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Leggermente si curva la luce (parte seconda)
Leggermente si curva la luce (parte seconda)



Francesco odiava gli amplessi che non spossavano. Lui tornava dai suoi amplessi come da un viaggio nella prateria. Le sue Veneri si mutavano in mille figurazioni. La mano vagava sul corpo caldo, cercando i punti che fanno gemere, "poi, un giorno" - pensava - "qualcuno che mi rassomiglia verrà a ricominciare". Aveva dormito sulla paglia, sulla spalla dell'amica fottuta, aveva messo la testa fra le braccia di una zingara, aveva succhiato latte dalle poppe di un nera, facendo della sua vita un esperimento. Diceva alle sue amanti di non chiamarlo per nome: "inventa tu un nome. Chiamare per nome significa creare, chiamare a sé, evocare un destino. Chiamami col tuo nome e così io trapasserò in te". Francesco aveva amato molte donne, aveva amato lo smarrimento del sentirsi innamorato, la testa vuota, il batticuore, i brividi e i timori, la trepidazione e il richiamo del sesso, disperdendosi fra le folli braccia del vento.
 
Francesco era sempre in viaggio, portandosi dietro la febbre della scoperta. Arrivi e partenze non si contavano nella sua vita, forse qualcuno era anche rimasto, qualche vecchio volto che neanche lui sapeva più riconoscere. S'allontanava e raramente veniva richiamato, si sentiva sempre altrove. Come un eroe futuro cavalcava la luna, non trovando mai un abisso entro cui gettarsi, sorvolando mille città e altrettanti deserti, con l'orizzonte sempre in fuga. Il suo io viandante non aveva meta e in questo errare si scontrava con la vita, si esaltava e si stancava, ma diceva a se stesso che la fragilità si addice a un gigante. Amava la sorpresa più della fedeltà, amava il volto più usato, ed era subito al di là. A Parigi, Francesco e i suoi amici entrarono nelle viscere della città, la godettero fino allo sfinimento. Furono però talmente stolti da finire tutti i soldi. Mezzi brilli, prima di ripartire, chiesero asilo, con bella faccia tosta, nientemeno che al convento di Notre-Dame. Furono accolti.
 
I compagni di Francesco continuarono a cantare canzoni goliardiche e furono buttati fuori. Francesco, cotto dalla stanchezza, accettò volentieri un povero giaciglio. Alla mattina, col mal di testa, si recò dall'abate per ringraziarlo e per riprendersi il cavallo. Ma il suo cavallo se l'erano portato via i cari "amici". L'abate lo convinse a riposare ancora un po'; avrebbe poi cercato il modo di mettersi in contatto con i genitori, farsi mandare un po' di denaro, comprare un altro cavallo e ritornare a casa. Francesco dormì tutto il giorno, poi si svegliò con un senso di torpore. Bestemmiò per la disavventura. Pensò che aveva sempre disprezzato i preti, considerandoli come essere castrati, mantenuti artificiosamente in una puerizia, fanciulleschi o cinici nel loro mondo chiuso, privo di passioni e ben cintato, dove, per tutta la vita, si fanno giochi garbati, innocui o cruenti, dove si neutralizza o si devia ogni impulso di vita che possa turbare, ogni sfogo del cuore. Essi vegetano, da vili, in un mondo sterilizzato, dove non si conoscono né la fame, né la sporcizia, un mondo senza donne, senza figli. L'odio per le donne e la sessualizzazione della colpa parevano a Francesco qualcosa di orribile e forse lo era, eppure... c'era un quid di purezza che sapeva di buono. Negli stanzoni del convento pareva soffiare uno spirito di libertà, pur nella costrizione di regole severissime, un vento che purificava l'aria sporca del mondo. I monaci erano forse dei folli, dei furbi che si erano tirati fuori dalle zuzzure del mondo, una sorta di angeli o dei demoni? Le cose temerarie come il lavoro, le fatiche manuali, i soldi, la politica, vengono relegati agli altri. Senza preoccupazioni alimentari e senza doveri molesti si fa una vita da fuchi e, per non annoiarsi, ci si dedica alle lettere, alla musica, mentre fuori, la gente soffre le lordure del mondo, sopravvive di stenti e lavora spezzandosi le reni.
 
Gli venne voglia di uscire dal convento al più presto, ma pensò anche che la sua avversità contro i preti era superficiale e che, in fondo, come minimo avrebbe dovuto ringraziare per l'ospitalità. Non voleva apparire puerile, anzi si disse che questa era una bella occasione per curiosare nella vita di questi eunuchi. Si recò di nuovo dal padre guardiano e, dominando un certo senso di disprezzo, cercò d'intavolare una sorta di discussione: "com'è la vita al convento?" chiese ironico. Il padre gli mostrò una certa benevolenza e lo invitò nelle cucine, per sfamarsi. Francesco provava un forte senso di estraneità e di imbarazzo, ma stando accanto all'abate finì per trovarsi a suo agio. Mangiò a grandi bocconi e una stupenda zuppa di cipolle calda lo mise di buon umore.
 
Si concentrò sull'imponenza e sull'ampiezza delle stanze, lo conquistava la bellezza delle pareti, alte e austere, la semplicità dell'arredo, l'odore di buono che quell'ambiente emanava. Chiese di visitare l'archivio e la biblioteca, fu colpito dai numerosi e straordinari manoscritti musicali. Vide l'appartamento dell'abate, parecchi cortili, i due refettori, la celebre sala del capitolo, i giardini curati, il chiostro, le officine dei monaci, nonché quelle dei fratelli laici, del calzolaio, del sarto, del fabbro. Tutti furono gentili con lui. L'organista gli mostrò il grande strumento. Con gesto istintivo Francesco intonò una canzone, meravigliando non poco l'organista per la bellezza della sua voce. Fu invitato, il giorno dopo, a seguire una prova del coro. Ne fu felice, si addormentò con l'impazienza nel cuore.
 
Chi va sempre in giro come Francesco, si porta tutto quello che ha, anche la febbre e la stanchezza, la voglia di tranquillità e serenità. Chi fa della sua vita un viaggio ha visto tante città e tante colline, tanti volti e tanti sguardi, più di quelli che esistano in realtà. Ogni tanto ha però voglia di tempi lenti e di spazi fermi. Chi viaggia guarda il cielo. Per orientarsi, per pregare. Dopo tante ore trascorse a guardare il cielo, ci si accorge che non siamo noi a guardare in sù, ma è il cielo che osserva noi. Come ogni pellegrino, chi viaggia è disponibile ad accogliere gli altri. Gli altri, quando vengono accolti, non sono più altri, ma diventano parte integrante della nostra vita. Gli altri sono un dono. Si viaggia in verdi prati, sotto un sole primaverile, fra papaveri rossi rossi. Si viaggia in giardini di ciliegi, dove l'aria sa di frutta matura. Si viaggia in calde notti estive, parlando alle stelle. Per chi viaggia veramente anche il sentiero ciottoloso è un prato verdissimo, anche l'albero spoglio è carico di frutti, anche nelle gelide notti invernali c'è una luna materna che protegge, perché chi viaggia non chiede e sempre accoglie e sempre ringrazia.
 
Chi viaggia ha un umore vagabondo che entra ed esce, fischiettando. Chi erra va e chi erra sbaglia. Chi viaggia ama solo il viaggio, ma il viaggio è un viaggio verso l'amore. L'amore è dunque la verità del viaggio. Amore e verità non sempre coincidono, vi è, per esempio, anche l'amore per il dubbio che serve per non accettare passivamente ciò che ci viene propinato: vi è dunque un parallelismo fra verità e dubbio? Potremmo forse dire che il dubbio è necessario all'accertamento della verità, la quale - senza il sale dell'interrogazione - è sciocca credenza perpetuata da usanze (più o meno imposte).Giuda è forse il punto interrogativo più grande nella storia del Cristianesimo. Giuda il traditore o Giuda che realizza il volere di Gesù? Senza interrogativi si vive stupidamente beati nel luogo comune.
 
Durante la notte i sogni di Francesco si accavallavano: la sguaiatezza dell' "Osteria del santo" si mescolava al contegno dei padri reverendi, i colori accesi e le immagini oscene facevan tutt'uno con i grigi della pietra, con la pazienza bonaria dei preti che aveva incontrato. Cosce e culi sfilavano negli antroni del convento, il crasso erotismo delle battone cozzava contro i visi meditabondi dei padri. Il tenore di vita, il tono della voce di quegli uomini aveva un respiro particolare, lento, solenne, come se appartenesse alla notte dei tempi. Intuì che era lo spirito dell'Ordine, era il centenario respiro di una comunità anticha, che, nella buona e nell'avversa sorte, aveva dato prova di appartenere alla natura. La mattina si recò, con molta curiosità e con scetticismo, alla prova del coro. L'organista lo fece sedere in fondo alla stanza, in un angolo buio. Entrarono, uno a uno, lentamente e in silenzio, i coristi. Erano tutti volti giovani, guance pulite, capelli lavati, corpi curati. Francesco sorrise e pensò che quei ragazzi erano dei damerini che non conoscevano la vita vera. Il loro atteggiamento era servizievole e rispettoso, volutamente sottomesso all'educazione spirituale, alla regola della castità.
 
"Se c'è una regola stupida è quella della castità" - pensava fra sé - "come se uno non potesse aver fede in Dio amando le donne, anzi proprio nell'amore, anche in quello d'osteria, si celebra e si festeggia Dio." Uscì per prendere un po' d'aria. Fuori dal convento vide delle mucche al pascolo. Nello sguardo delle bestie si specchiava l' aperto del mondo, libero, vi si riconobbe. L'animale ha il suo tramonto sempre dietro a sé e quando va, va, in eterno, come vanno le fonti. Nell'animale c'è sempre vita. Quando la morte gli è vicina non la vede, continua a guardare la natura, senza pensare al proprio stato, si concede, innocente, al destino. Gli animali vivono, sempre. Gli si avvicinarono degli uccellini. Ve ne erano di verdi, di variopinti e tutti anelavano al pane. Erano tutti dei mendicanti. Un frate si avvicinò a Francesco e gli porse un pezzo di pane. "Dai delle briciole agli uccellini" - disse il frate - "sono dei mendicanti che ti ripagano con il canto". Francesco prese il pane con un sorriso e gettò briciole a destra e a manca, sfamando decine di piccoli esseri. Si accorse che non tutti avevano lo stesso carattere: alcuni, in cerchio ai suoi piedi, aspettavano che le briciole di pane cadessero per terra, altri volteggiavano intorno a lui, cercando di prendere le briciole al volo. Si accorse perfino di un ladruncolo che veniva a becchettargli in mano la fetta di pane.
 
Avrebbe voluto seguire il frate e parlare con lui, dolcemente. Francesco intuiva la profonda serenità di quei luoghi, ma gli piaceva ancora troppo vagare, per Francesco era sempre tempo d'aprile. Gli si profilava il desiderio di far piazza pulita del suo passato, un'esigenza ecologica: filtrare, decantare, ridurre il suo passato a un nocciolo essenziale. L'arrivo al convento gli aveva indicato una strada diversa, quella che porta a spogliarsi del superfluo: trattenere le cose buone del passato e volgerle a un futuro dove il cielo fa tutt'uno con la terra. Voleva essere una cipolla in una povera mensa, una tazza di brodo nelle mani di un ammalato, una corda di violino in una danza popolare, una palla in un campo dove giocano i ragazzini. Voleva diventare un semplice bicchiere di vino in un'osteria del porto. Nei giorni seguenti, mangiava sempre di meno, gli bastava una cipolla, un po' di sale, una fetta di pane e un bicchiere di vino, che beveva più perché gli faceva compagnia, perché era stato confidente amico che non per piacere, infatti lo sostituiva a volte, con un senso di tradimento, con l'acqua.
 
Avrebbe voluto vestire di stracci e andare povero fra i poveri, vivendo la vita nei suoi strati più bassi. Faceva esercizio di umiltà e abbassava gli occhi, mortificando volutamente la propria intelligenza in pratiche di raccoglimento. Che sarebbero la ragione e la temperanza senza i tumulti della vita e l'ebbrezza dell'amore? E il mangiar cipolle non era anche questo un atto d'amore? La religione non è il senso di qualcosa che ti oltrepassa? Religione viene da religare, legare l'uomo a quel quid sconosciuto ch'è più grande di lui, come la Natura, come l'uomo inteso come Umanità, come Dio, come il Dio di tutte le fedi. Quando Francesco andava per i prati non compiva un atto religioso? E quando pagava da bere agli amici e amava le donne non compiva un atto religioso? E quando pensava ai preti e alle chiese, odiandole, non compiva un atto religioso? Quando Francesco sentiva dentro di sé un'inquietudine non era in uno stato religioso? E quando gli pareva di avere dentro di sé un Ospite, uno sconosciuto compagno di viaggio, una sorta di Altro nascosto nelle viscere, non stava sperimentando uno stato religioso? Ora la voce di questo Ospite interno gli si faceva più chiara e meno turbolenta, sembrava chiamarlo a una maggiore responsabilità e a una più profonda consapevolezza dell'esserci.
 
Accanto alla febbre di vita, si manifestava, più forte, un'esigenza di ritiro, perché lo stare davanti, in prima fila, in contatto con gli altri, addosso agli eventi, aveva provocato l'effetto di ostruire ogni spazio vitale. C'era un bisogno di starsene discosti dal proprio narcisismo, una distanza o un esilio ch'era un modo per riscoprire se stesso, sotto una luce diversa e più limpida. Francesco metteva ora, fra sé e le sue esperienze, una frontiera, un luogo dove esitare, dove rallentare, un vedere la sua vita un po' più da lontano. Questo sguardo da lontano non era più potente, era semplicemente una sorta di occhio laterale, spostato e mobile, necessario a inquadrare una cosa che si dà di sfuggita, un occhio in grado di osservare gli aspetti latenti. Non si trattava di una seconda vista, ma di uno sguardo divaricato che sa sdoppiarsi e riconoscere l'alterità, uno sguardo a metà strada fra l'essere e le cose, uno sguardo che realizza il paradosso di stare dentro e fuori. Francesco decise di rimanere al convento, anzi non fu una vera decisione, era come se fosse costretto dal suo Ospite interno, come se fosse stato chiamato da una voce a cui non si può disobbidire, come fosse nell'ordine delle cose. Francesco era stato colpito da un cambiamento non previsto, che considerava irragionevole, ma irrevocabile, duro e inesorabile, come il destino. Era stato vocato. L'umiltà non è sottomissione, anzi è prova di forza interiore. E' un atteggiamento semplice che significa rispetto verso colui che ti sta di fronte. Accoglienza significa incontrare l'altro, con viso lieto, ospitarlo in sé. E' accettazione di un qualcosa che ti fa più ricco, perché ti libera dalle tue abitudini e si dona come unione. Finalmente Francesco si stava donando e aveva scelto la via più difficile.
 
Passò interi mesi in silenzio, concedendosi solo la gioia di ascoltare i canti del coro. Davvero ospitale è il silenzio, solo il silenzio lascia spazio alle esigenze dell'altro, è quello lo spazio della responsabilità e dell'accoglienza. L'uomo è padrone del proprio sé solo quando sa addentrarsi nel silenzio. L'uomo si perde nella parola, ma per far proprio il silenzio non basta star zitti, bisogna spogliarsi interiormente. Quando rientrava dalle prove del coro, Leone lo aspettava a mensa. A Francesco piaceva andare a trovare il Maestro, sul far della sera, quando la campagna ha una dolcezza di madre, quando i campi si chetano, l'aria è più leggera e gli odori si spandono, quando la tenue luce dell'intima luna campagnola gli si posava sulla pelle, carezzandolo. Fra le panche della mensa, Francesco s'immaginava una vita d'amore, d'amore e basta, tanto feconda da colmare qualsiasi solitudine, forte più di ogni felicità, al di sopra di tutte le miserie, dove il tempo si sarebbe risolto in una perpetua espansione di se stessi. Una vita alta e rilucente come un palpitare di stelle.
 
Bernardo non andava più a Parigi, perché il viaggio lo stancava. Fu Francesco ad andare a Chartes per incontrarlo. Una gioia festiva impregnava l'aria, i due si abbracciarono e a lungo si tennero strette le mani in silenzio. Insieme partirono per un viaggio nei silenti sentiri del Cielo, fu l'unico viaggio fatto insieme. I pensieri, nel ristagno della sera, affondavano lentamente.
 
In attesa
 
Bernardo morì improvvisamente. Lo trovarono sulla panca della sua cella, con un libro in mano e un sorriso dolce sulle labbra. Sembrava stesse cantando. Cosa sappiamo noi della morte? Possiamo solo raccontare quella degli altri, per averla vista, non possiamo testimoniarne in prima persona. La vita ci sembra sempre troppo corta e la morte ci sorprende, eppure la si aspetta, ci aspettiamo di incontrarla e di incontrare noi stessi insieme a lei, come si avesse un appuntamento con un sé che non si conosce. "Morte" è un nome segreto, la possibilità dell'impossibile, perché nessun uomo ha un rapporto con lei, ma con quella dell'altra gente. Non si può accedere alla morte vivendo, è una frontiera insuperabile, che pur dovremmo oltrepassare: noi aspettiamo la morte come l'alterità assoluta e lei aspetta noi su una soglia sconosciuta. Aspettarsi l'un l'altro ai limiti della Verità.
 
Nel riconoscere la propria natura mortale l'uomo si abbandona al fato, si apre al mistero. Nella meraviglia del mistero si dischiude ciò ch'è chiuso, da esso siamo chiamati e siamo accolti tanto più profondamente quanto eravamo in attesa. Il pensiero deve rinnegare la propria volontà di dominio per accettare un incontro sconosciuto. La morte si dà all'uomo e in questo darsi chiude un'esperienza di vita, ma fa della vita stessa una testimonianza, definitiva ed essenziale, possibile solo grazie alla chiusura. La morte aveva fatto della figura di Bernardo un'esempio di vita, affrontata con una profonda coscienza culturale, una testimonianza d'amore, basata sul Bello musicale. La morte ci consente di guardare dentro un orizzonte, un orizzonte che dobbiamo oltrepassare, in ultimo. La vita perde il suo carattere di divenire e si acquieta in sé, si rivolge in se stessa, dispiegando, nel passaggio finale, il senso nascosto della verità, almeno di quella piccola verità della vita da noi vissuta. La morte è allora un nome dell'Essere.Bernardo era invecchiato in maniera delicata: prendeva meno cibo, tornava stanco dagli esercizi spirituali e anche il cantare lo affaticava, ma la sua vecchiaia era quieta e dignitosa, vissuta dolcemente. Era come se, da tempo, si fosse messo in viaggio, per un appuntamento con un Altro sé che non conosceva e che però aveva sempre dimorato in lui.
 
L'Altro da sé che nella più sperduta interiorità abita nascosto forse non è che la morte, che dalla nascita ci accompagna. Il nostro Ospite non è dunque che l'ultima dimora e solo quando a questa siamo giungiamo è possibile fare i conti con quello che è stato il nostro vissuto. Allora l'Altro non è più Altro, ma si rivela essere per quello ch'è sempre stato, una parte di noi, è forse quello che i cristiani chiamano Anima, quell'ineffabile che non muore e che - come un canto - vola verso il Cielo, collegando la nostra vita al Tutto. Dopo la morte di Bernardo, per Leone l'aria aveva sempre uno strano profumo di convalescenza. Si metteva in ascolto, nella speranza di sentire ancora i passi di Bernardo, oramai troppo lontani per udire il richiamo: "dimmi, fratello, cosa mi accadrà?" Leone sapeva che era inutile andare alla ricerca dell'anima del fratello defunto, era lui stesso che, se lo trovava degno, sarebbe a lui venuto. Per riabbracciare Bernardo, Leone doveva spogliarsi di sé ed essere come un ruscello che canta la sua melodia alla notte. Solo così Leone poteva trovare quell'intima e segreta correlazione fra lui e Bernardo, fra purezza terrena e universalità celeste.
 
Leone morì improvvisamente, come Bernardo. Lo trovarono su una panca del coro, con uno spartito in mano e con un dolce sorriso sulle labbra, come Bernardo. Sembrava stesse cantando, come Bernardo. Il Papa mandò una missiva di cordoglianze, nella quale si diceva, oltre che del suo dolore, che anche a Roma era giunta la musica nuova e con grande interesse e felicità di tutti. La musica ha il potere di penetrare l'animo umano, di avvolgerlo col mantello immateriale dei suoni, ma - contemporanemente - è l'arte più porosa che assorbe tutti gli umori e i pensieri di una collettività, è per questo che la musica dev'essere nuova, perché solo la musica che viene fatta nel momento stesso in cui l'uomo vive si fa specchio delle esigenze, dei sogni e bisogni dell'uomo che vive. Leone fu fatto beato. Ma Leone era già beato in vita, abitante del nostro mondo e insieme già di un altro. Francesco viveva oramai da tempo in convento, con serenità. Fu dolorosamente colpito dalla morte dei due grandi fratelli, ma rimase sereno. Si destava all'alba, con un cuore alato. Riposava nell'ora del meriggio, meditando sull'estasi che dona l'amore. Usciva accarezzando i capelli ai bambini e, quando rientrava a casa, aveva il cuore pieno di gratitudine. S'addormentava pregando, con un canto di lode sulle labbra. Come Leone e come Bernardo.
 
Immerso in una vaporosa atmosfera, Francesco viveva in una sorta di limbo, come su una soglia fra la realtà e un'estasi infinita. C'era in lui mistero. Seguiva silenzioso la freschezza delle ore, quando l'infinito ha il sapore della frutta matura. Provava un fanciullesco incanto ad ammirare le farfalle sospese e leggere, erano come lui, come Bernardo e Leone, si cullavano in danze lievi, sfavillanti al sole, trasparenti come l'alabastro. Provava una meraviglia inquieta a pensare al flusso incantato delle perenni trasformazioni, l'ondeggiare di quelle ali vellutate gli sembrava un po' triste, percorso da un'ansia trepida, dalla crudeltà del tempo che passa e va.
 
Da anni, anche per Francesco, il convento era diventato un contenitore di piccoli gesti, pregno di umori, un sistema chiuso che si accordava perfettamente ai mutamenti degli stati d'animo e che sempre si chiudeva in sé raggomitolandosi. Ogni centimetro della sua dimora odorava di lui, vi era in tutta l'abitazione una specie di umidità, come spirito essudato; le cose stesse parevano sudare, emanando fluidi animali. Gli oggetti occupavano il posto che dovevano occupare, stavano in un luogo e non in un altro come per volere divino, e tutti sembravano in fremente attesa di un gesto, di essere toccati, di venire in contatto con chi aveva dato loro un'anima. Come per Bernardo, anche per Francesco il passatempo preferito era uscire in giardino e seguire, con lo sguardo abbandonato, i campi impressi da echi rassicuranti, da un ritmo cullante che lo incantava.
 
Francesco occupava la stessa stanza ch'era stata di Leone. La figura di Leone si confondeva con quella di Bernardo. La luce e la musica diventavano un'unica cosa. La musica, anche per Francesco, era una sorta di atrio luminoso che introduceva all' unità intuita di tutte le cose. Fra sé, Francesco intonava i canti di Leone. Nei canti del Maestro la dimensione propria della musica, il tempo, tendeva a dilatarsi in una spazialità che trascendeva l'io, approdando a luoghi benevoli, prossimi, recuperando, nella sua pienezza spirituale, il bisogno di qualcosa che non è udibile, che si trova ai limiti della realtà, ma che c'è. Lo stupore che questi suoni producevano derivava dal fatto che essi parevano alludere a un non-so-che che oltrepassa l'uomo, alludendo a una visione, a un qualcosa di non ancora visto, ma presente. Con la musica la coscienza si allargava e comprendeva la vita di tutti, diventava ampia come l'universo. Collegando il tema dello stupore a quello della speranza. In quegli anni, altri novizi arrivarono. Tutti volevano diventare piccole cose: un bicchiere di vino in un'osteria del porto. Una cipolla in una povera mensa, una tazza di brodo nelle mani di un ammalato, una corda di viola in una danza popolare. Tutto è inserito nella circolarità del Tempo.
 
Il nuovo torna nell'antico e il vecchio si fa nuovo, questa è la ruota della vita. Ancora una volta l'arte allude bene a questo circolo vitale, infatti nell'arte tradizione e ricerca fan tutt'uno, se predomina la prima non è arte ma ripetizione accademica, puro calco senza vita, se preomina invece l'atto sperimentale l'arte diventa un atto intellettuale, interessante per la cultura ma non per l'arte, la quale vive di un soffio assolutamente stra-ordinario. Mangiavano sempre di meno e vestivano di stracci, andando poveri fra i poveri, vivendo la vita nei suoi strati più bassi. Facevano esercizio di umiltà e abbassavano gli occhi, mortificando volutamente la propria intelligenza in pratiche di raccoglimento. Avevano bisogno di starsene discosti dal proprio narcisismo, una distanza o un esilio ch'era un modo per riscoprire se stessi, sotto una luce diversa e più limpida. Fra gli ultimi arrivati c’era Duccio. Tante volte Bernardo lo aveva invitato a Parigi, ma a Duccio piangeva il cuore a lasciare solo Dante, così, per tutti questi anni, gli era rimasto accanto, aiutandolo a rigovernare, apparecchiando la mensa per tutti gli altri fratelli. Prima di morire anche Leone aveva chiamato Duccio, il quale non arrivò in tempo per conoscere il grande Maestro. Dopo la morte di Bernardo, Duccio si decise di andare finalmente a Parigi. Quando Duccio arrivò a Notre-Dame venne accolto con un sorriso di madre.
 
Duccio fu fatto accomodare nell’atrio che conduceva al Coro. Non dovette aspettare a lungo, eppure gli parve un’eternità. A un tratto vide entrare un uomo, con i capelli bianchi e occhi penetranti, dal bel viso chiaro e dolce, sereno, di una serenità non ridente, ma calma e radiosa. Era Francesco che abbracciò Duccio: “finalmente ho il piacere di conoscerti, il nostro grande fratello Bernardo mi aveva parlato di te e anche il Maestro Leone avrebbe voluto incontrarti, ma la tua umiltà ti ha trattenuto. Vedo in te, nel tuo silenzioso contegno, l’ubbidienza ai padri reverendi. Vedo nel tuo essere servizievole l’essere sottomesso alla Regola del tuo convento, una Regola che ti ha fatto sguattero e che tu hai accettato con bonaria pazienza e gioia spirituale, perché la Regola è la tua educazione spirituale. Adesso non sentirti in colpa per aver abbandonato il fratello cuoco, se la caverà, anzi, per lui il non poter contare sul tuo aiuto sarà una bella prova che lo aiuterà ad elevarsi ancor più spiritualmente. E tu qui conoscerai cose nuove, purtroppo non avrai il conforto del tuo caro Bernardo, né conoscerai la bravura di Leone. La Provvidenza ha voluto che tu venissi qua dopo la loro scomparsa, evidentemente ha voluto che tu affrontassi questa nuova esperienza da solo. Sul mio aiuto non potrai contare, oramai io coltivo solo il silenzio, però ti istraderò. Vieni facciamo un po’ di musica assieme.”
 
Duccio aveva ascoltato le parole di Francesco in perfetta immobilità, senza alcun gesto e con occhi semichiusi e lucidi. “Vorrei che tu cantassi una melodia di tuo gusto” - disse Francesco. Duccio confuso e affascinato si vergognava, trovò poi il coraggio per intonare un vecchio Salmo. “Da capo” - disse Francesco che, questa volta, cantò insieme a Duccio, così la melodia riuonò a due voci. “Da capo” - disse ancora Francesco - “cantiamo finché questa musica non è entrata in noi, finché non appartiene ai nostri cuori.” Dopo aver cantato molte volte la melodia, non c’era più bisogno d’intesa fra i due cantori e, a ogni ripetizione, il canto si arricchiva di sviluppi e abbellimenti. Nella nuda sala i suoni echeggiavano festosi. Francesco e Duccio si abbandonavano alle linee musicali affratellate, cullandosi obbedienti a un direttore invisibile. Era la musica stessa che li dirigeva. Il cuore di Duccio traboccava di venerazione per Francesco, gli pareva di ascoltare musica per la prima volta e intuiva il perché, era perché capiva che questa musica, che si formava davanti a lui, trasmetteva il senso dell’armonia universale, l’unione fra la legge e la libertà. Vedeva sé stesso, la sua vita, il mondo intero guidato, in quei minuti, ordinato e interpretato dallo Spirito della musica.
 
Duccio capì l’attrazione che Bernardo provava per Leone, era la stessa che lui provava per Francesco, un’attrazione verso figure che non appartenevano a questo mondo, ma erano altrove, in una soglia fra realtà e fantasia, fra Terra e Cielo, persone beate che introducevano a tutto ciò che oltrepassa l’uomo. La musica era lo strumento per sperimentare l’atto della vocazione, quell’atto per cui il mondo ideale diviene visibile e si spalanca in un invito. Quel mondo ideale non solo esisteva davvero, ma era presente e attivo, mandava irradiazioni e messaggi, luce e suoni. Da quel mondo i venerandi fratelli lo chiamavano, chiamavano proprio lui, l’umile Duccio, che accoglieva quei richiami come un dono. L'uomo pio sempre va ringraziando. Come una giovane pianta, sviluppatasi fino a un certo momento con esitazione, a un tratto incomincia a crescere con più vigore, così Duccio si sentì crescere, iniziò a sentire nuove energie e nuove armonie. Riusciva ad avvicinare cose prima solo intuite, perché la sua anima era stata svegliata e, con una profondità nuova, si figurava di appartenere al vento e alla pioggia, ai fiori e agli alberi, ai muri del convento e alle panche del coro, ai canti e alla musica. Rapito dalle nuove melodie trasportava il proprio io verso il mistero dell’esistenza, in perfetta innocenza. Duccio conosceva una gioia nuova, si rammaricava solo di non aver accanto Francesco, sempre più eremitico. Si rendeva conto che avrebbe dovuto rimanere a Notre-Dame per tutta la vita, avrebbe dovuto continuare il lavoro di Francesco, prendere il suo posto nella vita del convento e del coro, perché Francesco si era oramai ritirato dalle attività pratiche e lui, Duccio, era lì per continuare a far girare la ruota della vita, dell'aspirazione religiosa e dell'arte.
 
Francesco trascorreva interi mesi in silenzio, concedendosi solo la gioia di ascoltare i canti del coro. Davvero ospitale è il silenzio. Invecchiato, una sera, Francesco, sentendosi stanco, con dolce lentezza si coricò, sul suo piccolo immenso giaciglio. Addormentandosi cantò per l'ultima volta.
 
Leggermente si curvava la luce, addolcendo il viaggio, trascinando con sé il tempo.
 
 
 
 
Dalla Rivista Pietraserena nn. 28-29, Signa (Fi) Inverno 1997.



A Chiara che ama particolarmente questo scritto






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