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Minimalismo, Ellis, "Less than Zero"
Meno di zero: il Minimalismo americano fra musica, arte, letteratura e il romanzo di Ellis



Da Chiara Calabrese, Minimalismo e il romanzo di Ellis, "Meno di zero", in Rivista "Pietraserena", Lastra a Signa (Firenze) 1998.




"This is the game that moves as you play...”
“La prosa è architettura e questa non è l'età del barocco”
Ernest Hemingway

Introduzione

Il Minimalismo comincia a delinearsi già all'inizio del Novecento, anche se il termine sarà coniato intorno agli anni Sessanta per una corrente musicale e per un gruppo di pittori e scultori.

Nel nuovo secolo l'individuo deve misurarsi con una società in cui l'isolamento predomina sulla socialità. La centralità comunicativa del linguaggio entra in crisi, anche a causa dell'esplosione dei sistemi formali che scardinano la struttura centripeta e monolitica della cultura, aprendo la via all'indeterminazione e alla rottura della legge di causa-effetto.

Un punto di contatto tra il mondo dell'arte e della letteratura da una parte, e quello dei sistemi formali dall'altra, è rintracciabile nella prima fase del pensiero del filosofo viennese Ludwig Wittgenstein. La forma logica del linguaggio secondo Wittgenstein non è enunciabile, e altrettanto vale per la forma logica isomorfa del mondo la quale non si può “dire” ma solo “mostrare”. In questa ottica l'etica, in quanto posizione di valori, di finalità, di doveri, non è un fatto del mondo, non si può esprimere. Non c'è risposta sui valori perché non è formulabile neppure la domanda. Filosofia dunque come critica del linguaggio e impossibilità del medesimo, e dunque della filosofia, di dare una definizione globale del mondo. Questo rifiutarsi di irrigidire il mondo in spiegazioni può riportarci al Buddismo Zen. Il Maestro Zen accetta con gioia il caos, il fluire libero della vita, consapevole che la crisi eterna dell'uomo nasca proprio da questo voler definire un mondo che per sua natura non deve essere spiegato.

Musica

Tutto cominciò con l'introduzione del rumore in musica. E' a John Cage che la musica americana deve questa innovazione. Già Debussy aveva posto l'accento sull'importanza del silenzio come mezzo espressivo per far risaltare l'espressione di una frase musicale, e Cage pone l'accento sul fatto che “silenzio” è inscindibile da “rumore”, il silenzio assoluto non può esistere né in natura né artificialmente. Egli si impegna a concentrare l'attenzione dell'auditorio sui rumori che fanno parte del silenzio. L'opera in cui manifesta chiaramente questa intenzione, e che è stata poi indicata come il momento di origine del minimalismo, è un'opera per pianoforte il cui titolo indica unicamente la durata del brano in minuti e secondi, e che dal momento della sua creazione diverrà subito leggendaria: 4'33”. Il titolo rinvia alla prima esecuzione del pianista David Tudor il 29 agosto 1952 a Woodstock, in cui la durata dei tre movimenti fu di 33”, 2'40” e 1'20”. All'inizio di ciascun movimento Tudor avrebbe abbassato il copritastiera per poi risollevarlo alla fine del medesimo. Quest'opera muta, troppo rapidamente squalificata da molti come capriccio, in realtà nacque dalla volontà precisa di creare una situazione nella quale potessero diventare consapevolmente udibili i suoni parassiti dai quali normalmente ci si estranea in una situazione di concerto, quei suoni presenti in ogni spazio e in ogni pubblico qualunque sia la profondità del silenzio.

L'indagine di Cage su suono e rumore è molto simile a ciò che anni prima aveva fatto Gertrude Stein in letteratura. E' uno studio sincronico, formale, sull'evento sonoro. Il suono non deve esprimere, deve essere. Come la Stein astraeva la parola dall'antecedente e dal conseguente, liberandola dalla memoria di ciò che viene prima e dall'anticipazione di ciò che verrà e facendo di essa il nucleo dell'attenzione, altrettanto fa Cage con il suono. Cage si interessa al singolo evento-sonoro come elemento completo, udibile in se stesso e quindi incapace di sviluppo. Egli dispone i suoi suoni-eventi uno dopo l'altro, ed il loro rapporto è costituito semplicemente dalla coesistenza in uno stesso spazio. Molte delle sue composizioni sono costituite da poche note molto lunghe, ripetute con variazioni minime ed intercalate da pause anch'esse molto lunghe. Tutto questo si avvicina molto all'idea di una scrittura inserita nello spazio e fuori dal tempo che aveva la Stein , una scrittura che ricerca l'infinito della vita, che è un dipanarsi senza filo logico e utilità sociale, che comunica semplicemente l'esistere e il desiderio. Questo senso di una spazialità infinita dimentica del tempo è un carattere tipico della cultura americana, una cultura giovane, priva di memoria del passato, orientata spazialmente in un eterno tempo presente. Spazio e spazialità del resto hanno caratterizzato la letteratura americana fin dalle sue origini.

Cage riduce melodia e articolazione sonora al fine di concentrare l'attenzione sul suono-evento, e col medesimo intento porta alle estreme conseguenze l'idea di improvvisazione teorizzando e realizzando un particolare tipo di processo compositivo nel quale “il caso” viene ad avere un ruolo determinante. Questa origine casuale dei brani, oltre ad aumentare le “possibilità” del linguaggio musicale, fanno della sua musica una sorta di caos. L'analogia con la Stein, verso la quale d'altra parte Cage riconosce il suo debito, è di nuovo palese. La scrittura di lei, come la musica di lui, ha un'esistenza propria, separata dal mondo, e nella sua multiformità è occasione di piacere e di gioco, affermazione di vita. Anche la scrittura di Cage riflette la medesima ricerca da lui svolta in campo musicale, soprattutto nel suo modo di far risaltare le singole parole mediante l'uso di spazi bianchi (le pause musicali, i silenzi), e più in generale nella ricerca di un'organizzazione spaziale del testo (si veda a questo proposito il libro Silence, tradotto in italiano da Feltrinelli).

Per Cage, come per la Stein, le domande trovano il loro valore in se stesse, non richiedono una risposta. Si veda a questo proposito ‘Communication' in Silence, dove in tre pagine Cage ci propone semplicemente un elenco di domande. E si vedano anche le sei risposte buone per qualsiasi domanda, che egli prepara per i suoi contraddittori. Prendere per buona una qualsiasi risposta, come anche rispondere riproponendo una domanda, significa accettare l'assurdo dell'esistenza. Si pensi al Maestro Zen che accetta l'assurdo come tessuto del mondo. Ora, la differenza fondamentale tra il Minimalismo in letteratura e in musica, sta proprio nel diverso tipo di accettazione di tale assurdo. Più serena e distesa quella musicale, come lo era anche quella della Stein, influenzate entrambe dalla filosofia orientale, più angosciosa e travagliata quella letteraria, risentendo dell'Esistenzialismo filosofico e dell'assurdo beckettiano tramandatigli da Hemingway.

Anche la letteratura non è stata esente da un legame con lo Zen, anzi un'intera generazione di scrittori, la Beat Generation , che si colloca per lo più negli anni Cinquanta, tra Hemingway e il Minimalismo, ne è stata influenzata. I Beats (da Jack Kerouac, a Gregory Corso, a Ferlinghetti etc.) cercavano nel trascendente quell'ordine e quella perfezione che nella realtà non trovavano. Le loro corse On the Road rappresentavano un perenne viaggio alla ricerca di questa perfezione. Il loro spontaneismo, il loro individualismo sfociò in un rifiuto nella società ed erroneamente vollero vedere lo stesso tipo di rifiuto nel Buddismo Zen, non riflettendo sul fatto che lo Zen non rappresentava un rifiuto della socialità in generale, bensì di una socialità conformizzata in nome di una socialità spontanea che tuttavia gioisce del caos, della multiformità, e si fonda sul riconoscere l'altro come facente parte di uno stesso corpo universale. L'influsso del pensiero Zen sulla generazione dei Beat fu dunque più approssimativo che non sulla musica.

Con John Cage non si parla ancora propriamente di Minimalismo, anche se nella sua opera si trovano tutti gli elementi che lo caratterizzeranno. Il termine verrà fuori in riferimento ai suoi allievi e seguaci: Morton Feldman, LaMonte Young, Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass, la cui opera alla metà degli anni Cinquanta e continua tuttora. I primi tre tendono a enfatizzare la componente ipnotica presente nella musica di Cage e proveniente dall'influsso della filosofia e della musica orientali. Con LaMonte Young e Terry Riley invece, l'idea di suono come entità autonoma viene portata alle estreme conseguenze, l'ipnosi generata dalla ripetitività, dallo studio delle variazioni minime del suono, acquista un valore mistico: ci si sposta sempre più ad oriente. Come la generazione dei Beats si era allontanata dai modi innovativi della Stein e di Hemingway, con una fuga dal reale, uscendo dal mondo verso il trascendente, così LaMonte Young, Riley ed in parte Feldman escono dai limiti del quotidiano e del reale tracciati da Cage per andare alla ricerca del suono eterno. Steve Reich e Philip Glass invece concentrano il loro interesse sull'utilizzazione del nastro magnetico, con l'intento preciso di creare una musica molto ricca da un punto di vista informativo e quanto mai imprevedibile. Cage aveva raggiunto tale scopo soprattutto introducendo il caso nel processo compositivo, Reich e Glass invece producono una musica fortemente strutturata, basata sull'organizzazione precisa degli eventi nei tempi, ed è proprio grazie a questa strutturazione meccanica che l'opera acquista la propria autonomia rispetto al compositore.

Particolarmente significativo in questo senso è il lavoro di Reich. Dalle esperienze fatte col nastro magnetico e con apparecchi elettronici, Reich deduce un automatismo di composizione chiamato “sfasatura”. Si tratta di un particolare artificio sonoro in base al quale due o più strumenti identici ripetono lo stesso frammento melodico uscendo gradualmente dal sincronismo iniziale e dando luogo alle più diverse e imprevedibili combinazioni di suoni. Benché sia l'autore stesso a predisporre questo gioco di suoni tramite un meccanismo preciso, in realtà non ne può prevedere il risultato in tutte le sue parti. L'opera raggiunge così la propria autonomia, si impadronisce del meccanismo per farne il proprio mezzo di espressione e nella sua autosignificanza sfugge alle previsioni e a una precisa legge di causa-effetto. Reich parla di infinite sorprese generate dalla musica e del resto Wittgenstein aveva detto: “il linguaggio è un labirinto di cammini. Voi venite da una parte e vi ci riconoscete; giungete allo stesso punto da un'altra direzione e non riconoscete più il vostro cammino”.

Arti figurative

In campo minimalista c'è uno stretto legame tra musica e arti figurative. In Sol LeWitt, come in Reich, le opere hanno una loro parziale autonomia rispetto al compositore, a colui che stabilisce le regole in base alle quali l'opera viene strutturata, organizzata, composta. Sia in Reich che in LeWitt c'è l'idea di un'arte che privilegia i puri processi del pensiero dando vita ad un'opera racchiusa nella propria oggettualità. E del resto per l'ultima Stein la scrittura era l'esercizio della mente che riflette su se stessa. Nei suoi Paragraphs on Conceptual Art pubblicati su "Art Forum" nel giugno 1967, Sol LeWitt dà una precisa definizione del proprio lavoro e nello stesso tempo indica l'aspetto centrale della ricerca concettuale: “farò riferimento al genere di arte in cui sono coinvolto come arte concettuale. Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto importante del lavoro. Quando un'artista utilizza una forma concettuale di arte, vuol dire che tutte le programmazioni o decisioni sono stabilite in anticipo e l'esecuzione è una faccenda meccanica. L'idea diventa una macchina che crea l'arte”. LeWitt parla di concettualismo e non di minimalismo. In campo figurativo infatti ci si trova di fronte a un problema di etichetta, di definizione. Comunemente viene fatta una distinzione tra l'ambito della scultura e quello della pittura. Per il primo (i cui principali esponenti sono Robert Morris, Donald Judd, Dan Flavin, Carl Andrè e Robert Smithson) si parla di Minimal art, mentre per il secondo si parla di Minimal art nei confronti di alcuni artisti (quali Frank Stella, Ellsworth Kelly, Kenneth Noland), e di concettualismo nei confronti di altri (Sol LeWitt, Joseph Kosuth, Laurence Weiner, Robert Barry, Ian Wilson, Robert Ryman). In realtà i due fenomeni sono molto vicini e molto simili, ed è per questo che spesso queste classificazioni un po' forzate non vengono rispettate. In generale si potrà piuttosto dire che il concettualismo è una forma estrema di minimalismo. Entrambi hanno uno sviluppo parallelo e in parte conseguente alla Pop Art, la quale portò l'introduzione del quotidiano in pittura e scultura. Con la Pop Art l'oggetto della vita di tutti i giorni viene isolato e presentato come opera d'arte. Ne nasce un realismo ‘consapevole' della convenzionalità del linguaggio dell'arte, consapevole del filtro che i nuovi strumenti della tecnica pongono tra noi e i dati della realtà. Gli artisti pop in sostanza insistono sull'ineliminabile finzione che sussiste anche quando, come accade nella scultura, l'oggetto reale è reso con la tecnica apparentemente fedele del calco. Da questa linea prendono la via le ricerche di minimalisti e concettuali, da questo nuovo modo di operare ha inizio una decostruzione formale che non poteva provocare altro che una riflessione dell'arte su se stessa.

La Minimal art ha creato delle opere significative senza ricorrere a nessun tipo di contenuto, esponendo con chiarezza le condizioni necessarie al loro concetto d'arte. Le opere di scultura, per esempio, sembrano racchiudere al proprio interno un'autosufficienza strutturale che sta al limite della tautologia. La scultura minimal si presenta come un oggetto volutamente chiuso nella propria dimensione sintattica, autonoma e autosignificante, come un oggetto che rivela soltanto se stesso, un oggetto muto che si accampa nello spazio. Nello stesso tempo, però, la scultura minimal tende a spostare l'attenzione dalla propria oggettualità, dalla propria materialità, ai procedimenti mentali che lo hanno costituito e che lo definiscono come oggetto artistico. L'oggetto minimal costituisce, pertanto, un paradosso poiché, da un lato, si presenta come un oggetto concreto che occupa lo spazio ambientale, spesso con un notevole ingombro fisico; dall'altro, appare già dotato di un certo grado di trasparenza, in quanto agisce da stimolo atto a mettere in moto un processo mentale di astrazione e di definizione linguistica sulla natura dell'arte. Ogni volta che si guarda una scultura minimal essa suscita una verifica della sua esistenza in quanto opera d'arte.

Solo però con l'arte concettuale si arriva alla rinuncia di ogni funzione rappresentativa ed espressiva. L'arte diviene l'esercizio della mente che riflette su se stessa (si pensi di nuovo alla Stein). L'arte ha in se stessa le proprie regole e la verifica della propria esistenza, non necessita più di una verifica esterna per la propria definizione. L'artista concettuale parla della propria attività non più in termini di opere ma di ‘proposizioni', nel senso che questo termine ha nell'ambito della logica matematica. La posizione teorica, che è al fondamento delle proposizioni concettuali, ci rinvia al positivismo logico di Wittgenstein: l'equiparazione dell'opera d'arte ad una proposizione linguistica, che trova in se stessa il criterio del proprio valore d'arte, deriva infatti da uno dei principi più importanti del positivismo logico, il principio che stabilisce il criterio di verità delle proposizioni, non sulla base di un confronto o di una verifica esterni, ma sulla coerenza interna del sistema linguistico.

Letteratura

Come per la musica il rumore, per le arti figurative l'oggetto della vita di tutti i giorni, anche per la letteratura americana il primo passo verso una narrativa di tipo minimalista è stato l'avvicinamento a un linguaggio quotidiano. Il cercare di riprodurre i ritmi delle piccole frasi quotidiane, del linguaggio usato in modo minimo da camionisti, prostitute, gangster, sarà una delle preoccupazioni principali della letteratura americana dall'inizio del Novecento, da Ezra Pound e Gertrude Stein in poi, entrambi in qualche modo debitori verso Whitman che, come dice Allen Ginsberg, “cominciò a parlare in termini di parlata da cucina”. Ezra Pound si impegnò a rinnovare l'antica forma ritmica del verso, e Gertrude Stein cominciò a prendere delle frasi banali e ripeterle usandole come una forma di Pop Art. Nell'opera dell'ultima Stein la lingua viene ridotta a puro meccanismo formale, a sistema di segni con un'esistenza in sé, separata. Non è strumento di comunicazione e tanto meno di comprensione della realtà, non serve per dire qualcosa sul mondo e tanto meno per riordinarne il caos, semplicemente crea il proprio mondo di relazioni formali, è gioco della mente, esplorazione delle possibilità combinatorie della lingua. Si stabilisce dunque un punto di contatto col pensiero Zen e quello di Wittgenstein. E dalla Stein si arriva a Hemingway il quale attinge da lei e da Pound nell'uso di una prosa colloquiale che si rifaccia al linguaggio quotidiano e, più in generale, in un uso consapevole del linguaggio stesso. Ciò che invece lo ha allontanato dalla Stein, causando il disgusto di lei che definì la generazione di lui e di Fitzgerald una “Generazione Perduta”, è stato il germe di denuncia insito nella sua opera e nella sua vita. Al gioco dell'ultima Stein egli sostituisce l'angoscia, l'altra faccia dell'ottimismo americano: “pieno di fiducia nel proprio sogno americano, egli si avventura nel mondo del profitto e delle grandi guerre, ed il mondo spietato lo ferisce e lo disinganna. Il trauma violento spezza la crosta del suo ottimismo, gli rivela una realtà feroce e complicata; lo costringe ad una nuova fuga” (N. D'Agostino, Ernest Hemingway, in Belfagor, gen. 1956).

Di fronte al fallimento tutto ciò che resta è la dignità, il coraggio di accettare il proprio destino a testa alta fino in fondo. Il famoso racconto A Clean Well Lighted Place esemplifica mirabilmente i due aspetti principali della narrativa hemingwayana: consapevolezza della sconfitta e essenzialità del linguaggio. Il racconto si conclude con un'invocazione al nulla, il nada , che nella parte finale riprende lo schema del Padre Nostro. Con Hemingway ritorna dunque quel legame tra scrittura e mondo che la Stein aveva negato, ma ancora una volta il mondo viene semplicemente mostrato. La denuncia si limita a mostrare un modo di vita trasgressivo rispetto al codice di comportamento tradizionale, senza tuttavia esprimere giudizi di natura etica. Il nada è la risposta ad ogni domanda, ovvero non ci sono risposte e dunque le domande sono prive di senso. La scrittura della Stein è il caos, quella di Hemingway mostra il caos dell'esistenza.

E fu proprio a Hemingway che si ispirò una generazione di scrittori esplosa negli anni Settanta con l'aiuto della rivista "New Yorker". Questa generazione ebbe tra le sue figure più rappresentative: Raymond Carver, Mary Robinson, Joan Didion, Grace Paley e Ann Beattie. Fu un ritorno al realismo che contrastava con gli sperimentalismi dei postmoderni (come John Hawkes, John Barth, Robert Coover, Donald Barthelme) che in quegli anni praticavano l'arte per l'arte sulla scia dei romanzi apocalittici anni Sessanta (romanzi fantastici scritti da autori quali Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut jr., Joseph Heller). Fu anche una reazione all'opera dell'ultimo Hemingway, quello di The Old Man and the Sea, eccessivamente intrisa di poesia e ormai condizionata dall'influsso dei mass media. E con una volontà di ritorno al realismo, fu appunto all'Hemingway dei racconti che questi autori si ispirarono. Vennero chiamati minimalisti riprendendo la definizione coniata per la corrente musicale e per il gruppo di pittori e scultori di cui abbiamo parlato. Ma Raymond Carver, il cosiddetto padre del minimalismo, se da un lato sottolineò il suo legame con la prosa hemingwayana, dall'altro negò il suo legame con qualsiasi movimento, in particolare col Minimalismo.

Intorno alla seconda metà degli anni Ottanta si è tornati a parlare molto di minimalismo e parallelamente a questo termine sono state usate molte definizioni per indicare una allora emergente generazione di giovani scrittori americani. Post e neo-minimalisti, post-hemingwayani, yuppie-generation, video-generation, non-generation, new lost generation, zero-generation, me-generation, new romantics, new wave americana, ed ancora narrativa normalizzata e romanzo MTV, sono tutte etichette attribuite a questo gruppo di scrittori dalla critica apparsa su riviste letterarie, quotidiani e settimanali di vario genere. Si è parlato inoltre di fenomeno letterario, sociale e generazionale. Ma chi sono dunque questi minimalisti? Anch'essi resi noti al pubblico tramite il New Yorker , lanciati poi da importanti case editrici quali la Knopf e la Simon & Schuster: Bret Easton Ellis, David Leavitt, Jay McInerney, Susan Minot, Tama Janowitz, Lorrie Moore, Amy Hempel, Elizabeth Tallent, Nancy Lemann, Denis Johnson, Marian Thurm, Meg Wolitzer, Ann Tyler, Jane Ann Philis, Jill Eisenstadt sono solo alcuni dei protagonisti, all'epoca ventenni o poco più che trentenni, di questo tanto discusso fenomeno letterario. Discendenti diretti della precedente generazione di minimalisti, quella per cui si sono meritati il titolo di post o neo-minimalisti, anche loro, come la generazione di Raymond Carver, hanno rifiutato di essere etichettati come tali, e più in generale come gruppo letterario, rivendicando ciascuno la propria individualità.

Il rifiuto dell'etichetta minimalismo da parte di entrambe le generazioni di scrittori, nasce dal fatto che il termine è stato troppo spesso usato per indicare un'anemia della parola, un'aridità tematica, un vano soffermarsi su particolari insignificanti, il diventando inevitabilmente un'etichetta indesiderata. In realtà minimalismo è un termine molto generico che indica una serie di tecniche narrative volte a stimolare l'attenzione del lettore. Il testo sfrondato da ogni elemento linguistico superfluo e con l'ausilio di pause e spazi bianchi, aiuta il lettore a concentrarsi sulle singole frasi e parole, anche le più banali, favorendo una lettura più consapevole e attenta. In definitiva si usa un linguaggio essenziale per andare diretti all'essenza delle cose, della realtà, rivelando il dramma che in essa si nasconde, la narrativa minimalista infatti si basa quasi sempre su una visione pessimistica della vita.

Per quanto si trovino tracce di Minimalismo nella migliore narrativa europea del XX secolo, tuttavia, solo per certa narrativa americana si è parlato esplicitamente di corrente minimalista. Ciò è dipeso essenzialmente dal suo avere una ben definita collocazione geografica, storica e sociale, e dal fatto che proprio in questa narrativa si trovino riunite, e spesso enfatizzate, alcune tendenze diffuse nella narrativa del Novecento, ora definite minimaliste. In questi autori il pessimismo nasce principalmente dalle problematiche della famiglia americana degli anni Settanta e Ottanta, sgretolata da divorzi, omosessualità, malattie incurabili, alcool, droga, suicidi, aborti, perdita di religiosità, trascuratezza dei genitori nei confronti dei figli. Con la descrizione di eventi minimi tratti dalla vita quotidiana, viene espressa questa crisi generale dei valori cui la famiglia un tempo aveva fatto da perno. Nei testi minimalisti le cerimonie in primo luogo, hanno perso significato, essendo i momenti in cui tradizionalmente e in misura maggiore si esprimeva l'unione familiare. Matrimoni, compleanni, lauree, vacanze di famiglia e feste religiose continuano a esistere a malapena nel loro aspetto esteriore. Spesso le accompagna la noia. Altre volte ciò che in esse vi è di augurale si trasforma in un triste presagio. Ma cerimonia sono anche i “riti” della vita di tutti i giorni. Al di là degli eventi occasionali infatti, anche i gesti della vita quotidiana sono stati svuotati del loro valore originario. Eppure ci si alza, si va a fare la spesa, si prende l'autobus, si va a lavorare, si mangia e si dorme. La vita continua, seguendo esteriormente, meccanicamente, un cliché ormai radicato ma che ha perso sostanza.

All'origine di questa crisi c'è fondamentalmente l'incapacità di comunicare, uno sgretolarsi del linguaggio precedente e parallelo a quello della famiglia, che si riflette inevitabilmente sul linguaggio narrativo. Scarno, in alcuni casi ai limiti della referenzialità, ripetitivo, intercalato da silenzi, questo linguaggio è frequentemente costituito da dialoghi brevissimi che ricalcano i modi del linguaggio quotidiano. Il layout ha un'importanza determinante e il racconto è il genere che si presta meglio a questo tipo di narrazione. I racconti sono generalmente molto brevi, iniziano in medias res, creano un forte senso di tensione, di minaccia, e si concludono con una sospensione finale. Il non detto, le premesse poste e non sviluppate, danno alla narrazione una connotazione di eterno presente, di eterno ripetersi dei momenti della vita senza scopo. Passato e futuro confluiscono nel presente sottolineando la mancanza di una dialettica degli eventi. Questo senso di staticità e di inconclusione emerge molto bene anche nei romanzi minimalisti. In alternativa al racconto c'è infatti un particolare tipo di romanzo, costituito dal susseguirsi di brevissimi capitoli, come dei flash che potrebbero benissimo essere letti individualmente essendo degli spaccati di vita come in misura maggiore lo è il romanzo stesso. La vita che ci presentano è fatta di azioni automatiche. E' una vita della quale si può solo dire come è esteriormente, ma sulla quale non ci si deve porre domande perché rifugge ogni spiegazione.

Sebbene dunque Minimalismo letterario, musicale e figurativo, abbiano un medesimi punti di partenza: legame con il ‘quotidiano' e rinnovata consapevolezza nell'uso dei propri mezzi di espressione sotto l'influsso del positivismo logico e dell'esplosione dei sistemi formali, l'approdo in campo letterario si differenzierà a causa della marcata influenza di una filosofia Esistenzialista, ristabilendo il legame con la realtà che l'ultima Stein aveva negato con la sua volontà di creare opere chiuse nella propria oggettualità, come continueranno ad esserlo quelle dei minimalisti in musica e dei concettuali nelle arti figurative. Certamente si tratterà di un legame con la realtà adeguato alle nuove esigenze di questa letteratura: una realtà che viene ‘mostrata' e non spiegata, come la musica, la pittura e la scultura mostrano se stesse.

Less Than Zero: la nuova generazione perduta

Less than Zero (Meno di zero) il romanzo di Bret Easton Ellis, viene pubblicato nel 1985 dalla Simon & Schuster. Il titolo è ispirato a quello della canzone di un cantaurore inglese, Elvis Costello. Il romanzo nasce da un diario di appunti tenuto da Ellis a partire dagli anni di liceo fino al primo anno di università. A distanza di poco più di dieci anni il romanzo è forse già entrato nella tradizione letteraria americana accanto agli altri romanzi generazionali, da This Side of Paradise (1920) di Francis Scott Fitzgerald, a The Catcher in the Rye (1951) di Jerome David Salinger, a On the Road (1957) di Jack Kerouac. Ed è al mito creato da Salinger che la critica si è ispirata per lanciare il giovane Ellis, definendolo “salingeriano”, termine ormai divenuto sinonimo di portavoce di una generazione. Ma quella di Salinger, come quella dei Beats, era una protesta contro i Tranquillized Fifties, contro la finzione e l'ottimismo a tutti i costi, contro una società che nascondeva le sue reali pecche dietro il proprio benessere. Nel protagonista del romanzo di Salinger, Holden, si fa sentire ancora l'eco del sogno americano, nel desiderio di fuggire a Ovest con la speranza di trovarvi qualcosa di meglio. In realtà la storia di Holden è la storia di una speranza delusa. Holden si ammala, rinuncia alla fuga, la società lo riprende e lo inserisce nel suo ingranaggio senza dare una risposta alla sua domanda “dove vanno i paperi quando il lago è gelato?”, in altre parole senza offrire un riparo sicuro a lui e ai suoi coetanei.

Quella di Ellis, invece, è una generazione nata e cresciuta nella consapevolezza che il sogno americano è ormai finito. Nel romanzo di Ellis infatti, e nella narrativa minimalista in generale, ci si muove in uno spazio circoscritto. E se la prospettiva della fuga a Ovest spingeva ancora Holden, seppur debolmente, verso nuove mete, stimolando domande, speranze e illusioni, negli anni Ottanta l'utopia realizzata, ossia la punta massima del benessere economico, è riuscita a soffocare la possibilità di ulteriori iniziative individuali. Le domande e le idee si sono esaurite e non ci sono sensazioni nuove da sperimentare. La società travolta dalla frenesia del progresso, una volta arrivata al dulcis in fundo si è trovata con le mani vuote, senza parole, incapace di spiegarsi, di domandarsi se tutto ciò abbia un senso. La generazione di Ellis è atrocemente ricca.

Soffocata ogni possibilità di ribellione e di alternativa rimane solo il lato esteriore di tutto, l'apparenza. Nel libro di Ellis non c'è amore, solo sesso; non c'è comunione, solo il muoversi in uno stesso spazio circoscritto. Non c'è calore, compassione, pietà, piacere. Non c'è morale né giudizi. Non compare più il semi-eroe salingeriano, colui che si ribella ma è costretto a cedere, e neppure l'anti-eroe hemingwayano, colui che accetta a testa alta, stoicamente e consapevolmente la propria sconfitta. E non compaiono neppure i concetti di vittoria e di sconfitta perché non ci sono né un campo di battaglia né un nemico da combattere. Esistono solo degli individui integrati nella società senza alternativa di comportamento, liberi di fare ciò che vogliono ma schiavi della propria incapacità di comunicare, di esprimersi. In quest'ottica ha senso una letteratura che “mostri” la realtà senza tentare di spiegarla, proprio per il fatto che tutto si è ridotto a mera esteriorità.

In sostanza la società nella sua globalità è già stata denunciata, sfidata, rifuggita dalle generazioni precedenti. Negli anni Ottanta la visuale si restringe sul nucleo familiare quale ricettacolo di tutte le disillusioni e sconfitte precedenti, vittima di un progresso economico e tecnico troppo rapido. Siamo ben lontani dalla frenesia On the Road dell'epoca Beat, adesso c'è la piena integrazione con la società del guadagno. Nasce così la Yuppie-Generation: “più che muoverci facciamo la tana. Vogliamo stare in un solo posto, far carriera, aver credito. Vogliamo belle case, impieghi appaganti, buoni amici di entrambi i sessi. Vogliamo la Gold Card dell'American Express”. E' David Leavitt che parla. Nel suo saggio Our Lost Generation (da "Esquire" del maggio) Leavitt fa un quadro lucido e agghiacciante della sua generazione: “Nati troppo tardi e troppo presto, siamo in parte ciò che venne prima di noi e ciò che seguì”. Sono la Non-Generation, la generazione del cosa non siamo. I ventenni e i trentenni degli anni Ottanta non hanno vissuto direttamente gli entusiasmi e le delusioni della Beat Generation, e tanto meno le ansie e gli orrori del Vietnam. Ciononostante sono costretti a vivere tutto questo di riflesso, tramite i loro fratelli maggiori e i loro genitori. Non sono forse nemmeno perfettamente integrati nel mondo degli Apple Machintosh e della MTV di cui fanno parte i loro fratelli minori. “Siamo la prima generazione più giovane della televisione... E siamo la prima generazione che di solito non può ricordare il suo primo viaggio in aereo. E la prima della storia recente che non abbia visto i suoi amici dispersi in un'azione o caduti in combattimento o partiti a cercare lavoro in Canada. Avrebbe dovuto essere perfetta, perfetta di tempo e di luogo... Eppure, in quei luminosi pomeriggi della mia infanzia in cui me ne stavo in casa a guardare la luce del sole che si rifletteva sul viso di Speed Racer alla TV, già sapevo che degli squarci si stavano aprendo nel tessuto della perfezione. Quando i miei genitori urlavano l'un contro l'altro, i loro strilli suonavano come lacerazioni di quel tessuto... Talvolta mi pareva che andassimo in giro per casa con le ferite aperte e sanguinanti e tuttavia parlavamo, ridevamo, sorridevamo, come attori di un film dell'orrore, che durante una pausa delle riprese, si dimenticano di togliersi il finto coltello dalla schiena o di detergere il sangue finto. Ma nel nostro caso il sangue era vero anche se facevamo finta che non lo fosse”.

Il diciottenne Clay, protagonista del romanzo di Ellis, matricola di un'Università del New Hampshire che va a trascorrere le vacanze natalizie a casa, a Los Angeles, impersona perfettamente questa generazione. Figlio maggiore di una famiglia in pezzi che cerca di conservare le apparenze di fronte ai figli, descrive una società di integrati della quale lui sente di non fare ancora totalmente parte, ma alla cui integrazione decide di avviarsi consapevolmente. Le sorelline minori di Clay, che sniffano cocaina e guardano videotape pornografici, rappresentano il mondo dei nuovi giovani catturati dai video e dagli Apple Machintosh. Sebbene anche a lui manchi la parola, la capacità di comunicare, forse un tempo l'ha posseduta, mentre questi teenager non l'hanno mai avuta nemmeno per cantare una canzone di fronte ad un enorme schermo video:

"There would be about a hundred teenagers dancing in front of a huge screen on which the videos were played; the images dwarfing the teenagers - and I would recognize people whom I had seen at clubs, dancing on the show, smiling for the cameras, and then turning and looking up to the lighted, monolithic screen that was flashing the images at them. Some of them would mouth the words to the song that was being played. But I'd concentrate on the teenagers who didn't mouth the words; the teenagers who had forgotten them; the teenagers who maybe never knew them" (Ed. Penguin, USA, pag. 194).

"Davanti al grande schermo su cui venivano proiettati i video, c'erano almeno cento adolescenti che ballavano, schiacciati dalle immagini. E ho riconosciuto gente che avevo visto nei vari locali, ballavano, sorridevano alla telecamera e poi si giravano e alzavano gli occhi verso lo schermo illuminato, monolitico, che li bersagliava di immagini. Alcuni ripetevano le parole della canzone. Ma io mi sono concentrato su quelli che non lo facevano; sui giovani che le avevano dimenticate, quelle parole; i giovani che forse non le avevano mai sapute" (traduzioni Chiara Calabrese).

Elvis Costello la cui presenza si fa sentire, oltre che nel titolo, nell'immagine ricorrente del poster di Trust (un LP di Costello) appeso in camera di Clay, che rappresenta il cantautore con occhiali da sole con una lente rossa e una blu, un sorriso ironico e lo sguardo che traspare dietro le lenti perso nel vuoto, rappresenta invece il passato eroico fallimentare della generazione precedente che continua ad incombere e a sfuggire allo stesso tempo. Anche se posteriore alla Beat Generation e a Salinger (la sua produzione musicale ha infatti avuto luogo soprattutto tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, e continua tuttora) Elvis Costello ha portato avanti la stessa battaglia con l'arroganza propria degli angry young men, ovvero i Beats anglosassoni. In realtà la sua musica è difficilmente inseribile in un genere preciso, tuttavia il rock'n'roll è quello che ha avuto la parte maggiore nella sua produzione, specie quella iniziale. Per quanto con caratteri molto personali, il suo è un rock concepito come quello della generazione Beat, ossia come momento liberatorio dalle frustrazioni, momento di libera espressione del sé. Costello nelle sue canzoni reagisce contro la società esprimendo un misto di rabbia, colpa, vendetta, aggressività. Less Than Zero è il suo primo singolo pubblicato nel marzo del 1977. Nonostante il suo prevalente atteggiamento da arrabbiato, non mancano nella sua produzione momenti di forte ironia e di desiderio di amore che ce lo fanno apparire come un giovane Holden, ed altri che lo avvicinano sempre di più alla generazione minimalista. In I Wanna Be Loved, un video del 1983, Elvis cerca amore ma come il povero Holden non lo trova. Il video è girato con la macchina immobile davanti al volto di Costello che canta, seduto in una macchina per le fotografie, che vorrebbe essere amato mentre decine di persone lo baciano. In Every Day I Write the Book, un video sempre del 1983, con grande ironia Costello mette in scena un ipotetico dramma familiare tra Carlo e Diana di Inghilterra, il primo impegnato a mettersi in mostra davanti a lei, la seconda unicamente attratta dalla televisione che ha di fronte. E' il dramma dell'incomunicabilità familiare che si esplica nella famiglia per eccellenza. Gli occhiali da sole, una costante del personaggio Costello, come di molti personaggi del libro di Ellis, per il musicista hanno però una funzione particolare. Non mirano a stendere un sipario tra lui e il mondo, al contrario vogliono stimolare la curiosità altrui sull'uomo Costello. A questo fatto è ricollegabile l'originalità di King of America, un LP del 1984. La copertina non porta il nome dell'autore che figura solo nelle note a tergo con il suo vero nome, Declan Patrick Aloysius MacManus. Il suo viso appare incorniciato da una barba (che lui non è solito portare) e sul capo ha una ridicola corona da imperatore. Costello stesso ha sottolineato come la scelta sia dovuta alla volontà di ricordare alla gente che c'è un essere umano dietro a quegli occhiali buffi.

Nel libro di Ellis, Costello ci appare come l'ultimo sprazzo di rabbia, di iniziativa e di voglia di comunicare: l'ultimo tentativo di reazione prima del vuoto minimalista. E del resto è stato il rock a caratterizzare le sue composizioni più arrabbiate, il medesimo rock che ormai in America sta morendo lentamente e, come dicono statistiche e sociologi, riceverà il colpo di grazia per la “crisi di incomunicabilità col pubblico ... dal fatto che la generazione nata per correre dei fan di Springstreen, sta cedendo del tutto il passo ai ragazzi nati per star seduti davanti al televisore sgranocchiando pop corn”. Se in Less Than Zero la presenza di Costello ed il contrasto con le sorelle minori sono sintomo del fatto che Clay tutto sommato fa parte di una generazione di passaggio, il fatto che lui impassibile mostri il mondo che lo circonda significa che ormai anche lui è sulla via dell'integrazione in quella società.

Le freeways: l'utopia realizzata

I grandi spazi e il muoversi in grandi spazi sono sempre stati elementi fondamentali della cultura e della vita americane. Il sogno americano, il mito della frontiera, la corsa verso Ovest rappresentano la possibilità di successo. Il successo infatti in America si identifica con il movimento. L'importante è muoversi, chi si ferma è destinato al fallimento. L'idealismo assieme ad una buona dose di opportunismo sono sempre stati la spinta a questo movimento. La letteratura, come riflesso di questa esigenza, da Huck Finn a Tom Sawyer ad Augie March e Holden Caulfield è stata dominata dal picaro, l'eroe instancabilmente in movimento. Con la chiusura della frontiera si sono trovate delle alternative di estensione spaziale, i grattacieli e la conquista della luna: estensione verticale; il movimento on the road : estensione orizzontale. Negli anni Ottanta, tuttavia, la figura del picaro perde di significato. Con l'epoca reaganiana l'opportunismo sembra aver raggiunto la sua punta massima, mentre la spinta idealistica si è esaurita. Tutto è già stato sperimentato e conquistato, un'ulteriore spinta in qualsiasi direzione non ha più senso. Il mitico sogno americano ha visto la propria realizzazione: l'utopia è realizzata. Gli americani hanno creato una società ove tutto è possibile, dove non esiste più niente da scoprire e dove non ci sono problemi che non siano già risolti in partenza. Che cosa fare dunque quando il sogno è divenuto realtà? “What are you doing after the orgy?” (“che fare dopo l'orgia?”) domanda il sociologo francese Jean Baudrillard nel suo saggio L'America, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1987. È l'ultima domanda alla quale l'America risponde guardando se stessa in uno specchio, rifugiandosi nel proprio edonismo sterile: “il forno a microonde, il trituratore delle immondizie, l'elasticità orgastica della moquette: forma di civiltà, morbida e balneare, che evoca irresistibilmente la fine del mondo” (Baudrillard 29-30). Questa società del “tutto fatto” ha bloccato il movimento e circoscritto lo spazio. L'ultimo a guardare a Ovest è stato forse Holden, ma ha dovuto rinunciare perché la società lo ha riassorbito. Ellis riprende il discorso, in Less than Zero Clay si fa artefice della propria iniziazione a questo mondo. Decide di sfuggire alla disperazione con l'indifferenza. Vuol vedere la realtà per rimanerne accecato, per poter smettere di vederla e riuscire a convivere con essa senza meravigliarsi più di niente.

Prima di Ellis a cantare la fine del sogno americano era stata la Didion, esponente del Minimalismo anni Settanta. In Play It as It Lays (il romanzo al quale quello di Ellis si ispira per forma e contenuto), lo spazio in cui la protagonista si muove è limitato al circolo chiuso e senza meta delle freeways. E Less than Zero inizia proprio a Los Angeles, sulle freeways, con una frase che diverrà poi un leitmotiv.

Quello delle freeways sembra infatti essere un labirinto senza uscita “si dice addirittura che alcune famiglie vi circolino perpetuamente nelle loro mobil-home senza mai uscirne” (Baudrillard 46). Protagonisti di questo moto perpetuo non sono più gli individui ormai deprivati di “traiettoria individuale” e di ogni “vana responsabilità”, ma le automobili stesse che “con la loro fluidità e la guida automatica, hanno creato un ambiente che è a loro simile... il sistema delle freeways è un luogo di integrazione” (Baudrillard 46) Brillante metafora di una società spersonalizzata, immobile, priva di desiderio, le freeways più che la realizzazione di un sogno sembrano la realizzazione di un incubo. Queste colossali autostrade, sopraelevate, onnipresenti, interminabili, collegano i gironi di un inferno dove tutti corrono per restare fermi. Ogni tanto esplode la follia, e si comincia a sparare per un sorpasso. Analogo è il traffico sulle altre strade. Immobile e attanagliante esso è la metafora dell'individuo incapace di comunicare, chiuso nella propria monade, l'automobile:

"Right now nothing is moving even though the lights are green. As I wait in the car, I look at the people in the cars next to mine. Whenever I'm on Whilshire or Sunset during lunch hour I try to make eye contact with the driver of the car next to mine, stuck in traffic. When this doesn't happen and it usually doesn't, I put my sunglasses back on and slowly move the car forward".

"In questo momento il traffico è fermo anche se i semafori sono verdi. Mentre aspetto, guardo la gente nelle auto vicine. Tutte le volte che mi trovo in Wilshire o Sunset all'ora di pranzo, tento di stabilire un contatto visivo con la persona al volante dell'auto vicina, bloccata dal traffico. Se non ci riesco, e di solito non ci riesco, mi rimetto gli occhiali da sole e ricomincio ad avanzare lentamente" (trad. Calabrese).

Ogni volta che giunge all'entrata del Sunset Boulevard su di un enorme cartellone pubblicitario Clay vede scritto “Sparire Qui”, un altro dei leitmotiv del romanzo, un invito a dissolversi nelle strade di Los Angeles “correre in macchina è una forma spettacolare di amnesia” (Baudrillard 13).

Il deserto: la fine del sogno americano

In Less than Zero non c'è solo questo labirinto di follia collettiva. Lo spazio per eccellenza, quello che compare con maggiore insistenza è il deserto. Spazio mitico e ricercato da una parte, luogo arido e minaccioso dall'altra, esso rappresenta la paura e l'immobilità che si estendono al mondo abitato portate dai venti caldi, mentre il mito sfuma in un miraggio. “La cultura americana è l'erede dei deserti. E questi non sono natura, in contrapposizione alla città: raffigurano il vuoto, la radicale nudità che è al fondo di ogni insediamento umano ... Costituiscono la frontiera mentale sulla quale vengono ad arenarsi le imprese della civiltà. Sono al di fuori della sfera e della circonferenza dei desideri” (Baudrillard 54) Appena fuori dalla metropoli scintillante di luci artificiali Ellis descrive spesso una natura antica e minacciosa: il deserto che stringe la città, i venti caldi che scuotono le palme e sbattono per ore le finestre, gli ululati dei coyote. Sono evocazioni di un mondo primitivo ed istintuale che, forse più delle morti, delle malattie e delle assurde disgrazie di cui parlano i giornali, suscitano quel sentimento primario che è la paura, insinuando elementi di dubbio nella trionfante sicurezza del benessere. Il deserto è paura della falsità delle apparenze: nelle notti di luna piena Clay vede muoversi delle forme indefinite, grossi cani deformi che portano in bocca cenci rossi. Solo più tardi si accorgerà che si tratta di coyote che trascinano carcasse di gatti. In un incidente d'auto nel deserto Clay crede di intravedere un bimbo in fiamme. Non si ferma a dare soccorso. Il giorno dopo legge sui giornali che non ci sono state vittime. Da questo momento in poi collezionerà articoli di giornale su incidenti, disgrazie, violenze, quasi a voler familiarizzare con essi per esorcizzare ogni paura, ogni dubbio. Il deserto è sconcertante miraggio, speranza delusa, desiderio bruciato. Una volta Clay, guidando nel deserto, si ricorda di un ragazzo che dette una festa nella propria casa, vicino a Rancho Mirage. La festa gli sfuggì di mano e una ragazza fu violentata e uccisa. Il ragazzo non fu mai preso e la casa fu distrutta da un incendio. L'immagine di lui si conserva solo in un ricorrente miraggio, la gente dice di averlo visto camminare attraverso i canyon nella notte, attraversare il deserto e raggiungere le rovine della casa.

Miraggio sono soprattutto il vecchio Ovest e gli Indiani divenuti “fantasmi”, “apparizioni del vecchio West”, che si ripresentano di quando in quando nel deserto incutendo terrore. Questo mitico Ovest che si perde in un miraggio è personificato nella nonna di Clay, morta di cancro al pancreas in “una stanza vuota d'ospedale ai margini del deserto” due mesi dopo che la casa di Palm Springs (il luogo dove per l'ultima volta si vede la famiglia unita), è stata abbandonata. Con la nonna, silenziosa ascoltatrice delle conversazioni familiari, muore il vecchio Ovest, l'immagine solare, positiva e idealistica di un mondo che guarda al sole con speranza, che non pensa alla morte ma alla vita “a me non va di morire in nessun modo” sono pressoché le uniche parole che pronuncia in quell'ultima vacanza natalizia descrittaci nei flashback che percorrono tutto il romanzo. Da quell'ultima estate Clay si ricorderà di lei in vari modi. Se la ricorderà quando canticchiava da sola On the Sunny Side of the Street, e quando si staccò lentamente da suo nonno, in uno dei suoi alberghi, quella volta che lui cercava di baciarla. E proprio nel nonno sopravvive l'occhio opportunista che ha guardato a Ovest, lo ha conquistato e lo ha bruciato assieme ad ogni idealismo. L'allontanarsi della nonna dal bacio del nonno è l'allontanarsi di queste due diverse ottiche, l'una destinata a morire e l'altra a vivere personificata nel segretario del nonno, ironicamente chiamato West. Clay ce lo descrive mentre parla di baseball alla presenza della nonna ormai fragile e malata:

"He was hunched over, wearing a string tie and a jacket with one of my grandfather's hotels' insignia on the back of it, passing out Beechnut licorice gum" (155).

"Aveva le spalle curve, un cravattino a stringa, una giacca con lo stemma di uno degli alberghi del nonno sulla schiena e distribuiva gomma da masticare Beechnut alla liquirizia."

E' l'immagine sbiadita e decadente di un metaforico Ovest raggiunto, conquistato e deturpato dal consumismo e dalla pubblicità, punti di riferimento costanti della nuova società.

Società senza passato, deprivatasi di un territorio ancestrale, in quanto quello degli indiani chiuso entro i limiti delle riserve si è trasformato in un terrificante miraggio, la società di Clay vive in un eterno presente, nel suo spazio limitato e “non avendo conosciuto l'accumulazione lenta e secolare del principio di verità, vive nella simulazione perpetua, nella perenne attualità dei segni” (Baudrillard 64). L'unica realtà che conta è la realtà delle apparenze immediate: realtà di immagini e non di nomi, realtà di azioni e non di verità.

Clay abbandona la casa di Palm Springs, il deserto, e con esso si libera della paura, dei miraggi e di ogni incertezza, avviandosi all'integrazione.

Romanzo-video e integrazione

Ellis ci dà una rappresentazione caleidoscopica della vita. Mostra la realtà in cui Clay vive tramite scene brevi che si succedono con la rapidità di una sceneggiatura cinematografica e con la musicalità incalzante del video-clip. Non a caso è stato definito il cantore della Video-Generation. La sua è infatti una tecnica di narrazione molto visiva, ma questo non significa che le cose vengano descritte nei minimi particolari. Anzi le descrizioni sono sempre molto sommarie e a volte quasi inesistenti. L'abilità visiva consiste nel saper cogliere quei pochi elementi fondamentali che ci servono per identificare la realtà di cui parla. Dei vari luoghi in cui si svolge l'azione (per lo più shopping places e locali) cita il nome. I suoi personaggi hanno nomi difficili da ricordare, Clay stesso li dimentica con molta facilità. Dei nomi non è chiaro neppure il genere, sono bisessuali come la maggior parte di questi ventenni: Rip, Blair, Finn, Spin, Trent, Griffin, Didi, Cliff, Derf e così via. Hanno tutti i capelli molto corti, sono biondi, abbronzati e portano occhiali da sole. Guidano Mercedes, Porsche, Jaguar, Ferrari. Indossano abiti firmati e magliette di Billy Idol, dei Fear, degli Specials o degli Heaven. Hanno tutti una Jacuzzi e una piscina. Che cosa fanno? Passano molte ore davanti al televisore, spesso tenuto senza audio su MTV (la music television). Si incontrano nei locali e ai party. Bevono champagne di marca, abortiscono, fumano molto, hanno una vita sessuale sregolata. Ordinano fatburgers con chili che non consumano, si imbottiscono di Quaalude, Valium, Nembutal o Desoxine per compensare l'effetto della droga. Le loro mani tremano. E' l'America dell'utopia realizzata: liberazione sessuale che è confusione sessuale, libertà di fare ciò che si vuole che è apatia del non far niente, sguardi che si nascondono dietro un paio di occhiali scuri per vedere in quelli dell'altro il riflesso di se stessi. “Chissà se è in vendita” è una delle frasi leitmotiv del romanzo, rivolta alle persone più che alle cose.

E Clay? Passivo e indifferente non giudica ma è consapevole di ciò che lo circonda, tuttavia non si oppone, anzi aiuta il processo di autointegrazione nel mondo dei video. All'inizio del romanzo Clay è pallido e non porta occhiali scuri. Alla fine sarà come tutti gli altri abbronzato e con occhiali scuri. Il sole che acceca è la metafora dell'essere assorbiti da questo modo di vita vuoto, sregolato e indifferente. La fase del sole viene annunciata da una fase di pioggia sempre più intensa, portatrice di incubi. Clay sogna di rimanere travolto dalla pioggia e sprofondare nel fango mentre torna a casa da scuola. Le forti piogge su Los Angeles vengono descritte sulle cronache dei giornali con immagini da giudizio universale. La pioggia si fa sempre più intensa, con un crescendo che si fa sentire nella ripetizione ossessiva della congiunzione “e” (circa centoquindici volte nel giro di tre pagine e mezzo). Ma dove sfocia tutta questa tensione? Clay va dal suo psichiatra e comincia a piangere disperatamente senza sapere il perché, e lo psichiatra in risposta gli mostra la copertina della rivista "Rolling Stone" con la foto di Costello e la scritta “Elvis Costello si pente”. La pioggia purificatrice spinge al pentimento. Ma di quali peccati si lava Clay? Del peccato di non essere ancora integrato nella società, del peccato di opporle resistenza vagheggiando ancora l'immagine di un Elvis Costello angry young man. Ora l'immagine, vera o falsa, di un Costello che si pente e presumibilmente rinnega il proprio passato di rivolta, spinge Clay a pentirsi e negare se stesso. Siamo al climax. Iniziano le immagini del sole cocente che accecherà e brucerà Clay, come accade al coyote che lui e Blair (la sua ex-ragazza) investono. E' Blair che guida la macchina e accecata dal sole non lo vede e lo travolge. Clay scende di macchina per vederlo morire. L'immagine dell'abitatore del deserto miseramente perito al sole, sull'asfalto, preannuncia la “morte” di Clay, della sua parte istintuale. Clay non dimenticherà questa visione del coyote morente che tornerà più avanti a turbarlo per un attimo, quasi fino alle lacrime. Ora Clay cerca il sole per trovarvi la quiete dell'indifferenza. Così, disgustato da un film clandestino in cui senza finzione si violenta e si uccide, ritrova la calma nell'oblio del sole. Deciso a voler vedere il peggio, si fa spettatore, a volte volontario e a volte involontario, di una serie di situazioni che costituiranno i passi della sua iniziazione. Assiste al prostituirsi di Julian, un ex-compagno di scuola a corto di soldi per motivi di droga. In questa fase “il sole è gigantesco e infuocato, un mostro arancione”. Nel momento in cui l'atto sta per compiersi compaiono uno dietro l'altro alcuni dei leitmotiv del romanzo:

I light a cigarette
"The man rolls Julian over.
Wonder if he's for sale.
I don't close my eyes.
You can disappear here without knowing it
" (176).
"Mi accendo una sigaretta.
L'uomo gira Julian sulla pancia.
Chissà se è in vendita
Non chiudo gli occhi.
Si può sparire qui senza saperlo."

Gli occhi di Clay cominciano già ad essere abbagliati. Entrando in un locale ha difficoltà ad abituarsi all'oscurità, e ad un party privato una luce stroboscopica lo stordisce quasi fino a fargli cedere le ginocchia. Si arriva ad un altro passo della sua iniziazione: Julian tenta disperatamente di ribellarsi al suo magnaccio Finn il quale lo cheta con un'iniezione di droga pesante.

Di nuovo compaiono in successione i leitmotive:

"Disappear Here.
she syringe fills with blood.
You're a beautiful boy and that's all that matters
Wonder if he's for sale.
People are afraid to merge. To merge"
(183).
"Sparire Qui.
La siringa si riempie di sangue.
Sei un bel ragazzo e questo è quello che conta
Chissà se è il vendita.
La gente ha paura di buttarsi. Di buttarsi."

Violenza, prostituzione, droga, ed infine la morte: gli amici lo portano in una stradina deserta a vedere il cadavere di un giovane morto per overdose e si divertono a mettergli sigarette in bocca. Poi di nuovo violenza: una dodicenne viene legata, drogata e violentata ripetutamente. Clay è sempre lì, spettatore incapace di reagire. Clay si è ormai arreso. Il sole “gigantesco, una palla di fuoco” lo ha bruciato: anche lui ora è abbronzato; e lo ha accecato: anche lui porta occhiali da cieco. E nel momento della cecità Clay riesce a vedere se stesso, a vedersi uguale agli altri nella sostanza oltre che nell'apparenza. Blair gli domanda se la ha mai veramente amata e lui risponde con un no secco, quasi gridandolo, quasi cominciando a ridere. L'indifferenza ha contagiato anche il suo passato distruggendo l'unico sentimento che sembrava esserci stato. E all'insistere di lei lui risponde:
"I don't want to care: If you care about things, it'll just be worse, it'll just be another thing to worry about. It's less painful if you don't care" (205).
"Non voglio attaccarmi a niente: se ti attacchi a qualcosa sarà solo peggio, sarà solo un'altra cosa di cui preoccuparsi. Fa meno male se si è distaccati."

Il romanzo si chiude con le immagini di una canzone intitolata Los Angeles, immagini che si imprimono nella mente di Clay e con lui conviveranno. Sono immagini dure e violente di gente impazzita a vivere in città e di giovani che alzano lo sguardo dall'asfalto e rimangono accecati dal sole:

"Images of parents who were so hungry and unfulfilled that they ate their own children. Images of people, teenagers my own age, looking up from the asphalt and being blinded by the sun. The images stayed with me even after I left the city. Images so violent and malicious that they seemed to be my only point of reference for a long time afterwards. After I left" (207-208).

"Immagini di genitori così insoddisfatti e affamati che mangiavano i figli. Immagini di ragazzi della mia età che alzavano gli occhi dall'asfalto e restavano accecati dal sole. Queste immagini non mi abbandonarono nemmeno quando lasciai la città. Immagini così violente e malvagie che diventarono il mio unico punto di riferimento per molto molto tempo. Dopo la partenza."


Continua in Minimalismo II





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