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Leggermente si curva la luce, romanzo
Leggermente si curva la luce

un viaggio di vite vissute fra arte e religione
Che la mia stella sia Chiara
quando andrò verso la notte


Capitoli

E(ste)tica della luce e musica nuova

Mondi chiusi che si aprono

Mondi a parte che si mettono in gioco

Verso una filosofia del dialogo

Fra Uomo e Uomo, fra Mondo, Terra e Cielo



Prefazione

Il lungo racconto prende liberamente spunto da fatti storici dell'Età di Notre-Dame, riferendosi in particolare all'e(ste)tica della luce propugnata da San Bernardo e realizzata nelle vetrate della chiesa gotica di Chartres, e alla Schola Cantorum dell'importante chiesa parigina, dove i primi musicisti che escono dall'anonimato, come Alberto, Leonino e Perotino, realizzano le prime forme polifoniche. Gli ambienti del monastero e della vita chiesastica forniscono a Renzo Cresti il pretesto per una riflessione fra aspetti e concetti etici apparentemente contrapposti, quali sacro-profano, meditazione-vagabondaggio, introspezione-esternazione, chiusura-apertura, Terra-Mondo, mondi e modi diversi che si scoprono complementari, sotto il segno di una religiosità che (interpretata secondo l'etimo originario di relegare) collega l'Uomo all'Altro (che così non è più Altro ma diventa Prossimo) e l'Umanità a quel quid indefinibile che è la necessità di collegarsi a ciò che la oltrepassa, un non-so-che difficilmente razionalizzabile, un aflatto spirituale non descrivibile, che solo l'arte riesce bene ad evocare, e in particolare la musica arte ineffabile. Proprio sul suono e sulle sue capacità di affondare nell'animo umano si svolge una profonda riflessione, con molti spunti rivolti all'attualità, in particolare incentrati sul valore dell'arte nuova nell'epoca contemporanea.

Gli ambienti e i personaggi sono legati da una sottile storia, leggera eppur significativa. Il tempo e lo spazio non sono quelli statici ma sono sospesi in una descrizione e in un procedere al di fuori da connotati realistici. L'inquietudine domina ogni personaggio sempre alla ricerca dell'essenza della vita e trova pace nell'abbandono alle profondità dell'arte e del relegare. Il viaggio si conclude dunque quando la luce accecante del mondo si ammorbidisce e lascia spazio a un morbido e fiducioso affidarsi a ciò che oltrepassa la mera esistenza quotidiana (sia esso Dio o l'Arte, la Natura o il Prossimo). In una parola l'essenza della vita è l'Amore e nessun'altra forma può descriverne il percorso di ricerca meglio della vera Arte, quella che con passione affonda le proprie radici nella Madre Terra e volge lo sguardo verso il Cielo, dopo aver attraversato l'Aperto del Mondo.



INDICE

L’inquietudine dell’amore - Un mondo a parte - Luce e musica - Il vino che sa di carne - In attesa



L'inquietudine dell'amore

Aveva la sensazione di trovarsi in uno spazio vuoto, nebbioso e sospeso. Le cose assumevano una strana fisionomia, si rivestivano di una luce fredda, senza un preciso senso del tempo: era come se tutto ciò che lo circondava si facesse astratto, come se facesse parte di un quadro o di una colonna in una chiesa o come se fosse una nota in una melodia sospesa in gocce. Era lì per un atto d'amore. L'amore, come l'arte, sa costruire una casa fantastica, anche di notte, con frammenti di stelle. Non si va in cerca dell'amore, è l'amore stesso che, se ci trova degni, conduce a lui.

Bisogna dissolversi ed essere come un ruscello che canta la sua melodia alla notte. Se non si è fedeli a questo canto tutto si riduce all'apparenza, ma per rimanere fedeli alla melodia notturna occorre spogliarsi di ogni proprietà, di tutti i riferimenti comuni, solo così si può trovare quell'intima e segreta correlazione fra innocenza e universalità. L'innocenza è un essere senza compromessi, puro ma non a-sociale, anzi l'innocenza porta in grembo il rispetto per l'altro, l'amore per ogni uomo e la responsabilità sociale. Era beato, abitante del nostro mondo e insieme già di un altro. I beati stanno in mezzo agli altri uomini come ostaggi. Abitano abissi bianchi, luoghi reconditi che solo loro conoscono, dove un tempo sospeso abbraccia cielo e terra. Sono esseri di silenzio. Il silenzio è il luogo d'incontro dove possono abitare gli opposti, dove i contrari possono affratellarsi.

Dicono gli stanchi che l'amore è fatto di lievi bisbigli, mentre gli irrequieti lo sentono gridare tra i monti. Dicono i pescatori nella notte: "l'amore sorge insieme all'alba, da oriente". E nel pieno meriggio dicono i contadini: "lo vedremo sorgere con la frescura del tramonto". Nell'afa estiva dicono i mietitori: "lo vedremo danzare con le foglie d'autunno", mentre in inverno l'amore viene con la primavera, ballando di colle in colle. Immerso in una vaporosa atmosfera, viveva in una sorta di limbo, come su una soglia fra la realtà e un'estasi infinita. C'era in lui mistero. Il mistero ha la stessa etimologia di mistico. Dunque il mistico è colui che sonda i misteri e, come gli antichi oracoli, ne coglie l'enigma, il quale viene rivelato non con un ragionamento ma con un semplice suono.

Seguiva silenzioso la freschezza delle ore, quando l'infinito ha il sapore della frutta matura. Provava un fanciullesco incanto ad ammirare le farfalle sospese e leggere, erano come lui, si cullavano in danze lievi, sfavillanti al sole, trasparenti come l'alabastro; provava una meraviglia inquieta a pensare al flusso incantato delle perenni trasformazioni, l'ondeggiare di quelle ali vellutate gli sembrava un po' triste, percorso da un'ansia trepida, dalla crudeltà del tempo che passa e va.

La sua vita si configurava come un' utopica ricerca di purificazione dai cattivi influssi del mondo, ricerca perseguita attraverso una disciplina interiore, che richiedeva la vocazione. Se la sua propensione al silenzio era davvero una vocazione, allora si situava in un contesto pre-compreso, in una strada già segnata, in una direzione inconsapevole, ma determinata. E' possibile essere coscienti del proprio destino? O è possibile solo andare, e quindi lasciarsi andare? L'artista è abituato a lasciarsi prendere dal proprio materiale, a seguire le incrinature del marmo, le vene del legno, i colori di un impasto, gli echi di una melodia. Nessun'altra cosa meglio del lavoro dell'artista spiega il concetto di predestinazione: le riflessioni che partono da Tacito e arrivano ad Agostino su ciò ch'è già pensato e sulla libertà, sull'essere attivo e/o passivo, tutto questo è insito nel rapporto fra la fantasia dell'artista e le ragioni della materia. Fra libertà e costrizione non c'è antagonismo ma continuità e complementarietà.

Si era staccato da un tipo di vita che non sentiva sua, quella rumorosa della gente, aveva abbandonato gli altri non per presunzione o per salire a mete più elevate, ma per seguire un occulto richiamo della propria coscienza, un monito interiore dolce e innocente, ma anche durissimo. Prendere congedo dagli altri e incamminarsi verso il proprio sé, non sapendo né chi erano gli altri, né cos'era il proprio io. Ma ogni "io" è comunque plurale, plasmato dai visi e dai gesti altrui. L'io debordante che constatiamo nella società degli egoismi affievolisce non solo la partecipazione ai fatti sociali ma anche a quelli dell'arte e della spiritualità. Al nostro Uomo venivano in mente gli antichi greci che non privilegiavano la soggettività individuale, ma l'ordine del Cosmo, dal quale si ricavavano le leggi per governare la polis, alle quali l'individuo era subordinato come parte del Tutto.

Ogni centimetro della sua dimora odorava di lui, vi era in tutta l'abitazione una specie di umidità, come spirito essudato; le cose stesse parevano sudare, emanando fluidi animali. Gli oggetti occupavano il posto che dovevano occupare, stavano in un luogo e non in un altro come per volere divino, e tutti sembravano in fremente attesa di un gesto, di essere toccati, di venire in contatto con chi aveva dato loro un'anima. Tutto acquistava un significato universale, anche il silenzio delle cose, quell'allontanarsi dalle parole per dirigersi verso la musica interiore, verso l'unità. Solo la musica rende conto dell'unità intesa come Armonia, grazie alle proporzioni numeriche di cui si compone e grazie al fiat rivelativo che avvolge l'uomo come un respiro.

Il suo passatempo preferito era uscire in giardino e seguire, con lo sguardo abbandonato, i campi impressi da echi rassicuranti, da un ritmo cullante che lo incantava. Usciva d'inverno per ammirare i nitidi contorni del paesaggio, per provare un piacevole brivido di freddo che lo stordiva lievemente. D'inverno gli alberi sono messi a nudo e rivelano la loro struttura, allora i loro rami spogli paiono radici che bevono il cielo. Amava passeggiare lentamente nel verde profumato della primavera, ci si sentiva avvolto, ci viveva beatamente in mezzo, fischiettando. Gli piaceva avvicinarsi alle arnie di un apicoltore che abitava lì vicino; quelle api selvatiche, che vedeva vibrare a capofitto sulle gialle corolle dei fiori, gli parevano delle sfrontate violatrici di spazi riservati, che s'incuneavano nelle crepe dell'anima di un fiore, violatrici a fin di bene però, perché restituivano il miele, zuccherosa energia vitale, nutrimento degli innamorati.

Andava d'estate sulle bianche strade delle colline, col piacere del sole forte sulla pelle. Incontrava ragazzi che corteggiavano l'amorosa; vecchi che se ne stavano a sedere, su quelle sedie impagliate che sembravano appartenere a tempi lontanissimi; bimbi che giocavano, vociando con allegria. Andava a far more, gli piacevano quelle macchie arruffate. Era un punto d'onore ritornare a casa con un cestino carico di more, che poi mangiava una a una, lentamente, come riassaporando il caldo della giornata sulla pelle, e un prurito strano lo inquietava dolcemente. Le more, come tutte le cose della natura, avevano una sorta di panica sensualità che gli procurava un'eccitazione sospesa. Al sole si scaldavano i ramarri, gonfiando l'azzurro del collo, con delizia. I girasoli inclinavano, sopra lo stelo piegato dal vento, il loro capone pesante, si nutrivano della terra e la nutrivano a loro volta, quando in autunno, piegavano i loro corpi voraci, oramai stanchi e rassegnati, e si donavano alla terra, dando vita a un nuovo ciclo. Non v'è progresso nella Natura ma solo uno splendido manifestarsi. La stagione che amava di più era l'autunno, s'incamminava fra i rossi filari della vigna novembrina, mentre nell'aria s'odorava un intenso profumo di mosto. Passeggiando per la sua amata campagna scopriva certi funghi cresciuti nell'umidore di vecchi tronchi marciti, passava vicino a porte socchiuse dalle quali usciva un filo di fumo e un odore di cose buone che gli allargava il cuore. La sua dimora era terra santa. Il suo letto tappeto di preghiera, involucro della psiche, luogo di salvezza, di salute, ma era, contemporaneamente, luogo di dannazione, di pena. Le stanze erano un asilo fortificato, impervie da raggiungere, impraticabili per chiunque non si fosse prima purificato dai cattivi odori del mondo. La sua casa doveva essere una meta, una destinazione.

Un mondo a parte

L'ambiente piccolo e lindo funzionava come una cintura di castità, tenendo fuori orrori e dolori, vizi e passioni. La gente, le lotte per il denaro e il potere, i vacui idoli materiali, ma anche gli amori erano tenuti lontano dal suo mondo ben recintato, controllato da una sensibilità che si voleva mantenere, forzatamente, in spazi ingenui, fanciulleschi, come in un giardino d'infanzia. Amava l'Amore, ma si può amare senza imbattersi nel volto degli uomini? Si sentiva inquieto, come se il suo amore per l'Amore, in realtà, fosse una fuga dall'amore quotidiano, ben più faticoso, di quell'amore che doni agli uomini, fatti di carne. La voglia di uomini tornava spesso a tormentarlo. A costringerlo a porsi domande. Stretto in un cerchio di silenzio, doveva raccogliere tutte le sue forze per recuperare un po' della sua identità. Era un silenzio opprimente, non luminoso, un velo scuro e impalpabile. Ogni suono che percepiva era indistinto, come un'eco lontano.

Camminava fra le stanze, con la mente annebbiata, come fosse in un labirinto sconosciuto. Ogni volta che rientrava nella sua camera, dopo alcuni giorni di assenza, avvertiva un forte senso di disagio, un fluire di fermenti emotivi, conosciuti e ignoti allo stesso tempo, sensazioni già provate che però non sapeva controllare. Provava un misterioso e timoroso senso del trapasso, come se la vita dei giorni precedenti, la vita quotidiana, fluttuasse in luoghi non veri e vera fosse solo questa atmosfera onirica. Gli mancava l'aria. Il silenzio, così amato, bramato in altre occasioni, lo ossessionava. Sentiva la mancanza del contatto con altre persone. Con impazienza, attendeva l'ora del pranzo, quando avrebbe rivisto volti conosciuti.

Estenuato dall'inquietudine si sedeva e un marezzo di pensieri lo assaliva. Retrocedeva con la memoria ai giorni appena trascorsi a Parigi, fra gente di tutti i tipi, con l'amico Leone che cantava e dirigeva il coro, con il giovane Francesco. Il tempo si dilatava, gli ritornavano alla mente le discussioni e le risa, il volto dolce delle donne e quello stupefatto degli adolescenti cantori. Riassaporava il vino buono e il calore di un ambiente fremente. Vedeva la sua stessa figura genuflessa, in preghiera, sotto il crocifisso ligneo della Cappella, dove Leone insegnava musica. Con la mente rasserenata, a movimenti lenti, alzandosi si dirigeva alla finestra, sorridendo a un vaso di fiorellini, carezzandoli con gli occhi, ringraziandoli della loro presenza lieve e odorosa. Fuori bambini cenciosi sciamavano e vecchie dallo scialle nero vociavano. Dalle abitazioni fatiscenti che vedeva dalla sua finestra usciva un odore acre di peperonata e d'urina. Un urlo di dolore, una bestemmia s'alzavano sopra il chiasso dei ragazzi e s'impastavano nel vocio delle donne. "Il dolore - pensava - è qualcosa da cui si vorrebbe sempre fuggire, ma se lo sapessimo accettare ci trasformerebbe interiormente, ci porterebbe sulla soglia dell'inesplicabile. Attraverso il dolore l'anima si libera da tutto ciò che le è estraneo e si purifica. Ma la povera gente, che non ha neanche la forza di sopravvivere, come può avere la consapevolezza dell'azione purificatrice del dolore? Perché, buon Dio - si chiedeva fra sé - non scarichi su di me, che ho fatto voto di accettarlo, il dolore di questi miseri uomini?"

Un altro grido, un'altra bestemmia e l'odore di sporco che pareva ancora più forte. "Se chiudo la finestra la miseria rimane fuori" - si arrovellava - "ed io mi racchiudo nel mio mondo a parte, dove la vita viene regolata da ritmi innaturali. E' una posizione privilegiata e questo non è giusto." Avrebbe voluto uscire, mangiare quella peperonata in un'unica ciotola arraffata da cento mani e bramata da bocche stanche. Fra la sporcizia delle strade avrebbe carezzato i capelli unti dei bambini e portato una parola di conforto. Avrebbe voluto donare i suoi abiti caldi e i biscotti che teneva nella credenza, invece serrò la finestra e, con voce dolce e sommessa, ma turbata, si mise a intonare una canzone che aveva appreso il giorno prima a Parigi. La canzone parlava di un uomo che aveva sognato di aver passeggiato con il Signore sulla sabbia e, nel sogno, prima apparivano due tipi di orme, quelle dell'uomo e quelle dei piedi del Signore. Poi ne vedeva solo una e pensava che quelle del Signore erano sparite. Allora l'uomo chiedeva al Signore: "avevi detto che saresti stato con me, in tutti i giorni della mia vita, perché mi hai abbandonato, proprio nel momento peggiore?" E nel testo della canzone, il Signore rispondeva: "i momenti in cui tu hai visto sulla sabbia un'orma sola, sono stati i momenti in cui ti ho portato in braccio." Questa canzone lo aveva rasserenato e, tacendo, aprì la porta che lo introduceva fra le grevi pareti del corridoio, semibuio, illuminato solo dalla fioca luce di una lanterna, alta e lontana. Di nuovo un certo disagio lo assalì. Procedeva guardingo, come se ci fossero dei pericoli in quell'ambiente che gli appariva terribilmente austero. Ma quello era il suo ambiente, quali pericoli potevano esserci, se non i turbamenti sottili che si nascondevano all'interno di lui stesso? Il suo mondo era basato su regole severe e su norme implicite che formavano una rete cooperativa, funzionale a chi sta dentro, assurda a guardarla dall'esterno. La verità del suo mondo era espressa da una ritualità che valeva solo in quel contesto. "L'uomo qualunque, uno di quelli che vivono nelle catapecchie là fuori" - si diceva Bernardo - "non capirebbe i nostri gesti: è questo un mondo parallelo a quello della gente comune. Chi s'inserisce nella nostra cornice rituale salva l'anima e il corpo: siamo coperti dal freddo e ben rifocillati. Ma basta il nostro abito a garantirci il paradiso? Forse siamo solo una casta elitaria, che garantisce a se stessa soldi e verità."

Bernardo era un frate, dell'Ordine dei Cistercensi. Aveva scelto come sua stanza la cella più piccola, perché nel rincantucciarsi in un angolo stretto si crea la condizione migliore per aprirsi all'Altro che, nella dimora interiore, diventa il nostro Prossimo. Bernardo stava seguendo le tracce del Sacro, di quelle potenze oscure che l'uomo avverte ma che non può razionalizzare, al massimo può evocare attraverso l'arte. Il Sacro è qualcosa di separto, di superiore, e la separazione è necessaria per non confonderlo con le cose e i fatti comuni. I riti sacri hanno tempi e spazi separati dagli altri, festivi. Anche gli uomini che partecipano a questi riti, come i sacerdoti, devono essere separati dal mondo ordinario, come lo era Bernardo. Gli uomini che vivono nel recito del Sacro condividono qualcosa con i folli, con lo smarrimento dei confini comuni, con la vicinanza a forze terribili. Anche gli artisti sono folli, ma loro, come Bernardo, sanno mantenere un argine allo smarrimento totale della pazzia, pensano per immagini, per colori e suoni, ma hanno in sé delle regole più o meno conscie. Negli artisti, come in Bernardo, la follia è una "pato-logia" nel significato etimologico, ossia è pathos che si fa loghia.

Bernardo dunque abitava un luogo marginale, ne era consapevole, una marginalità che consentiva pratiche necessarie di meditazione, ma che si nascondeva, ostruendo il passaggio delle grida d'amore e di dolore. Immerso in questi pensieri, Bernardo percorreva il lungo corridoio, arrivando al portale che introduceva alla mensa: un brivido freddo lungo la schiena travolse la serenità che cercava di conquistare. Si fermò un attimo prima di aprire la porta, riprese fiato e si fece coraggio. In fondo avrebbe dovuto essere contento, avrebbe rivisto il volto rubicondo e gioiso di Dante, il fratello cuoco, dotato sempre di un gagliardo buonumore, avrebbe rivisto gli occhi vispi del giovane Duccio, il piccolo sguattero. Poi sarebbero arrivati gli altri fratelli: dunque avrebbe dovuto essere contento di rivedere i suoi fratelli. Invece sentiva che avrebbe voluto scappare, ritornare a Parigi, da Leone. Un triste senso di solitudine lo avvolse, come se si trovasse in un posto straniero, era una solitudine diversa da quella solita, quella desiderata nelle ore di preghiera, era più scura, quasi dolorosa. Girò gli occhi sulla destra del portale, sulla parete dov'era situata un'icona bizantina, antico regalo di un fratello orientale, raffigurante una Madonna immobile, serena, su un fondo dorato che la impreziosiva e le donava luce: la calma fiduciosa di quella figura, placò le ansie e il suo animo divenne fidente. Aprì il portone. Come da lunga consuetudine, vide Dante intento a preparare la solita minestra scotta e senza sale, mentre il giovane Duccio, che lo aiutava in cucina, affettava il pane e apparecchiava i lunghi tavoli. Rimase fermo sulla soglia della porta, sospeso, nella zona di confine fra il dentro e il fuori, come a darsi un'ultima possibilità di uscita.

Il viso luminoso di Dante e i suoi gesti calmi, la tranquillità di Duccio e le sue attenzioni nel preparare i tavoloni scacciarono le agitazioni e, con convinzione, fece il passo decisivo, chiuse il portone, facendo volutamente rumore, in modo che i due fratelli si accorgessero della sua presenza. Dante alzò gli occhi dalla grande pentola fumante e con un sorriso negli occhi, senza abbandonare mestoli e ramaioli, urlò: "bentornato fra noi, Bernardo, stai bene?" Contemporaneamente, Duccio gli si precipitò fra le braccia, baciandolo e sussurandogli: "Bernardo, che piacere averti di nuovo con noi, ci sei mancato sai? Questa volta sei stato via più dei soliti due giorni, che hai fatto a Parigi per una settimana? Raccontami di Parigi." Carezzandogli la testa, con voce oramai del tutto pacata e perfino felice, Bernardo si mise a sedere su una panca: "sono stato da Leone, sono rimasto più a lungo perché volevo rendermi conto del tipo di musica che esegue, e poi, ti confesso, avevo voglia di stare un po' fuori di qua, lontano dalle nostre abitudini, di trascorrere delle giornate a Notre-Dame, dove la presenza del Signore si confonde con la vita quotidiana."

Duccio era curioso della musica: "davvero Leone fa cantare il coro in maniera diversa rispetto alla nostra? E i ragazzi del coro come sono?" "La prossima volta ti porto con me" - disse Bernardo - "così farai amicizia con gli altri cantori, sono molto bravi, ce n'è uno poi, un certo Francesco, che mi ha colpito, non solo per la purezza del suo canto, ma per la sua visione della vita. Voglio fartelo conoscere. Leone non canta i vecchi Salmi della tradizione, fa qualcosa di nuovo, di rivoluzionario. Sono stato molto turbato, avrei voluto rimanere ancora con lui. Mi sarebbe piaciuto immergermi più a lungo nell'atmosfera di Notre-Dame." Duccio guardava Bernardo con ammirazione, stupito, sognando posti magici, immaginandosi Parigi e Notre-Dame, come luoghi da favola. Avrebbe voluto continuare a parlare con Bernardo, farsi raccontare del suo soggiorno parigino e di quella musica rivoluzionaria, ma la voce di Dante lo richiamò al suo compito: doveva finire di apparecchiare. Nello stesso momento entrarono, uno dopo l'altro, ordinatamente, in processione, tutti gli altri fratelli.

Luce e musica

Bernardo era un uomo anziano, ma pieno di vigore: il suo corpo rispondeva ancora bene alla severità degli esercizi penitenziali e la sua mente era lucida e curiosa. L'atteggiamento meditativo del religioso era rafforzato dalla concentrazione dello studioso. I suoi occhi erano abituati alla modestia e spesso, curvavano verso il basso, in un gesto remissivo, ma a volte scattavano in lampi di luce, abbandonando la prudenza e saettando in regioni del pensiero oscure agli altri fratelli. Viveva già da qualche anno a Chartres, una piccola cittadina a sud di Parigi, dominata da una splendida cattedrale, intorno alla quale si stringeva la popolazione. Nel ricco monastero cistercense Bernardo pregava e studiava. Lo studio è già una forma di preghiera, come il canto. Filosofo celebre, aveva raccolto l'eredità di una scuola di pensiero che affondava le radici nel Medioevo e aveva esposto riflessioni sulla religione e sull'arte che avevano fatto scalpore. Intorno a sé raccoglieva un nutrito gruppo di amici e colleghi che, sotto la sua guida, studiavano teologia, architettura e musica. Quest'ultima era per lui un'arte particolarmente intrigante, tant'è che aveva spinto un suo allievo a redigere un trattato sulle regole musicali, convinto che la musica simboleggiasse l'ordine divino. Aveva un'ottima conoscenza dei poeti e degli oratori classici, il suo filosofo preferito era Platone, ma si riallacciava più direttamente a sant'Agostino, con il quale condivideva il trasporto per il misticismo musicale, per una musica intesa quale principio cosmico. Aveva esposto inoltre, nei suoi importanti scritti, alcune considerazioni fra la religione e la natura: la fonte ispiratrice del tutto era la luce. Era quindi Bernardo un uomo di grande cultura, stimato anche a Roma, dove il Papa stesso aveva fatto lusinghieri apprezzamenti sul suo conto. Uomo combattivo, aveva sostenuto anche dure controversie, come quella con Abelardo che si ostinava a spiegare i fondamenti della fede "con analogie tratte dall'umana ragione", come aveva scritto, mentre Bernardo si lasciava rapire dal canto luminoso degli angeli. La luce, come la musica, era per Bernardo il segno della bellezza invisibile dell'universo. La luce, che stabilisce un'estasi fra l'uomo e la natura, è bella, semplicemente.

La musica è una sorta di atrio luminoso che introduce all' unità intuita di tutte le cose. Non a caso Bernardo era stato l'ispiratore dei progetti per le vetrate di Notre-Dame, dove la luce fonde cielo e terra. Un giorno, all'alba, subito dopo le preghiere mattutine, Bernardo stava passeggiando nel chiostro, dove luce e silenzio lo sorprendevano e lo allietavano. Le pareti della pietra sembravano talmente porose da trattenere la luce, di confondersi con essa e trasfigurarla. Il colonnato era diafano, quasi trasparente, nessun tratto rimaneva in ombra, dava la sensazione di un guscio leggero. Mentre si lasciava prendere dalla magia del chiostro, la sua mente cercava di afferrare un Inno che avrebbe voluto comporre. Suoni interiori e pensieri si accavallavano, avvolti dal silenzio incantato, mentre gli occhi erano attratti dalle forme geometriche del chiostro-paradiso. Per lui le forme artistiche, fossero quelle delle cattedrali gotiche o quelle musicali, erano solamente la veste di un contenuto spirituale. Pensava che musica e architettura erano arti gemelle, perché entrambe generate dai numeri. "Ecco il numero" - si diceva - "è la misura del creato. Il mio maestro Agostino concepiva la bellezza in termini musicali e perfino la beatitudine ultima era per lui un canto sublime. Forse Dio stesso altro non è che un valente musicista o un geniale architetto, che ha costruito il cosmo giocando con le proporzioni numeriche e le consonanze musicali. In fondo il canto e la cattedrale cosa sono se non luce che ti trascende e ti illumina interiormente?"

Quel giorno, mentre estatico Bernardo passeggiava e in questi pensieri era avvolto, nello spazio senza spazio e nella temporalità senza tempo del chiostro, un messo gli consegnò una lettera che portava il sigillo del Papa. L'atmosfera del chiostro, luminosa e vibrante, fatta di piccoli grumi che lievitavano, venne interrotta dalla missiva inattesa. L'iniziale stupore interrogativo cedette presto il posto a una sorta di timore curioso. Col fiato sospeso, aprì velocemente la lettera e vi lesse, con meraviglia, che il Papa voleva da lui, emerito filosofo ed esperto di musica, un giudizio sui canti composti da Leone a Notre-Dame. Il Papa era preoccupato di certe voci che accusavano i musicisti della cattedrale parigina di uscire dalle regole della musica sacra, per svolgere "atti non conformi alla dignità secolare della Chiesa" - si leggeva nella missiva papale - "pare che Leone non rispetti la purezza monodica del canto gregoriano e faccia cantare a più voci, componendo nuovi canti dove non rispetta le regole dei Modi liturgici e dove le parole delle Sacre Scritture non sono comprensibili." Infine si chiedeva a Bernardo di far pervenire, in tempi brevi, un resoconto dettagliato per informare il Papa, il quale, se il caso, poteva prendere severi provvedimenti contro Leone. La lettera un poco lusingava Bernardo, un poco lo preoccupava e un poco lo rassicurava. Che il Papa avesse pensato a lui come persona degna dell'incarico era indubbiamente un riconoscimento della sua attività di studioso, però era preoccupato per Leone: ma come! L'amico Leone, il più grande musicista che la Francia possedeva, colui che scriveva canti così belli e conturbanti da rabbrividire, era in odore di peccato per il Papa? Doveva capire meglio. Era comunque rassicurante che il giudice di questa vicenda fosse proprio lui, questo pensiero lo fece sorridere e, mentalmente, battè la mano sulla spalla di Leone. Ancor prima dell'alba del giorno successivo Bernardo partì e arrivò a Parigi che era ancora mattina preso. Partito che era notte, insieme a uno scudiero, aveva cavalcato a tutta forza per arrivare prima possibile da Leone, per sorprenderlo, ammirarlo, durante i suoi esercizi spirituali. Fu accolto con i soliti grandi onori dai monaci di Notre-Dame, i quali avrebbero voluto rifocillarlo e scaldarlo, ma Bernardo volle subito recarsi alla Cappella del coro, da solo.

Quasi di corsa percorse i corridoi che introducevano la Cappella. A passo svelto entrò nell'atrio, chiuse la porta dietro di sè e riprese fiato. Cercò di concentrarsi e, con gesto silenzioso, aprì il portone della Cappella. Vide subito Leone, piegato su se stesso, la testa sulle ginocchia, le braccia raccolte strette al corpo, così raggomitolato pregava. Bernardo riaccostò il portone e rimase fermo, in piedi, osservando l'amico e iniziando anche lui una preghiera. Passarono due ore, durante le quali i due s'incontrarono in zone lontane, che non erano di questo mondo. Poi si abbracciarono. "Bernardo, che fai lì in piedi?" - disse sorpreso Leone - "è molto che sei arrivato? Che gioia rivederti, vieni, andiamo alla mensa, avrai fame, avrai freddo." "No Leone, rimaniamo qui" - rispose Bernardo - "ti ringrazio, ma è troppo bello questo clima spirituale. Invidio come riesci a concederti alla preghiera, come riesci a pregare anche quando canti. Devo parlarti."

Prima di raccontare a Leone della lettera ricevuta dal Papa, Bernardo volle fare queste considerazioni: "io non ho mai amato nessuno in vita mia se non i miei studi, eppure so che un fiore, una pietra, i tuoi canti contengono molta più verità di tutti i libri della mia biblioteca. Talvolta scrivo una lettera in greco, allora un teta o un omega, girando un pochino il foglio, mi sembrano un pesce, mi ricordano le onde dell'acqua, su cui camminava Pietro. Oppure le lettere diventano un uccello che alza le ali e vola via. Oppure diventano note che cantano le lodi al nostro Signore. I miei libri mi legano alla volontà e alla vanità, mentre tu sei libero di affidarti al destino che ti chiama, alla mano di Dio che guida la tua anima e la tua voce. Il tuo canto è l'unione della Terra col Cielo, grazie al tuo cuore fanciullo. I tuoi canti sono un dono per tutti noi, perché ci riportano all'innocenza".

Sullo sfondo del mondo pareva che Dio divenisse musica. Nella Cappella di Notre-Dame, la nostalgia di Dio veniva espressa dall'indeterminatezza temporale dei canti. Non c'era un ritmo preciso e la melodia vagava eterea, era una musica che non esaltava l'individualità, ma la collettività. In essa l'assemblea dei fedeli si riconosceva e ne coglieva la spiritualità. Nei canti di Leone la dimensione propria della musica, il tempo, tendeva a dilatarsi in una spazialità che trascendeva l'io, approdando a luoghi benevoli, prossimi, recuperando, nella sua pienezza spirituale, il bisogno di qualcosa che non è udibile, che si trova ai limiti della realtà, ma che c'è. Lo stupore che questi suoni producevano derivava dal fatto che essi parevano alludere a un non-so-che che oltrepassa l'uomo, alludendo a una visione, a un qualcosa di non ancora visto, ma presente. Con la musica la coscienza si allargava e comprendeva la vita di tutti, diventava ampia come l'universo. Collegando il tema dello stupore a quello della speranza. Nella Cappella, Leone si esercitava ad ascoltare le pietre. Le pietre parlano, a chi le sa ascoltare. Le pietre cantano.

Al freddo, scalzo, senza mangiare, Leone faceva penitenza, perché la penitenza dona senso. La penitenza non è una privazione, ma la premessa di libertà. Nel poco spazio di una cella, su un giaciglio di legno, senza coperte, un secchio d'acqua ghiaccia per lavarsi, i monaci prendono a sdegnare le comodità. Nascosti in luoghi di confine col mondo, si sentono al centro della propria vita interiore. La vita dello Spirito diventa l'unica ricchezza. Non è sufficiente per costruire una cattedrale, non basta per case e palazzi, ma per costruire un uomo sì. Leone era monaco musicista, organista e direttore del famoso coro della più importante Cappella di Francia, quella appunto di Notre-Dame. Dedicava al suo operare tutte le sue energie, i momenti migliori della giornata e le ore notturne, quando tutto intorno era silenzio e fra lui e la sua opera poteva instaurarsi una profonda simpatia. Entrava nel coro in punta di piedi, per non svegliare gli spartiti che dormivano, si avvicinava a uno di loro e questo sembrava dotato all'improvviso di parola ed erano parole d'amore: gli diceva, "guardami, toccami, canta le mie note, hanno la dolcezza del miele e il profumo del pane; vedrai la forma di un volto umano, perché tu sai trovare l'immagine nascosta dell'essenza di ogni uomo".

Nella musica di Leone, l'uomo non veniva imitato, ma riviveva nel suo fondamento, era un volto afferrato, dal più profondo dei possibili. Lavorando, Leone si accorgeva che gli altri spartiti, piano piano e in silenzio, si svegliavano e lo osservavano amorevolmente, quei fogli, fatti di pochi segni, avevano fame d'uomo. Leone studiava in una piccola stanza, non studiava nell'ambiente grande del coro, il suo luogo era piccolo, volutamente, perché il suo essere-musicista non aveva bisogno di molto spazio esterno, in quanto era l'uomo a prevalere, col suo infinito interiore, che risale da un niente e che ha solo bisogno di un nonnulla, dal quale sorgerà qualcosa di futuro. Sentiva dentro di sé un istinto femmineo, che gli permetteva d'intuire che il lavoro artistico non dev'essere forzato da azioni esterne, di nessun tipo, ma necessita di una lunga meditazione, una specie di decantazione che ne favorisca il lievitare, il procedere e l'accrescersi. Dal silenzio, come un fiore, dovrebbe nascere l'opera d'arte, non come idea o progetto, ma come urgenza interiore, come ricerca naturale, così come il girasole cerca la luce! L'atto svolto per necessità è differente rispetto a una sincerità voluta, quella vera è spontanea, ma da cosa si riconosce? Dal fatto ch'è il frutto di una lenta educazione dell'anima, di un esercizio alla rinuncia, all'umiltà e alla prudenza, la quale significa esprimere un sentimento di vigile responsabilità verso gli uomini, che nell'arte si risolve nella scelta dei mezzi tecnici i più discreti, quelli che assecondano lo scopo, facendo dimenticare l'autore.

Assente l'uomo, nella natura come nell'arte, il miracolo rinasce, questa perfezione la si vede ovunque e non ha bisogno di un'astuzia per sembrare autentica. L'abbandono presiede a questa prodigalità e chi potrebbe pensare di apportare il minimo ritocco ai petali di una rosa o all'ala di una farfalla? Ma non sono solo la naturalezza, la bellezza e la perfezione a costituire il senso di un'opera d'arte, perché il capolavoro non sta tutto nel risultato raggiunto, ma anche nei percorsi che l'artista segue per arrivare al suo scopo. Ecco dunque dove sta l'essenza dell'arte, un'avventura sulla quale, fino all'ultimo, regna un'incertezza ch'è propria dell'uomo, inquieto e tremante per la sua opera. Non era Leone a cercare la musica, ma era la musica che lo chiamava a sé, come la vocazione, come la fede. Era l'arte che andava a Leone, come l'alba verso il suo giorno. Quando Leone iniziava a comporre non preparava schemi formali, piani strutturali, ma si lasciava guidare dall'estro, da un estro divinamente innocente, fanciullesco, che foggiava, di volta in volta, il materiale in forme sempre diverse, seguendo l'impulso interiore.

Il vero maestro di Leone era la natura, mirava a realizzare un'opera come se fosse un albero, realizzando un oggetto che avesse insito in se stesso la propria finalità, che sapesse costruire la propria forma. L'insegnamento della natura era quello di ricercare le radici che, come le piante, tutti noi abbiamo, risalendo alle origini, al mistero di ciò che fu. Leone riusciva così bene a incantare con le proprie opere, perché lui per primo era stato incantato dal suo stesso operare, compiva un atto di osmosi con quello che lo circondava, diventando una cosa sola con i suoi disegni, i suoi colori, le nuvole e le montagne. Questo era il suo dir di sì alla vita. Leone era un uomo di mezza età, alto e magro. Se Bernardo aveva l'aria del pensatore, Leone sembrava un fanciullo, non amava l'erudizione, amava di più le immagini e i suoni della Liturgia. Bernardo vedeva in Leone un uomo dalle capacità misteriose, preso da forze che a lui erano estranee.

Bernardo aveva detto a Leone che avrebbe voluto parlargli, avrebbe voluto dirgli della missiva papale e rassicuralo, ma non lo fece, non gli disse nulla. Il giorno seguente, di mattina presto, dopo che aveva trascorso la notte rapito dai canti di Leone, Bernardo prese la più bella pergamena che aveva e con mano ferma scrisse al Papa: “Sua Santità, rispondo in merito alle preoccupazioni della Santa Sede riguardo all’attività del Maestro Leone, Direttore della Cappella di Notre-Dame in Parigi. Mi permetta di fare una considerazione preliminare: la Chiesa è spesso inerme di fronte ai dolori, alla paura della morte, alla fame dei poveri, inerme anche di fronte all’arte, che viene intesa solo come consolazione o divertimento, ma la vera Arte collega la Bellezza alla Verità. La musica soprattutto, come la luce incorporea, ci allontana dai semplici oggetti quotidiani e ci conduce in un regno di meditazione. Noi abbiamo bisogno di uomini esemplari che insegnino ai giovani la ricerca della Bellezza e che sappiano mettersi in attesa di ricevere la grazia, quell’intuizione che collega la Bellezza del creato con la bellezza che l’uomo riesce a produrre. Se ci si accontenta di una musica che accompagna il rito, come un piacevole sottofondo, noi perdiamo la tensione verso la Bellezza. Una musica del genere è il simbolo di un’epoca decadente e di una società superficiale. D'altra parte la musica non può fermarsi a godere di se stessa, come lo Spirito si deve mettere in viaggio, dev’essere una disciplina interiore che, grazie alla riflessione e alla continua ricerca della prfezione, diventa un atto di responsabilità.

Per il Maestro Leone la musica è una ricerca ascetica, è il suo amor fati. Non può ripetere vecchie formule musicali, come se recitasse una preghiera distrattamente, deve far vivere i suoni e comunicare con essi il senso della bellezza ai giovani cantori. La sua anima è un’anima innamorata, lascia vibrare i suoni dentro il suo cuore, così la musica non è più un mero oggetto d’uso, funzionale al rito, ma diviene un soggetto spirituale. Attraverso il perfezionamento della tecnica musicale, Leone perfeziona se stesso. Della Verità non si può parlare, occorre viverla. La Verità è inesprimibile a parole, ma la si può evocare col canto. La musica dovrebbe essere anche lo specchio di una collettività felice, dove gli uomini dialogano e cooperano, così Leone fa cantare a più voci, non perché non voglia rispettare la monodia tradizionale e con essa la tradizione della Chiesa, ma consuetudini e ricerca devono convivere, Leone è, a un tempo, sia depositario sia innovatore, uomo radicato e uomo in viaggio. Radicato nella Terra madre e in viaggio verso il Mondo, verso il futuro, verso il cielo. Vive l'esodo e l'avvento.

Non vi possono essere dubbi, egli instaura un'arte nuova più in sintonia con i tempi della nuova cultura cittadina. Le tante voci della polifonia altro non sono che il simbolo delle voci degli uomini che ci circondano, unite insieme in una splendida unità (metafora della Trinità e dell'Uno). La nuova musica indica la nuova etica, la quale non può staticamente ripetere norme oramai superate, ma crearne di nuove che più e meglio portano l'uomo di oggi a capire il Mondo in cui vive, a cercare con mezzi più vitali le radici della Madre Terra e a rivolgere con assoluta consapevolezza lo sguardo verso il Cielo. Stia tranquillo Sua Santità, la musica nuova non è vanità o vacuo intellettualismo, è un viaggio che attraversa il Tempo e lo Spazio, verso quel Tempo/Spazio dell'eternità dove tutte le musiche canteranno lodi al Signore. Peccato sarebbe fermare questo viaggio, per adagiarsi al già sentito, al già detto, al già vissuto, in un rigor mortis delle regole valide solo per se stesse, senza il confronto con la spiritualità odierna, regole di arte e di vita che continuano ad affermarsi basandosi su una tradizione immota, invece di andare incontro ai sogni e ai bisogni dell'uomo di oggi e di trasfigurare queste necessità in canti nuovi e in vive preghiere.

Leone è assolto pienamente, anzi a lui dobbiamo essere grati per questo rinnovamento. Invito Sua Santità a venire a Parigi, per non giudicare da lontano e per prendere consapevolezza dei fatti, conoscendoli rimarrà colpito dalla loro profondità spirituale. Umiltà e pudicizia consiglio ai Suoi musicisti romani, che sono forse in peccato di orgoglio e di gelosia, anche loro invito all'ascolto. Vi è un'accademia della tradizione la quale non conserva più i valori vivi e propulsivi, ma li imbalsama in un rigor mortis filologico ch'è quanto di più lontano dalla vita dei fedeli, dai lori pensieri e umori, così, nel cercare di preservare gli antichi suoni, si scava un solco con la sensibilità attuale, quel modo di essere nell'oggi che Leone è riuscito a cogliere, toccando le corde dell'emozione viva, della tensione spirituale e dell'essere collettivo.

Spero di essere stato esauriente e comunque sempre a Sua disposizione, Suo fedele servitore Bernardo da Chartes."

A questa missiva il Papa mai rispose, forse preso da altre cose per lui più importanti o forse convinto dalle accalorate parole di Bernardo. La nuova musica polifonica di Leone arriverà, poco dopo, anche a Roma e alla generazione successiva ciò che pareva un arbitrio inizierà a piacere e ad essere pienamente compreso.

Il vino che sa di carne

Era un ragazzo grande e ossuto, dal viso scavato, come se avesse avuto dieci anni di più. Non giovanissimo, avrà avuto sui vent'anni, lo sguardo era profondo, candido e triste, chiunque lo avvicinasse vedeva in lui una sottile inquietudine e, nel contempo, una grande serenità. Giunto alla Schola Cantorum da più di un anno, era il cantore più bravo. Vi era arrivato percorrendo vie tortuose. Di origine provenzale, Francesco aveva trascorso molto tempo a Marsiglia. I suoi genitori erano dei ricchi borghesi di campagna che trovavano più facile educare il figlio concedendogli tutto quello che desiderava, che istruirlo passo passo alle buone maniere. Soldi e viaggi mascheravano una forma d'indifferenza. Così, in allegra compagnia, Francesco trascorreva il suo tempo a Marsiglia o in altri posti divertenti della zona.

La grande città di porto gli piaceva. Gli piaceva la luce del meriggio che, come una lama, fende gli edifici tagliandoli in due. Adorava camminare nelle strade del lungomare, dove volavano pugni e grida di donne, dove era facile divertirsi con veloci amplessi e vino a volontà. Laggiù al porto, le emozioni erano forti. Banchieri italiani in una miniatura del XIV sec., British Museum di Londra Per Francesco l'eros era il suo richiamo. L'eros era per lui un'esplosione di vita, incremento di energia, l'apologia dell'esser vivo, volontà di scoperta, forza e voglia, voglia di tutto. L'eros e la passione di vita, l'inquietudine e il viaggio, facevano di Francesco un uomo alla ricerca.

Gli dei, per lui, si erano addormentati, erano caduti nel sonno, tramontati per dar vita a una nuova alba, appartati per riuscire in nuove splendide forme, sopra il mondo sempre uguale. Un falò in lontananza, puzzo di carne bruciata, urla di donna. Una strega è al rogo. Un compagno di avventura di Francesco si mise a urlare: "il concetto di Dio è assurdo, è stato inventato in opposizione alla vita, questo è l'unico mondo che esiste, l'animo e lo spirito sono stati inventati per annientare il corpo e i risultati sono la tortura e gli omicidi. Dio è stato fabbricato dai potenti della terra per controllare il mondo, è un concetto utile alla repressione e all'imbastardimento dei popoli. Guarda Francesco quel povero corpo bruciato è questo orrore che Dio vuole? Desidera le guerre in suo nome? Tu ben sai che nella Bibbia Dio stesso uccide."

Carlo, il compagno di Francesco, non era contro la religione, aveva un sentimento panico che lo accumunava a Francesco, era però contro le religioni del Libro, contro il potere temporale della Chiesa, contro le norme imposte, era insomma un eterodosso. In fondo la parole "ateo" in origine non designava chi non credeva in Dio, ma chi venerava un Dio diverso, straniero. Il silenzio di Dio - questo era il pensiero di Carlo - permette il vaniloquio dei suoi ministri che abusano del suo nome e chiunque non crede alla loro verità diventa immediatamente l'incarnazione del male, il nemico da abbatere. "Dirsi ateo è difficile, atei si è chiamati e sempre come un insulto" - sussurrò con tristezza Carlo abbassando gli occhi -"non esiste un termine positivo per indicare in maniera affermativa colui che non si sottomette alle chimere della fede, vi è solo questo termine, "a-teo", che indica una mancanza, una privazione, un mis-credente, niente invece per indicare la solarità del libero pensiero e la forza della ragione che se la ride delle favole e delle magie dei vai Zeus e Ra, Wotan e Allah, Jahwèh e Cristo. Persiste l'idea che l'ateo è sempre immorale e cattivo, senza etica, quando invece è vero il contrario ossia occorre molta forza morale per comportarsi da uomini liberi, molta più di quella che occorre per seguire norme e precetti Ti dirò di più, l'etica è un valore prettamente umano, filosofico, agli antipodi del misticismo e l'a'tto buono non dev'essere comandato da un dogma ma disinteressato, il criterio dell'etica sta nella recta ratio e non nell'irrazionale della metafisica".

Se non esiste Dio allora tutto è permesso? Questo pensava Francesco mentre Carlo parlava e così continuava: "lo so cosa pensi, che tutti i mali derivano dal relativismo, ma anche l'assolutismo produce guasti come il fanatismo e l'astrattismo, il relativismo è un modo per storicizzare e l'individuo non vive nell'illusione di verità ultime, ma in una continua ricerca e ri-creazione del proprio Sé. La Verità con la maiuscola è esposta alla critica della Storia e della Ragione, pensa, per esempio, che nessun evangelista ha mai conosciuto Gesù e, come ben sai Francesco, gli scritti considerati apocrifi sono più numerosi di quelli scelti dalla Chiesa per suo uso e consumo. Non abbiamo nessun documento dell'epoca di Gesù, se è esistito, mi chiedo, cosa potrà mai aver veramente detto? A quel tempo quelle terre desertiche brulicavano di profeti e di cialtroni: hai mai rifletturo sul fatto che le tre religioni del Libro sono nate e cresciute nel deserto? non noti in questo una possibile forma di allucinazione? I discepoli potrebbero appartenere a un clima di isteria collettiva, essi un po' inventano e un po' raccolgono testimonianze, ma i testimoni chi sono e, soprattutto, sono attendibili o è gente, come i pescatori di Marsilia, che si diverte a spararla più grossa? Più grosso si dice essere il pesce e più incredibile è la notizia è più si cerca di far bella figura. Anche Maometto non ha scritto il Corano, che viene scritto 25 anni dopo la sua morte, dunque ciò che noi prendiamo come parola di Dio in realtà è parola degli uomini, di uomini molto interessati a creare un Chiesa come contro-potere politico. Lo stesso monoteismo non è una novità degli ebrei, i quali lo ripresero dal culto egiziano del dio Sole e lo fecero per meglio rendere possibile la coesione del loro popolo, rassicurandolo con un Dio guerriero, utile alla mitologia del "popolo eletto". Anche l'arte altro non è che una forma di pubblicità al volere della Chiesa: le litanie servono per stordire chi ascolta e le melopee aiutano a memorizzare gli ordini."

Passò, nel mentre Carlo proferiva queste parole, un ricco mercante portato su un baldacchino da quattro schiavi: "osserva Francesco" - disse Carlo con un moto di sdegno - "la Chiesa difende la schiavitù, perché è così che questi poveracci si devono guadagnare il paradiso, con la sottomissione; essi non possono diventare sacerdti e i monasteri li impiegano senza vergognarsene, anche per atti sessuali". Un conto è la Chiesa con le degenerazioni dei suoi uomini peggiori, pensava Francesco, è un altro è la Chiesa come custode della fede e proprio il concetto di fede distingue gli ebrei dagli islamici e dagli ebrei, in quanto per questi ultimi c'è con Dio un rapporto di fiducia, mentre per i mussulmani esiste un rapporto di sottomissione, solo nel Cristianesimo esiste veramente la fede. Francesco era confuso, ma sentiva che il punto focale era la fede e allora così gli venne da dire a Carlo: "e allora? Una volta detto delle angherie della Chiesa e anche dimostrando che Gesù non è mai esistito, cosa cambia? Il concetto di Dio, con tutte le sue metafore e simbologie, impregna di sè il mondo e rassicura i cuori degli uomini. Gran parte dell'umanità si riconosce nell'efficacia e nel calore che emana il concetto di Dio e proprio in questo riconoscersi sta la verità storica del concetto di Dio. In ogni caso la fede apre scenari che non hanno bisogno di una prova storica." Questo disse Francesco e di questo lui stesso un po' si meravigliò. Carlo lo guardava sbigotito, non credendo che il compagno di bevute e di bravate covasse nel suo intimo tanta nobiltà d'animo. Arrabbiato, Carlo montò sul suo cavallo e guardando l'animale si rivolse un'ultima volta a Francesco prima di partire a caloppo: "io sono come il mio cavallo, come gli animali ignoro ostie e incensi, non conosco cattedrali, paradisi, purgatori e inferni. Se il mio cavallo potesse immaginarsi un dio lo farebbe con quattro zampe e grande orecchie, stai attento Francesco a non costrirti il tuo dio a tua immagine e somiglianza o, peggio, seguendo quello che ti dicono i preti".

Uomini religiosi, nel positivo e nel negativo, erano Francesco e Carlo, uomini che provavano comunque un sentimento dell'infinito, ricco di eros e di pathos, come gli artisti erano fedeli a ciò che oltrepassa se stessi, anche bestemmiando invocavano dio. Se una goccia di rugiada dovesse dire: "una sola volta, in migliaia di anni, sarò goccia di rugiada", l'uomo non può che rispondere: "non sai che la luce di tutti i millenni risplende nella tua sfericità?" Per Francesco i millenni correvamo nelle affollate strade della città. Marsiglia era la sua eternità. Venditori ambulanti chiedevano se avevi bisogno di un elisir d'amore, di un po' di strutto o di un pollo. Nelle taverne si poteva giocare a carte fino all'alba, bere e parlar male del Papa. Laggiù, giovani non ne esistevano, la mezza età non esisteva. I ragazzi erano già adulti e i trentenni già vecchi. La vita era breve, forse per questo c'era una frenesia altrimenti sconosciuta.

Le donne, tutte le donne, erano sempre occupate a escogitare mille modi per trovare la maniera di mettere insieme il pranzo e la cena per i loro uomini e per i figli. Quando le donne stavano in un attimo di ozio, quello era il momento della rabbia. Densa e insopportabile. Alla sera, la maggior parte delle donne avrebbe voluto sprofondare nel sonno, farsi mettere al tappeto da un pugno di fatica, per non dover affrontare una notte "d'amore", si dice così?, dove il puzzo d'alcool è più forte dei colpi d'anca. Dove mani unte e callose ti prendono e ti sbattano, dove corpi sfatti e sporchi ti si appiccicano addosso quale gelatina schifosa, mordendoti come denti di cane affamato. Per vivere di più, Francesco viveva vite parallele: percorreva le infinite strade della periferia, amava intensamente tutte le donne, desiderava sempre altri incontri. Avrebbe voluto nascere contemporaneamente in cento famiglie diverse, in cento stati, per fare cento vite differenti.

Voleva esistere per gli amici pescatori, per i ragazzi delle strade di Marsiglia, per il vino e le donne. Stava al mondo con occhio vigile e sentimenti accesi, per cogliere ogni frutto. Amava dormire nelle lenzuola lavate di fresco dalla mamma e disperdersi fra le folli braccia del vento. Avrebbe voluto morire sui seni della donna più dolce e, contemporaneamente, nella peggiore osteria del porto, crepando insieme a vecchi avvizziti.

Chi ama è un esploratore, molto rimane nel suo cuore, poco ne esce. Ci dona sogni da sognare. A suo modo, Francesco esplorava la vita vera e regalava agli altri sogni che rendevano felici. A Francesco piaceva andare alla "Taverna del santo", sedersi ai tavoli con le lunghe tovaglie, accanto a una giovane bella, canticchiando. Nessuno va a vedere sotto la tovaglia, nessuno va a guardare dove vanno le mani. Gli scaricatori di porto, che fischiettavano canzoni che cominciavano col cuore e andavano a finire più giù, quella gente, tutta carne e muscoli, aveva per Francesco una ruggente seduzione. Come un desiderio d'urto violento. Il pane finiva presto e il vino scorreva a fiumi, non era così buono come quello paterno, ma vuoi mettere il sapore che gli dava il berlo fra poppe e risa? Era un vino che sapeva di carne. Nella taverna, la zuppa faceva schifo, ma tutto intorno era una festa. I soldi non mancavano e quando c'erano i soldi c'erano anche gli amici. Il cantante saliva su una cassa di frutta e urlava chançoises à boire, osannava i poteri terapeutici dell'osteria, la casa di chi non ce l'ha, il clima di festa; parlava della funzione afrodisiaca del vino e si soffermava, con piccanti dettagli, sulle notti d'amore.

L'osteria ti fa girare la testa. Ti fa fare quello che vuoi, qualunque cosa è bella fra le facce rubiconde e le gambe allargate delle donne. Una scazzottata ogni tanto faceva bene, teneva in esercizio mente e muscoli. Bella era Marsiglia, piena di immagini e di odori, oscena. In quelle strade s'affratellavano tante esistenze, sconfessando la prigionia delle case. Come bandiere si dispiegavano le strade di Marsiglia e in esse si dileguavano il tempo e lo spazio, e solo la vita esisteva. All'ombra di vecchi archi, Francesco andava meditando, rincorrendo con lo sguardo gabbiani che volavano via. Era bello vagabondare sotto gli archi, in cerca della sera, logorando le strade, su e giù per i quartieri del porto, di bettola in bettola, bevendo bicchieri di fuoco fra risa purpuree. Francesco sostava sotto un lampione, per le gambe malferme dal troppo bere, sedeva sui gradini di una chiesa, in una piazza ventilata. Giù in basso il porto, con le sue acque solenni, slargava a lontane contrade e la concava piazza, livellatrice d'anime, come il sogno si espandeva, come la morte.

Un bel giorno, Francesco riuscì a organizzare una gita a Parigi. Insieme a un paio di amici, presero i migliori cavalli della zona, uno stalliere e partirono, cantando canzoni che narravano meraviglie di Parigi. Si fermarono più volte in locande e in bettole, fino a quando videro da lontano la sagoma enorme della città. Ne furono impressionati. Gli uomini come Francesco sono dei vagabondi, perché solo vagando incontrano la vita. Non possono stare fermi, quando si fermano viaggiano ugualmente, grazie a robuste dosi di vino. E' un cammino pericoloso, perché andando s' imbattono in tutto, anche nella morte. Ciò ch'è grande nell'uomo è d'essere un ponte e non uno scopo, ciò che si deve amare nell'uomo è il suo essere un passaggio, bisogna amare ciò che fa delle sue inclinazioni un destino. Bisogna amare questi uomini, le cui anime sono profonde, anche nella ferita, amarli perché sono uomini liberi nel corpo e nel cuore. Sono uomini che sanno creare stelle danzanti, perché solo coloro che hanno il caos dentro di sé possono generare stelle danzanti.

I vagabondi hanno un'attenzione reverente per le voci della vita, quelle più dimesse e umbratili. Alla vita chiedono solo il permesso di stare a guardare, in un'eterna domenica del cuore. Sono assetati, sono affamati, ma nel loro volto sempre un sorriso lieve aleggia, benevolo. Sotto certi aspetti, sono uomini primitivi, hanno in disprezzo i confini e sono alfieri del futuro. Adoratori dell'infedeltà, del mutamento, della fantasia. Nomadi, cercatori e non depositari. Gli uomini come Francesco sono dei veri vagabondi, con vizi e peccati piccoli piccoli. A loro ogni spregiudicatezza è permessa. S'incontrano così come viene. Vagabondi sulle strade, a cavallo, in nave, fanno a botte senza sosta e all'amore con allegria. Niente è in loro veramente volgare. Hanno una bramosia di vivere e di esistere, stretti al cuore buono della terra. Santificano ogni momento. Ogni sentiero è quello giusto. Nord e sud, est e ovest, tutti i punti cardinali appartengono a loro e ogni punto ha un profumo di vino e mandorle. Pronti a morire, pronti a rinascere. Se ne vanno sempre con la speranza in petto, anche quando non sanno dove andare, anche nella più estrema insicurezza. Se ne vanno nel labirinto del mondo, perdendosi e ritrovandosi: in fondo sperare significa soltanto ritrovarsi nell'amore di ciò che abbiamo saputo perdere. Vivono malinconicamente giorni dorati, nella pienezza dell'essere, evocando un dio scomparso e cantando sempre le stesse canzoni.

Mangiano ciò che hanno nel tascapane e se ne vanno con pantaloni sfilacciati. Ogni donna che incontrano è per loro un angelo. Non ne vogliono conoscere il nome, perché non è lei la meta del loro amore, ma ne è l'impulso. La donna permette l'accrescersi dell'amore per il mondo. Percorrendo mille vie si smarriscono e hanno nostalgia di buoni letti, di panche nel giardino e di profumi di una cucina raffinata. Alla sera sono troppo stanchi per svestirsi e alla mattina troppo pigri per alzarsi. Per loro l'esistenza non ha bisogno di giustificarsi, i loro pensieri sono un gioco. La vita e l'arte è un gioco, con le sue regole e con l'esigenza di superarle, con la sua serietà e leggerezza, con la concentrazione nello svolgersi del gioco stesso e con la voglia di superarlo. Tecnica e fantasia, libertà e costrizione, così nell'arte così nella vita. Francesco aveva in sé una specie di profumo diffuso, era per questo che le ragazze dietro a lui andavano, stordite. Il suo cibo erano focacce con l'uva passa che donano energie e desideri. Lo si poteva vedere, il giovane Francesco, saltare per i campi, balzando, tra anemoni e papaveri, simile a un capriolo, chiamando l'amata: "alzati, mia bella, mostrami il tuo volto fatto d'incanto. Le tue labbra stillano latte e miele e con la tua bocca voglio alimentarmi. Il tuo respiro ha una fragranza di mele mature e nelle tue vene scorre un nettare misterioso che aiuta il cuore a battere forte."

Appena si concedeva a una donna, questa diventava bellissima per lui. L'esperienza gli aveva insegnato che ogni donna che ama dona vita: quella giovane dona ardore, quella matura tenerezza. A tutte si dava con dedizione e avrebbe continuato sempre così, ad andare e ad amare sempre così, con quella inquieta e traboccante pienezza del cuore, tanto bella quanto tormentosa. "Amami intensamente, poi con un altro va", usava dire Francesco alle sue donne. Amare con forza, con verità, questo era importante, non la durata. Detestava solo chi amava barando, chi fingeva l'amore per sesso, per soldi, per interesse. "Resta, sei bella nell'attimo fugace, nell'attimo feroce", in quell'attimo tutte le profondità si aprivano a Francesco, ma solo in quell'attimo, rapidissimo e terribile. Non è possibile, non è concesso, che vi si possa soggiornare a lungo, perché le profondità sono luoghi proibiti.






Renzo Cresti - sito ufficiale