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Salvatore Sciarrino, percezioni sottili fra sogno e veglia
Salvatore Sciarrino, percezioni sottili, fra sogno e veglia

Il giovane Sciarrino (Palermo 1947) fu sostanzialmente autodidatta,[1] aderì a quella tendenza che si volse alle ricerche di notazioni particolari, come in Prélude (1970), sperimentazioni sulla notazione che portarono a soluzioni foniche nuove e che saranno importanti per la scrittura personale che Sciarrino metterà a punto negli anni seguenti. Una ricerca grafica non fine a se stessa ma come rimando simbolico. Si rivelò all’attenzione generale nella seconda metà degli anni Settanta; da giovane praticò anche le arti figurative, una pratica poi abbandonata ma che formerà in lui un senso del segno esile e raffinato e una sensibilità al colore sottile ed evanescente. La scrittura è costruita su suoni pulviscolari, formata da figurazioni veloci e impostate su armonici che rendono il frusciare della musica simile a un soffio, impalpabile e ai limiti di un silenzio panico. Una musica che si pone in regioni liminari che richiedono una percezione sottile, perché il suono è sempre ai limiti del silenzio, involucro cosmico dal quale provengono e nel quale subito rientrano; il suono che emerge dal silenzio e vi ritorna viene visto come un fenomeno epifanico, come la bellezza della nascita. Gli eventi sonori sono echi della memoria, una risonanza dell’inconscio, un’eco di quella profondità che si nasconde in superficie.Tecnicamente si richiedono modalità particolari, spesso virtuosistiche, come l’emissione di armonici agli archi e ai fiati, risonanze secondarie, utilizzo di registri particolari, fantasmagorici arabeschi che fluttuano nell’aria, un tessuto musicale vibratile, fluttuante e ricco di sfumature cromatiche e dinamiche, ai limiti col silenzio, il tutto all’interno di profili formali netti e chiari. I brani composti fra gli anni Settanta e Ottanta hanno tutti queste caratteristiche, da Sonata da camera (1971) a Il paese senz’alba (1976), da Il paese senza tramonto (1977) a Che sai, guardiano, della notte? (1979), brani che esprimono l’impalpabilità di forme in continuo movimento, da Introduzione all’oscuro (1981) alla polifonia liquescente di Let me die before I wake (1982) a Fra i testi dedicati alle nubi (1989), una poetica rivolta al notturno e alle forme-non forme delle nuvole, sempre cangianti e in movimento; inoltre le Sonate pianistiche, iniziate nel 1965 (la quinta è del 1995).

La sua scrittura individuò presto una peculiarità di effetti che fece scuola, infatti, molti furono i compositori che cercarono di imitare questa caratteristica che consiste nella realizzazione di una schiuma di suoni ondeggiante, aerea e diafana, una polvere sonora rarefatta che si espande dal silenzio, inteso non come vuoto, ma come involucro che abbraccia i suoni. Gli interventi musicali sono brevi, di bisbigliante sottigliezza coloristica, in un’impostazione a incastro, composta da un ingegnoso congegno di sussurri fonici: vi è un titolo di un brano per orchestra, Soffio e forma (1995) che potrebbe riassumere la poetica e la prassi compositiva di Sciarrino: refoli sonori che alitano all’interno di sagome formali trasparenti ma precise. Sciarrino dice che «Il problema compositivo non è tecnico o teorico, bensì un problema di trasformazione del pensiero» e che questo compoprta il travaglio dell’artista: «Il principio della scelta, che rende morale lo stile, è di fatto la base cosciente della cosiddetta creazione artistica»[2]

Anche al teatro Sciarrino giunge presto, a 26 anni scrive Amore e Psiche, opera basata su una concezione teatrale atematica e volatile. La linea incorporea, la ricerca timbrica evanescente, i vibrati, i trilli, i glissati, gli echi e i passaggi virtuosistici (affrontati in un nuovo rinascimento strumentale) rimangono una prassi costante anche nei lavori successivi. Dagli anni Ottanta in avanti, il maestro abbina la polverizzazione dei materiali a una ricomposizione, che potremmo definire ‘alchemica’, con altri suoni elaborati minuziosamente, in cui l’ambito delle frequenze si contare e si dilata velocemente, come nella Seconda Sonata, la quale dimostra la convivenza fra una sonorità liquescente e una più compatta.

Al teatro, dopo la giovanile Amore e Psiche, seguono altre prove che segnano sia l’attitudine teatrale di Sciarrino, la sua vocazione alla lieve e labile narrazione, sia l’affermazione del suo personalissimo modo di raccontare e di nascondere, di evocare e di tacere, di rievocare e di favoleggiare; in pochi anni si susseguono Aspern (1978), Cailles en sarcophage (1980), Vanitas (1981) e Lohengrin (1983). In Vanitas predomina un’atmosfera appannata, realizzata attraverso arpeggi che progressivamente si svuotano; «È una gigantesca anamorfosi di una vecchia canzone – Stardust – della quale conserva, in modo misterioso, un profumo effimero. […] Le canzoni, sul piano della musica, rappresentano un po’ l’equivalente dei fiori: belle sì, ma effimere. […] Vnitas è un Lied di proporzioni mai udite. […] Un’ipotesi di teatro povero».[3] Lohengrin è su libretto dello stesso Sciarrino e di Pier’Ali da Laforgue, il testo segue l’ironico racconto Lohengrin figlio di Parsifal, da cui vengono estratte frasi e parole affidate pressoché totalmente alla figura di Elsa che deve affrontare vari effetti vocali che s’intrecciano con quelli strumentali (16 solisti), in una dimensione onirica che, insieme a quelle mitologiche e fantasmagoriche, è quella più congeniale allo stile musicale e drammaturgico di Sciarrino, perché consente la sospensione del tempo e l’evocazione di uno spazio interiore.

Al 1986 risale l’incontro con Alvise Vidolin, dal quale Sciarrino apprende l’uso del live electronic come elemento progettuale, al tempo stava iniziando a lavorare all’opera Perseo e Andromeda (1991) che sarà il suo primo lavoro basato su suoni generati in tempo reale da quattro computer che operano per sintesi sottrattiva ossia agiscono attraverso filtri che selezionano i suoni dal suono bianco. Il riferimento alla mitologia consente a Sciarrino quella stessa lontananza che gli permette il ricorso al sogno, alla notte o alle nubi (Nuovolario, 1995) ossia di non affrontare in maniera diretta e vicina un argomento ma di trattarlo come assenza, separato dalla concretezza della contingenza, tecnicamente questo avviene grazie al ricorso a leggere profilature e a risonanze. Il teatro è anche vocalità, e una ricerca di Sciarrino riguarda l’uso nuovo delle modalità del canto, aspetto evidente in Perseo e Andromeda ma ancor più in Luci mie traditrici (1998) dove il fulcro dell’opera sono proprio le voci, attorno alle quali girano i suoni strumentali, creando un interrotto flusso di coscienza.

Il primo nucleo dell’opera Macbeth risale al 1976 e verrà completata nel 2001, porta come sottotitolo ‘tre atti senza nome’, innominabili perché incentrati su azioni violente e criminali: «Orrore, orrore, orrore / Ah né lingua né cuore / possono darti nome» recita il libretto dello stesso Sciarrino. Due sono i gruppi strumentali/vocali che disposti vicino o lontano dal pubblico hanno il compito di creare effetti di adiacenza e separazione dalle figure allucinate che volteggiano nello spazio. Sono da ricordare anche l’estasi di un atto, Infinito nero (1998), l’originale musica per pupi siciliani Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999) e il ‘quasi monologo circolare’ La porta della legge (2009), come sempre in Sciarrino occorre vedere/ascoltare al di là dei segni, ponendosi domande più che risposte. Le ragioni di Sciarrino sono quelle d’indagare il nascere della creazione musicale e i meccanismi della conoscenza, con sentimenti che si rifanno a una sorta di navigazione notturna, fra la mistica del silenzio e dell’ignoto e il razionale legame con un passato di tipo archetipico sia esso personale (memoria) sia storico (le forme barocche che vengono trasfiguarate da una mente visonaria).


[1] I primi brani risalgono a uno Sciarrino diciannovenne, quali Sonata per 2 pianoforti del 1966 e Berceuse composta nell’anno successivo, rivelando, seppur in maniera ancora da sviluppare, quella tendenza ai suoni fantasmagorici che gli sarà propria. www.salvatoresciarrino.eu
[2] Salvatore Sciarrino, Carte da suono, CIDIM, Roma 2001, pp. 63, 40.
[3] Idem, pp. 79, 80.


 




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