e al modo lidio; nella Le soirée dans Grenade il tempo/spazio viene ottenuto con brevi frammenti che non si sviluppano ma si avvitano. «Con Debussy la forma non tende a sintesi grandiose, essa dispone gli elementi musicali in uno spazio pneumatico e qui li fa respirare. […] La musica appare come presa in un momento qualunque del presente: è vita di un attimo qualunque che viene eterizzato».[3]
Le musiche di Musorgskij e quelle giavanesi, ascoltate all’Esposizione universale di Parigi del 1889, aprirono mente e orecchie al giovane Claude che iniziò a utilizzare i modi arcaici della chiesa ortodossa russa (conosciuti quando era al servizio della signora von Meck, nelle estati degli anni 1880-82) e le scale orientali per toni interi, entrambi questi riferimenti hanno la caratteristica di non avere una gravitazione ma di librarsi nell’aria; le attrazioni, tipiche del sistema tonale, sono neutralizzate e con esse il tessuto armonico vettoriale, per cui gli accordi vivono nel solo momento in cui si presentano e non sono vincolati a un processo temporale. Anche la Spagna fu un richiamo forte, per Debussy come per Ravel, entrambi scrissero una Ondine, colori iberici, armonie e fraseggi che in Debussy si ritrovano in La soirée dans Grenade, in La sérénade interrompe, in La Puerta del vino. Vi è un allargamento nei confronti della storia e della geografia.
Debussy è impressionista nel senso che vi è un’analogia con la tecnica dei pittori che divide la luce e i colori nella ricerca di fermare l’istante che fugge, un raggio di sole o di luna, effetti di luce e i riverberi sull’acqua; ma Debussy fu soprattutto un simbolista, conobbe Mallarmé[4] fin dal 1880 e, al ritorno, nel 1887, da Villa Medici, dove aveva scritto La Damoiselle élue, ispirata alla languida e stilizzata sensualità di Dante Gabriele Rossetti (il canto recitante e trasognato di questo brano, che dice le cose a metà, sembra anticipare quello di Pelléas et Mélisande); entrò in amicizia con Edouard Dujardin (il direttore della «Revue Wagnérienne») che gli fece conoscere Baudelaire e Verlaine. La Librairie de l’Art Indépendent fu il cenacolo dei simbolisti ed fu lì che il giovane Debussy conobbe i versi di Mallarmé che ispirarono il Prélude à l’eprès-midi d’un Faune: «Ces nymphes, je les veux perpetue. / Si clair, / leur incarnat léger, qu’il voltige dans l’air / assoupi de sommeils touffus. / Aimai-je un rêve?» Poesia del passaggio, del disfacimento di figure che evaporano e che ricompaiono e che di nuovo spariscono, come nella marina del terzo Nocturne, evocata da un suono cangiante o come nella sonorità argentata di Sirènes o de La Mer, dove i disegni melodici sono così finemente intessuti da sembrare una raffinata tela giapponse (non a caso Debussy volle riprodurre in copertina della partitura una stampa di Hokusai).
La poesia simbolista del mistero ontologico e dell’indicibile, lo spleen di Baudelaire e l’insondabile malinconia, la vibrazione labile e lieve, l’alone irrazionale che avvolge l’esistenza e il silenzio, i labirinti della superficie sulla quale (ac)cadono i fatti e la loro reciproca simpatia, il senso del sacro e la gratuità del vivere, il cogliere il senso del profondo nei suoni nascenti e subito morenti, tutto questo è colto con un fiat, in un eterno nunc, con flash, con lampi, folgorazioni, epifanie fuori da ogni divenire e dal tempo oratorio; la forma si nebulizza e solo arabeschi o giochi di echi e riverberi riempiono il tempo spazializzato: «L’uomo debussiano, smettendo di privilegiare se stesso, resta in comunione panteistica con l’insieme delle creature. […] Misteri di luce, della mezzanotte, del mozzogiorno, l’incanto delle ore immobili. […] La musica di Debussy è immersa nell’oceonografia del silenzio».[5] È un’essenza/assenza, come la ninfa sognata dal fauno, un “dolce nulla sparso per l’aria”.
«Car nous voulons la nuance encore, / pas la couleur, rien que la nuance! / Oh! La nuance seule fiance / le rêve et le flute au cor!»[6] Così Verlaine sembra introdurre il Prélude à l’après-midi d’un faune,[7] brano esemplare e conosciutissimo: nel torpore del pomeriggio si assapora una quiete incosciente, dove il fauno si perde in un sonno senza tempo, come privo di tempo misurato sono i sogni e l’erotismo, qui realizzato con un coït avec Rien, metafora dell’impossibilità di possedere le cose, del loro charme distant. Visioni oniriche, deliri e abbagli, brame e chimere, fantasie e incanti, il tutto senza confini, in uno spazio che ingloba in sé la durata, in un tempo a spirale. Il tempo di Debussy rimanda anche alla circolarità del tempo naturale, al tempo/spazio di un bosco, di un prato, di un cielo stellato (Webern), è il tempo indefinito della sensazione fisica che può durare un attimo, un minuto o un’eternità (un tempo metafisico che trova contatti con quello mistico di Skrjabin, anch’esso sottratto al divenire).
Il flauto del Faune instaura una respirazione nuova dell’arte musicale; l’arte dello sviluppo viene sconvolta ma non quanto il concetto stesso di forma, che, liberato dalle costrizioni impersonali dello schema, dà libero corso a un’espressività sciolta e mobile ed esige una tecnica di adeguamento perfetta e istantanea. L’impiego dei timbri appare essenzialmente nuovo. […] Per lui la forma non è mai data; costante fu la sua ricerca dell’inanalizzabile, di uno sviluppo che, nel suo corso, ammettesse i diritti della sorpresa e dell’immaginazione; per il monumento di architettura non nutre che sfiducia, preferendogli delle strutture nelle quali si mescolino rigore e libero arbitrio: con lui, le parole, le chiavi, tutto l’armamentario scolastico, perdono senso e pertinenza; le categorie abituali di una tradizione che si esaurisce non possono venir applicate alla sua opera, pur cercando di estenderle. Egli avrebbe sofferto dinanzi all’orgia di classicismo scatenatasi dopo la sua morte. […] Il mutevole, l’istante irrompono nella musica; non soltanto l’impressione dell’istante, del fuggevole, quale lo si è ridotto, ma anche una concezione relativa e irreversibile del tempo musicale, e, in genere, dell’universo musicale. Nell’organizzazione dei suoni, questo concepimento si traduce con il rifiuto delle gerarchie armoniche esistenti. Le relazioni da oggetto a oggetto vengono stabilite nel contesto seguendo delle funzioni non costanti. In quanto alla scrittura ritmica, essa non partecipa meno a tale manifestazione, a tale volontà di mobilità nella concezione metrica; nello stesso modo, le ricerche di timbro modificano profondamente la scrittura, le combinazioni strumentali, la sonorità dell’orchestra. […] Conserva un potere di seduzione misterioso, avvincente; la sua situazione, all’inizio del movimento contemporaneo, è di punta ma solitaria. […] Debussy ha voluto far capire che occorreva, non solo costruire, ma sognare la propria rivoluzione.[8]
Il riferimento filosofico è Bergson, concepire il tempo della musica non come sviluppo progressivo e orizzontale ma come compresenza verticale di attimi. La bellezza della musica di Debussy si rifà a una filosofia eolica, mobile fra detto e non detto, rimanda al para-linguaggio dell’ostensione che mostra ma non definisce. Bellezza per Debussy è pensare per colori, subendo lo charme del femminino che partorisce essenze, sostanze, spinte emotive. Debussy riconquista il senso della bellezza al di qua delle ideologie e teorie, dei vari misticismi e credenze, è una bellezza naturale, della terra e del vento, del paesaggio e della luce, spontanea e schietta, immediata e istintiva, povera come la bellezza del vento che porta via la polvere, dell’acqua del ruscello, dello stormir delle fronde, bella come un sorriso o come l’arcobaleno della pace, pura come un suono sospeso in gocce.
Un altro esempio è Voiles, dal primo Libro dei Preludi: il titolo allude tanto alle vele che ai veli, una voluta ambiguità che si riscontra anche nello svolgimento del brano, basato sulla scala esatonale (a parte sei battute pentafoniche) che non porta mai a un momento di evoluzione armonica ma a triadi aumentate che creano un’atmosfera soffusa e statica (“In un ritmo senza rigore e carezzevole” è l’indicazione in partitura); rapide scale hanno una funzione coloristica, increspano il tempo immoto, lo drappeggiano senza fornirgli alcuna vettorialità. La realtà c’è ed è in motu ma è velata e anche il tempo sembra fermarsi, si cattura l’attimo e si lascia che lo scorrere si perda. La musica di Debussy sta fra il detto e l’ineffabile, dice di un quid, di un non-so-che, è l’arte dell’accennare, del lambire, dello sfiorare, s’inoltra nel mondo onirico e visionario, dove regnano i vagheggiamenti; è musica dei chiaro-scuri reconditi, degli abbagli e dei miraggi, ha a che fare con gli incantesimi, con le magie e le seduzioni.
Come nella fase onirica, la musica procede per associazioni, un velo copre la coscienza e s’inoltra negli strati profondi dell’essere; nessun sviluppo ma un procedere ellittico e pulviscoloso, un pulviscolo di suoni, che per altra via e con altra modalità ritroviamo nelle costellazioni di Webern, i cui suoni sono punti luminosi nello spazio. L’assoluta concisione annulla la nozione stessa di svolgimento, non vi è sviluppo temporale ma l’elaborazione dei suoni viene dis-posta in estensione spaziale. All’atomizzazione del tessuto musicale contribuiscono le pause, oltre ai parametri del timbro e della dinamica, cangianti e sottili; anche il ritmo fu studiato in relazione alla scomposizione dell’universo sonoro.
In Pelléas et Mélisande non vi è un’azione, le scene sono breve e statiche e gli avvenimenti accadono come fossero fuori dal tempo; la musica si sgancia da qualsiasi dialettica e si avvita in una spirale in verticale, rivolta a sondare le profondità della mente umana, ma si articola a prescindere dai sentimenti dei personaggi. Vi è una sostanziale ambiguità, indeterminatezza del luogo e del tempo, oscurità dei personaggi dei quali non si comprendono bene i moventi, sembrano venire da un altro mondo e andare verso l’ignoto; la loro verità è nascosta in una zona segreta della loro psiche e si esprime in impulsi oscuri; la doppiezza del testo stesso e l’enigmaticità della musica non caratterizzano né le situazioni né i personaggi, i quali cantano in maniera identica l’uno all’altro, questa sostanziale equivocità rende lo svolgersi dell’azione sospesa in un tempo senza tempo. Questa misteriosa sospensione del tempo e dei caratteri non è espressa in maniera vaga, anzi, la musica è assai precisa e l’ombrosità e le oscurità sono compositivamente ben definite.
In Pelléas et Mélisande, per la prima volta nella storia della musica occidentale, per la scrittura di un tempo musicale fatto di istanti giustapposti, quasi isolati gli uni dagli altri, valendo per loro stessi, per il loro colore o la loro qualità, un compositore nega la morte e il divenire che ad essa conduce: il tempo non passa più, il tempo si immobilizza nella polvere degli istanti multicolori, ma l’illusoria negazione che tiene così la morte lascia talvolta percepire l’angoscia da cui protegge, e la morte fa allora irruzione: più orrenda e più distruttrice, rompe il fascino, introduce la paura, il caos e il nulla nella musica.[9]
La musica en plein air rivaluta il concetto di superficie che non è, come lo intende la cultura Romantik, sinonimo di superficialità, approssimazione, dilettantismo. Senso e significati sono distribuiti non già in verticale ma in estensione e si spostano velocemente in un’area vasta. Insieme alla superficie, pure lo spostamento e la velocità conquisteranno i primi posti nella scala di valori del Postmoderno. Che il senso degli avvenimenti fosse mobile e non fissabile una volta per tutte lo si apprende da Debussy, si passa dall’ontologia, così cara alla cultura tedesca, all’ermeneutica, dal concetto di Urschrei a quello di Impression. Debussy ci insegna che la profondità è una semplice metafora spaziale, un’illusione ottica, un simbolo morale caro alla tradizione mitteleuropea che ama collocare il senso in un luogo privilegiato, segreto.
La superficie crea senso, attraverso la nuance e la correspondance; per capire noi stessi bisogna prima capire il mondo e per capirlo occorre uscire all’aperto: spostarsi, viaggiare, inciampare. In tale apertura la natura riveste un ruolo sostanziale, una natura sempre evocata da Debussy, dai brani giovanili fino a quelli scritti poco prima della morte, come l’indefinita materia sonora che rimanda al ‘gioco delle onde’ (così s’intitola il secondo Schizzo sinfonico) de La Mer e alla poesia e ai profumi di un mare ‘dall’alba al tramonto’ e al ‘dialogo del vento e del mare’ (primo e terzo Schizzo). L’interiorità e i valori vanno pensati in altra posizione, non abbarbicati alle radici della Terra o avvinghiati agli ideali mistici del Cielo, ma molto più realisticamente disposti sull’ampia superficie dell’Aperto del Mondo (usando una terminologia tratta da Heidegger). Negli ultimi lavori, la tendenza alla frammentazione, che rimanda alle tecniche pittoriche impressionistiche dei brevi tocchi che scompongono lo spazio dell’Aperto, sembra prefigurare il puntillismo weberniano, tanto è ridotta a particella sfuggente, a corpuscolo instabile e rimanda a un tempo virtuale, a un’attesa utopistica e indefinita della conciliazione fra l’Uomo e il Mondo.
Al 1901 appartengono i Jeux d’eau di Ravel, brano che incide sulla produzione pianistica di Debussy il quale però, dopo aver scritto la Suite bergamasque, dallo stile a mo’ di toccata, iniziò un percorso nuovo con Estampes (1903) e quindi con Images (prima serie del 1905, seconda serie di due anni posteriore), qui il suo pianismo riconquista quelle atmosfere trasparenti e cangianti che il maestro aveva già espresso nell’orchestra. Il brano Reflets dans l’eau può suggerire un paragone con quello di Ravel Jeux d’eau, nel primo caso vi è un trascolorare di frasi, timbri e ritmi in piena libertà, mentre nel pezzo raveliano gli episodi sonori sono inquadrati in un saldo rigore formale. Debussy tornerà al pianoforte dopo La Mer, con i due libri dei Préludes, ai quali affida sospiri e frasi silenziose, sonorità labili e fuggitive (Debussy era stato allievo di Mauté de Fleurville, a sua volta allieva di Chopin). Ancora una volta, l’amore per la natura è ampiamente manifesto, fin dai titoli quali Il vento nella pianura, Passi sulla neve, Ciò che ha visto il vento dell’Ovest, Nebbie, Foglie morte, Brughiere etc. La meraviglia e i turbamenti che la natura comunica, la sua sostanziale innocenza, vengono espresse nella musica per l’infanzia del Children’s corner; musiche per un ascolto intimistico, in piccole sale dove poter gustare le sfuggenti cesellature.[10]
Il riposizionamento dell’interiorità nel rapporto con la superficie riguarda pressoché tutta la musica francese da Debussy a Ravel, da Stravinskij al Gruppo dei Sei fino alla musica concreta. Il para-Classicismo mostra come la storia (della musica) non sia una serie infinita di fasi in continua evoluzione; la visione idealistico-germanica che vede la storia come un costante divenire viene sostituita con quella che conosce la storia come si conosce la geografia, quindi, non il formarsi di un continuo progresso, ma una tappa che conserva e consuma, che ottimizza o peggiora, che ogni aspetto trasforma in senso circolare, come se ogni elemento venisse inserito in una spirale che lo trasforma, svilendolo o impreziosendolo. La storia è dunque una fetta di tempo che si raggomitola, come nella spazializzazione temporale di quasi tutta la musica di Debussy, che nel suo svolgersi si arrotola e si srotola e subito si riavvolge, come nelle musiche para-classiche, in un continuo andare e venire di sollecitazioni.[11]
Il musicista che si rifà al passato prende dalla tradizione ciò che gli serve, ritaglia mentalmente quegli elementi che andranno a costituire la base o la profilatura del nuovo progetto compositivo: le antiche scale ecclesiastiche e quelle orientali, le forme classiche e le nuove, i colori impressionistici e quelli del gamelan, sono tutti materiali pronti all’uso, come nel Postmoderno. Attraverso i materiali storici non si tenta di ricostruire le musiche del passato, con un atteggiamento antiquario, ma vengono presi come pre-testi per costruirvi nuove e piccole narrazioni immaginarie, non le grandi narrazioni dell’idealistico sistema hegeliano, ma resoconti di minime impressioni o cronache della quotidianità, più o meno trasfigurate. La storia viene attualizzata e così perde in profondità, ponendosi su un piano lineare, assomigliando alla geografia.
Le ragioni di Debussy furono quelle di affidarsi all’Aperto del Mondo, con sentimenti panici, in tal mondo riescendo a innovare la concezione della superficie e del tempo musicale, un’innovazione che risulterà fondamentale per molta parte della musica del Novecento.[12]
A Massimo Coluccini
[1] «L’invito di Verlaine alla nuance, al sogno, alle tonalità smorte è accettato dai musicisti francesi e messo in pratica. I risultati sono quelli di proporre una musica che è effettivamente un antidoto alla vipera wagneriana, ma un antidoto inoculato quando la vipera ha già morso e i debiti con Wagner non si contano. […] I grandi padri della musica moderna, Schönberg su tutti, hanno il merito di aver rivoluzionato i sistemi compositivi, ma Debussy ha fatto di più. Rifiutare un sistema per sostituirlo con un altro è un conto, rifiutare un sistema e far musica senza sostituirlo con un altro è altro conto. Non nascerà una scuola da tale atteggiamento e di fatto Debussy non fece scuola», Michelangelo Zurletti, Debussy: l’inventore della musica moderna, in La grande Storia della Musica Classica, vol. 16, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2005, pag. 10.
[2] L’illusionismo temporale, il gusto per le mezze tinte che non definiscono, le armonie fugaci, l’arabesco oscillante, le atmosfere da sogno erano già presenti nella musica da camera di Fauré, un autore molto importante anche per la musica di Ravel. Riprendendo il procedimento dell’organum medioevale, Debussy fece ricorso agli intervalli primari della quarta, della quinta e dell’ottava, creando un andamento armonico dal carattere arcaico e sospeso, come ne La cattedrale inabissata. Il moto parallelo delle quinte crea un senso di mistero, come nelle Chançons de Bilitis. La scala pentatonica fu un altro elemento che consentì di creare momenti rituali, come in Pagodes.
[3] Anna Delli Muti, Musica Ascolto Silenzio, Madona Oriente, Melpignano (Le), pag. 47. A proposito dell’acqua, riprendendo una riflessione di Jankélévitch, la Delli Muti scrive: «Debussy vive l’acqua come qualcosa di dormiente e di stagnante. L’acqua si correla così al silenzio, presentandosi come morta, immobile» (pag. 49).
[4] La bipolarità di Mallarmé, fra clarté e vaghezza, fra l’esigenza di nitore della scrittura e abbandono all’evanescenza della nuance, riguarda anche Debussy, anche la sua scrittura sta fra fissità e flusso, fra la sospensione dell’istante e la continuità del divenire. Cfr. Renzo Cresti, Claude Debussy, dalla storia alla geografia, in Per i 70 anni di Carmelo Mezzasalma, Feeria, San Leolino in Chianti (Fi) 2015.
[5] Vladimir Jankélévitch, Debussy e il mistero, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 77, 79 e 123, 124: «Il silenzio onnipresente è un silenzio materno, silenzio originario da cui la musica proviene e ritorna. Il silenzio non è solamente prima e dopo, infra e ultra… esso è anche durante». Cfr. Claude Debussy, I bemolli sono blu. Lettere (1884-1918), Archinto, Milano 1990.
[6] Si tratta della quarta strofa di Art poétique.
[7] Il brano inizia con una lieve e svogliata melodia del flauto che discende di un tritono per poi salire, l’armonia non segue le regole canoniche ma rimane sospesa in nubi di suoni che rimangono statiche in un orizzonte velato (sonorità esatonali). Il clima sonoro è liquido, come quello del Pelléas et Mélisande, avvolto nel mistero.
[8] Pierre Boulez, Note di apprendistato, Einaudi, Torino 1968, pp. 295, 303, 304.
[9] Michel Imberty, Musica e metamorfosi del tempo, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2014, pag. 370: «In Debussy, il vuoto non è nominabile, immaginabile, dunque non richiama (sul piano fantasmatico) un pieno che non può essere neanche immaginato».
[10] Non è compito di questo libro elencare i brani più importanti dei vari autori, piuttosto quello di far riflettere su aspetti storici e culturali, su poetiche e linguaggi, comunque, è difficile non citare, fra le tante composizioni straordinarie di Debussy, gli aspetti sognanti delle Ariettes oubliées (1888), la forma ciclica che sospende il tempo del Quartetto per archi (1893), i suggestivi Tre notturni (1899), i flutti sonori e il sentimento dell’infinito espresso ne La Mer (1905), l’impressionistico e divertente Children’s corner (1908), la smagliante tavolozza timbrica di Images (1912), le visioni fantasmagoriche causate dai cangianti colori di Jeux (1912), le liquide sonorità pianistiche dei Préludes (1912).
[11] Debussy, come Ravel, studiò Bach e i classici francesi, come Couperin e Rameau, si ascolti la suite del 1901 Pour le piano. Con le tre Sonate degli anni 1915-17, Debussy si avvicinò a un chiaro recupero delle forme classiche.
[12] Purtroppo molti interpreti non hanno metabolizzato tali innovazioni e troppe esecuzioni si limitano alla routine del suono colorato, attenti alla nuance come fosse un abbellimento e non come aspetto strutturale.
