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Wagner, la critica, i musicisti e i letterati italiani
Wagner, la critica, i musicisti e i letterati italiani



Da Renzo Cresti, Wagner, la critica, i musicisti e i letterati italiani, nella Rivista “Erba d’Arno”, nn. 128-129, Fucecchio 2012. E da Richard Wagner, la poetica del puro umano, Lucca 2012.



Il nome di Wagner in Italia e i primi critici

Nel quinto numero della Rivista fondata da Giulio Ricordi, «La Gazzetta Musicale di Milano», si pubblicarono, nel numero del 30 gennaio del 1842, tre lettere di un «dotto critico musicale tedesco il sig. Wagner» sotto il titolo La musica in Germania nel quale si descrivono le qualità della musica strumentale e proprio l’equazione musica sinfonica e ricerca armonica = musica tedesca sarà il malinteso che dominerà il mondo musicale italiano, non solo ottocentesco ma ancora fino alla metà del Novecento. A torto o a ragione si pensava che la musica tedesca fosse troppo intellettuale e che il predominio della musica orchestrale noceva all’espressività lirica. Lo stesso giovane Wagner si era reso conto dell’eccesso di cerebralismo dei compositori tedeschi, ma non riuscirà a liberarsene, rimarrà egli stesso un alto esponente proprio di questa tendenza che parte dai compositoi fiamminghi, prosegue con gli organisti barocchi, viene portata avanti nell’epoca di Bach e arriva fino a Beethoven, in una linea non certo retta ma comunque assai visibile. Tutti i musicisti e i critici italiani dell’epoca partirono da questa equazione e tutti, anche quelli wagneriani, ne accettarono le conseguenze. Il critico Filippo Filippi, che pure amava Wagner, scrisse che il Maestro tedesco «è grande quando si abbandona alla spontaneità della fantasia, altrettanto sia contorto e minuzioso e pesante quando si avvolge di progetto nelle tortuosità del sistema, e quando troppo rigorosamente lo vuole applicare».[1] Filippi fu l’unico critico italiano che assistette alle rappresentazioni di Weimar nel 1870 de L’olandese volante, Tannhäuser, Lohengrin, I Maestri cantori di Norimberga, e queste esecuzioni le recensì sul giornale «La perseveranza» sotto il titolo Viaggio nelle regioni dell’avvenire. Pur apprezzando lo spessore culturale e la resa teatrale delle opere di Wagner, Filippi rimase ancora legato al mondo musicale italiano secondo lo stereotipo dell’equazione musica italiana = canto. Egli apprezzò infatti l’abbondanza di melodia de I Maestri cantori e, per la stessa ragione, Lohengrin sarà l’opera più seguita, amata e rappresentata.

Gli articoli di Filippo Filippi sono i primi criticamente consapevoli, dagli anni Settanta però la situazione cambia, dopo le prime rappresentazioni delle prime italiane di opere wagneriane. La poetica e gli scritti teorici di Wagner trovarono terreno fertile in molti intellettuali che trovavano di scarso valore e troppo abusati gli schemi e le convenzioni melodrammatiche. Girolamo Alessandro Biagi è il primo a porsi il problema del rapporto fra gli scritti e l’opera musicale, afferma che per apprezzare la musica occorre liberarsi dalla zavorra teoretica. Anche Francesco D’Arcais sostenne che il dramma non è il fine ma il mezzo, mentre Dino Mantovani rinforzò l’idea che Wagner era soprattutto un caso di ordine culturale. Enrico Panzacchi, Francesco Florido, Antonio Tari svolsero le prime riflessioni sul ‘caso Wagner’, a volte tinte di un leggero nazionalismo che faceva vedere loro come l’Italia fosse – per storia e predisposizione – la patria del bel canto.

Sul finire del secolo e all’inizio del Novecento la critica iniziò a interessarsi a Wagner con una prospettiva più analitica, è il caso del primo libro ‘scientifico’ quello di Luigi Torchi, intitolato Studio critico, e stampato a Bologna nel 1890. A Gaetano Mogavero si deve la prima bibliografia italiana di Wagner, pubblicata nel 1894. Vengono stampati anche libri divulgativi, come il Manuale wagneriano di Gualtiero Petrucci, del 1911. Posizioni critiche consapevoli furono quelle di Arnaldo Bonaventura, Alfredo Oriani, Enrico Thovez, Vincenzo Tommasini e Fausto Torrefranca.

Dalla metà degli anni dieci del Novecento, con l’affermazione del neo-Classicismo, le fortune critiche di Wagner declinarono un po’ in tutta Europa, in Italia si sovrappose anche un anti-wagnerismo di tipo politico intorno alla prima guerra mondiale. Il critico che apparve il più avveduto fu Giannotto Bastianelli. Subito dopo la guerra «si continua a ripetere in forma del tutto acritica e senza addurne i motivi che la musica di Wagner è grande e che il suo sistema è fallito, ma non si pongono nuove problematiche»,[2] almeno fino all’intervento di Luigi Ronga e a quello di Adelmo Damerini, i quali, durante gli anni Trenta gettano le basi della critica wagneriana italiana moderna.

Indubbiamente un ruolo fondamentale per la penetrazione di Wagner in Italia, fu l’editrice Giovannina Lucca che aveva acquistato i diritti delle opere wagneriane in Italia, appassionata e abile a tal punto di portare alla sua causa Angelo Mariani, direttore d’orchestra della cerchia di Verdi, il quale era interessato a Wagner fin dal 1862, quando acquistò lo spartito di Lohengrin, interesse che aumentò dopo l’ascolto delle opere di Wagner ascoltate a Monaco nel 1870. Fu la preparazione alla direzione della prima italiana di Lohengrin a Bologna. Wagner gli scrisse una lettera di ringraziamento da Tribschen il 23 ottobre dello stesso 1871.[3]

Le prime rappresentazioni e le città wagneriane

Alla prima di Lohengrin, il Teatro Comunale era stracolmo di un pubblico curioso e plaudente. Verdi era presente, al palco 23 della seconda fila e qualcuno gridò “Viva Verdi”, ma non vi furono contestazioni; Verdi prese diversi appunti sulla partitura che si era portato, non apprezzò l’opera ma si dimostrò signorilmente diplomatico, per poi scrivere a Ricordi che «tutto quello che ho visto mi stomaca!» Marchetti, Marenco e Boito furono invece entusiasti. Il successo della prima italiana fu talmente clamoroso e inaspettato che il Consiglio Comunale di Bologna, in data 31 maggio 1872, conferì a Wagner l’onorificenza della cittadinanza onoraria (in assoluto il primo documento di cittadinanza onoraria conferita a Wagner). Wagner ringraziò con una lettera del 3 ottobre.

I due grandi musicisti non ebbero rapporti diretti, troppo diversi di carattere e troppo differente la loro musica. Per un certo periodo Verdi fu accusato di essersi avvicinato a Wagner, ma è chiaro che il suo superamento dei pezzi chiusi, il declamato che ascoltiamo nelle ultime opere, la forza e raffinatezza della sua orchestra da Don Carlos in avanti, derivano da un processo interno allo sviluppo che il Maestro di Busseto matura progressivamente. Un percorso che si articola sempre all’interno di tradizioni musicali italiane: «noi siamo i figli di Palestrina», usava dire Verdi, «mentre i tedeschi sono i figli di Bach», quindi vie diverse ch’è bene siano separate.

Dopo Lohengrin, che ottenne la bellezza di 861 rappresentazioni in Italia dalla prima bolognese al 1895, venne eseguita la seconda opera wagneriana in Italia, ancora al Teatro Comunale di Bologna, l’anno successivo alla prima rappresentazione italiana, 1872, si tratta di Tannhäuser che verrà messa in scena anche a Trieste (1878) e ripresa ancora a Bologna nel 1884. La bella città delle due torri realizzò ben 135 rappresentazioni delle opere di Wagner dal 1871 al 1895 (seguita da Torino che rappresentò le opere wagneriane in 134 serate).

Al Teatro La Fenice di Venezia venne rappresentata quella che è la terza opera wagneriana in Italia, Rienzi, siamo nel 1874, due anni dopo quest’opera verrà messa in scena ancora a Bologna. Venezia si dimostrò città molto propensa ad accogliere le opere di Wagner tanto da realizzare un festival wagneriano nell’aprile del 1883, due mesi dopo la morte del Maestro, quando vennero rappresentate le quattro giornate del Ring, che sarà ripreso integralmente e a seguire a Bologna, Torino, Roma e Trieste; occorrerà aspettare il 1926 per riascoltare le quattro giornate a La Scala, che programmò il Ring per cinque anni di seguito.

Le singole giornate vennero riprese in diverse città: nel 1891 il Teatro Regio di Torino rappresentò La Walkiria, eseguita poi al Teatro Comunale di Trieste e a La Scala (1893); nel 1899 La Scala rappresentò Sigfrido, quindi ripreso al Teatro Costanzi di Roma nel 1902; al Teatro Regio venne allestito Il crepuscolo degli dei nel 1895 e l’anno successivo la stessa opera fu rappresentata a La Scala che mise in scena anche L’oro del Reno nel 1903.

Tristano e Isotta venne rappresentata per la prima volta a Bologna nel 1888, nel 1897 al Regio di Torino e nel 1899 al Comunale di Trieste. I Maestri cantori ebbero la prima italiana a La Scala nel 1889 (con una ripresa nel 1898), vennero poi allestiti al Regio nel 1892 e a La Fenice nel 1899. Il 1914 fu l’anno di Parsifal (Wagner aveva decretato che questo Dramma Sacro fosse riservato, fino a quella data, al solo teatro di Bayreuth), venne rappresentato per la prima volta a Bologna, ma che fu subito ripreso a Roma, Milano, Trieste, Pisa, Torino, Palermo, Firenze, Venezia, Genova, Brescia, un vero e proprio anno parsifaliano! A proposito delle città minori, Treviso fu quella che presentò più volte opere wagneriane: Lohengrin nel 1885, L’olandese volante nel 1888, Tannhäuser nel 1895, La Walkiria nel 1901, Il crepuscolo degli dei nel 1903 e L’oro del Reno nel 1908. Anche Parma si distinse per essere una ‘città wagneriana’, malgrado la presenza e l’amore verso Verdi: nel 1883 al Regio venne messo in scena Lohengrin, nel 1900 Tannhäuser e nel 1908 Tristano e Isotta. Titoli wagneriani furono presenti nei primi anni del Novecento anche Ravenna, Brescia, Pisa.

Le vere ‘città wagneriane’ furono Bologna e Venezia. Il capoluogo emiliano stava conoscendo una profonda trasformazione determinata dalla fine dello Stato Pontificio e la nascente borghesia vedeva nel Teatro Comunale un luogo dove poter ritrovarsi, costituendone un polo importante per la cultura della nuova Italia e siccome il nome tutelare di Verdi era un privilegio de La Scala, si pensò che l’astro nascente di Wagner potesse fare al caso, fra l’altro il direttore d’orchestra Angelo Mariani, che aveva da anni rapporti con il Teatro bolognese aveva rotto i rapporti con Verdi e si era avvicinato al repertorio wagneriano. Wagner fu presente all’esecuzione di Rienzi al Comunale di Bologna il 18 novembre del 1876, il direttore d’orchestra fu Mancinelli che venne molto apprezzato da Wagner, i due furono in corrispondenza dal 1880 alla morte di Wagner. La stima verso Mancinelli fu dimostrata dal fatto che Wagner lo volle come direttore della sua giovanile Sinfonia in do a Venezia, in occasione del 45° compleanno di Cosima, e lo volle a Londra a dirigere le prime rappresentazioni de I Maestri cantori e Tristano. Come compositore Mancinelli rese omaggio a Wagner nella sua opera Isora di Provenza, rappresentata a Bologna nel 1884. Nel 1886 Mancinelli lasciò Bologna e suo successore fu Martucci,
successore anche nel senso di eccellente interprete della musica wagneriana.

Nell’affascinante e inquietante Venezia (Wagner ne ebbe sempre un po’ di timore) il Maestro era arrivato per la prima volta il 30 agosto del 1858, costretto a lasciare l’Asilo e l’amante Mathilde Wesendonck. Trascorse le prime notti, come di solito da fuggiasco di lusso, all’Hotel Danieli poi si trasferì a Palazzo Giustiniani, dove portò avanti la stesura del Tristano. Dall’agosto 1858 al marzo del 1859 lavorerà da solo, ascoltando il silenzio dei canali e osservando l’infinito del mare. L’ouverture e il canto nuziale da Lohengrin e l’ingresso nel Wartburg da Tannhäuser vennero eseguite in piazza san Marco per omaggiare il Maestro; queste furono le prime pagine tratte dalle sue opere che Wagner ebbe modo di ascoltare in Italia. Dopo che Boito ne aveva curato l’edizione italiana, La Fenice mise in scena Rienzi, il successo fu dubbio e un po’ scoraggiò, infatti si dovette aspettare il dicembre del 1881 per avere ancora una rappresentazione di un’opera di Wagner, Lohengrin. Venezia, com’è noto, accolse gli ultimi mesi della vita del grande Maestro tedesco.

Milano era la città di Verdi e delle Edizioni Ricordi, non fu facile per Wagner penetrarvi, quando però vi entrò, anche grazie alla lungimiranza del critico Filippi, vi entrò alla grande. Si dovette aspettare il 1888, con il successo di Lohengrin (la prima di quest’opera a La Scala, nel 1873, fu un fiasco). A La Scala venne rappresentato in prima solo I Maestri cantori (1889), ma Milano fu la città che mise in scena più rappresentazioni fra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, seguita da Roma e da Torino. Città molto sollecite a recepire il teatro wagneriano, oltre Bologna e le citate Venezia, Roma e Torino, anche Trieste, Firenze, Palermo, Genova.

Firenze, città dalla buona cultura di musica strumentale, accolse subito Lohengrin che, dopo il 1871, venne ripreso nel 1886, 1888, 1893, 1897 e 1899. Rienzi venne eseguito nel 1877; L’olandese volante nel 1887; Tannhäuser dieci anni dopo. Trieste, città mitteleuropea, mise in scena nel 1876 l’opera che più successo ebbe in Italia, Lohengrin; fu poi la volta di Tannhäuser due anni dopo e nel 1892. Nel 1883 fu la volta del ciclo integrale del Ring.

Nel 1876 Wagner trascorse un mese a Roma, dove strinse diversi rapporti musicali; la Regia Accademia di Santa Cecilia gli consegnò il diploma di socio onorario. Lohengrin venne rappresentato molte volte, nel 1878, 1880, 1884, 1890; nel 1880 fu messo in scena anche Rienzi; nel 1886 Tannhäuser; nel 1887 L’olandese volante; nel 1883 vi fu l’avvenimento dell’esecuzione delle quattro giornate del Ring. Prima della rappresentazione di Lohengrin del 1880 Wagner scrisse alla sua editrice italiana Giovannina Lucca, in francese in data 12 marzo, di non poter essere presente all’esecuzione e che lasciava totale libertà agli artisti italiani per lo spettacolo, questa condiscendenza non significa affatto una completa fiducia nei nostri musicisti, tutt’altro, è dà intendere come poca considerazione per i musicisti e per il pubblico italiano: Lohengrin veniva proposto con numerosi tagli che non potevano certo essere avvallati del compositore, il quale lasciò fare, tanto per l’Italia potevano andar bene anche opere «tronquées»! Del resto la sua stessa editrice italiana aveva in mente l’idea di ridurre il Ring in una sola serata! È interessante riportare questo aspetto per poter considerare i risvolti del rapporto fra Wagner e l’Italia.

Carlo Pedrotti aveva fondato a Torino i Concerti sinfonici popolari, dove venne eseguita l’ouverture dal Lohengrin, il 12 maggio 1872. Fu poi la volta di brani tratti da Tannhäuser e L’olandese volante. Al Teatro Regio venne eseguita la prima opera wagneriana a Torino, Rienzi, 23 dicembre 1882, al quale seguì, al Teatro Carignano, L’olandese volante, 24 novembre 1886.

Wagner e i compositori italiani

Nell’ambiente della composizione, proprio negli anni delle prime rappresentazioni wagneriane in Italia e anche grazie a esse e all’influenza della musica di Liszt, la sinfonia descrittiva e il poema sinfonico presero il posto della sinfonia o ouverture rossiniana, si trattò di composizioni a programma con un evidente carattere narrativo, quadri d’ambiente che passarono anche nella coeva opera teatrale. Già precedentemente con Foroni, Bottesini, Boito (la sua Sinfonia in la minore è del 1858), Faccio, Mariani e con Bazzini l’ouverture descrittiva aveva dato origine a ciò che Dahlhaus chiama ‘neo-romanticismo’ post 1848 che riprende tematiche proprio da Liszt e Wagner. Anche gli operisti si allinearono indirettamente su questa strada. Gli allievi di Bazzini, come Catalani, ma anche Puccini, Smareglia, Mancinelli, Coronaro, erano informati sull’evoluzione della musica orchestrale e iniziò un produttivo scambio di esperienze fra musica operistica e orchestrale, la stessa parabola di Verdi lo dimostra (da ricordare come il grande Maestro di Busseto abbia avuto rapporti stretti prima con Faccio, Mariani e poi con Boito), soprattutto le due sinfonie che Verdi compone per La forza del destino e per Aida stanno a significare quanto il discorso orchestrale sia entrato in quello operistico (Otello ne sarà un esempio sommo).

La musica pura, sostenuta da Hanslick ed espressa magnificamente da Brahms, in Italia non si consolidò mai, dal 1870 però, a seguito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Beethoven, ricevette un certo slancio, per esempio la Società del Quartetto di Milano realizzò il ciclo delle sinfonie che furono dirette da Hans von Bülow. Il fatto che fu Wagner ad avere una forte influenza sulla nostra musica orchestrale dimostra che non fu la musica assoluta ad attirare i nostri compositori (malgrado una certa diffusione della musica di Mendelssohn) piuttosto furono le ouvertures di Tannhäuser e Lohengrin, il Mormorio della foresta dal Sigfrido, la Cavalcata delle Walkirie e altre parti orchestrali tratte dalle opere wagneriane a esercitare un profondo fascino sia sui compositori di musica strumentale sia sugli operisti.[4]

Cosa conosceva Wagner della musica italiana? Dei musicisti storici soprattutto Palestrina del quale il Maestro possedeva diverse raccolte di messe e mottetti; nella biblioteca di Bayreuth sono conservati anche lo Stabat Mater di Pergolesi e il Miserere di Leo. Conosceva qualcosa di Piccinni, Cimarosa e Paisiello, ai quali non dava gran peso, e pressoché niente della musica strumentale di cui possedeva solo sei Sonate di Domenico Scarlatti. Dei compositori suoi contemporanei conosceva e aveva un amore/odio per Rossini, mentre giudicava abbastanza positivamente Bellini e Spontini. La scena e l’aria italiana costituirono il riferimento diretto nelle opere giovanili, così come le lunghe melodie belliniane e anche il duetto all’italiana è presente fino a Lohengrin. Negli scritti di Zurigo la disistima nei confronti dell’opera italiana si fa più forte, definita in Opera e dramma «una prostituta». Non si può pretendere da un ideologo come Wagner l’oggettività di giudizio, è interessato solo a fortificare la sua visione del teatro musicale. Da considerare pure il periodo storico carico di battaglie ideologiche e politiche, questo vale per Wagner e per l’Italia.

I direttori d’orchestra delle prime rappresentazioni furono Carlo Ercole Bosoni per Rienzi, Marino Mancinelli per L’olandese volante, Angelo Mariani per Tannhäuser e Lohengrin, Giuseppe Martucci per Tristano e Isotta, Franco Faccio per I Maestri cantori, Anton Seidi per l’integrale del Ring, Rodolfo Ferrari per Parsifal. Si tratta dei musicisti più colti che l’Italia dispone nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni collaboratori anche di Verdi. Per primo va ricordato Giuseppe Martucci che oltre a essere un ottimo direttore fu anche un buon compositore e pianista e, sempre della cerchia degli appassionati wagneriani si devono citare Luigi Mancinelli, Giovanni Bolzoni, Giovanni Bottesini, Carlo Pedrotti, sono i rappresentanti della musica strumentale italiana dell’epoca.

Il giovane Arrigo Boito vide in Wagner il nome nuovo, il simbolo dell’avvenire, in maniera generica significava rinnovamento, fu questa la posizione della Scapigliatura milanese. Dal 1864 però Boito iniziò a far ammenda del suo vagheggiamento per Wagner definito «un falso apostolo»; era l’artificioso simbolismo wagneriano a non essere digerito, proprio il contrario di quello che proclamava Blaudelaire, e contro l’oscurità dei contenuti wagneriani si opponeva la semplicità e la chiarezza latina. Dagli inizi degli anni Sessanta la querelle wagneriana cominciò a profilarsi. Il distacco da Wagner provocò il progressivo accostamento di Boito a Verdi, il quale, in un primo momento, lo guardò con sospetto proprio per i suoi giovanili amori wagneriani.

Alfredo Catalani, che fu sfegatato wagneriano in gioventù, riprese da Bazzini la tecnica della costruzione del discorso musicale partendo da un motivo irradiante, il poema sinfonico Ero e Leandro lo dimostra ampiamente, con il complesso dei motivi e la loro trasformazione progressiva; pure l’intervallo di quinta eccedente si riscontra spesso nel tessuto armonico della musica di Catalani, grazie alle sue caratteristiche di sospensione tonale questo intervallo crea una zona neutra particolare che attrae l’attenzione e nella quale è meglio focalizzabile, come in uno zoom, un atteggiamento espressivo. Se l’influenza dei Maestri francesi è facilmente documentabile in Catalani sia nella parte biografica sia in quella musicale l’influsso di Wagner è più problematico, infatti – a parte Tannhäuser e Lohengrin – Catalani non può aver conosciuto, negli anni della sua formazione, nessun’altra opera wagneriana, ma può averne sentiti vari spezzoni sia nel suo soggiorno parigino sia in Italia, visto che Wagner, dagli anni Settanta in poi, è l’autore straniero più eseguito dopo Beethoven. L’accusa di essere dalla parte di Wagner, che negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento era un’infamia e che certo non aiutò Catalani, risulta essere ben poca cosa, ma certo le suggestioni wagneriane sono ben presenti, come nella musica di Alberto Franchetti, si veda l’ipertematismo della sua Sinfonia in mi minore o la magniloquenza orchestrale della sua opera più impegnativa e dal titolo esplicito, Germania. Anche l’istriano Antonio Smareglia fu, soprattutto per la sua cultura mitteleuropea, vicino allo stile wagneriano, in particolare con la sua produzione scritta a Trieste dopo il 1895 e con l’opera Falena. Da ricordare che Mascagni compose una Elegia in morte di Wagner.
Giacomo Puccini[5] fin dagli studi milanesi si era invaghito di Wagner, comprando, a metà con Mascagni, lo spartito di Parsifal. Il doppio intermezzo sinfonico de Le Villi fu stigmatizzato da Verdi come un momento realizzato «pel solo piacere di far ballare l’orchestra», notandone quindi la derivazione dallo strumentismo oltremontano. Andò a sentire la prima italiana a La Scala de I Maestri cantori (riascoltata a Bayreuth, insieme a Faccio, nel 1889) e fin dalle sue prime opere mise a frutto le conoscenze della musica di Wagner, riscontrabili nei temi ricorrenti, nell’uso degli archi e in un certo trattamento armonico che ricorda il tappeto sonoro di Lohengrin. Nell’intermezzo del terzo atto di Manon Lescaut si avverte un’armonizzazione di derivazione wagneriana, come in alcune parti dell’opera, così in Bohéme (dove vi è perfino l’uso del Tristan-Akkord) e così in Tosca dove il ricorso ai Leimotive è evidente. L’ansia di rinnovamento che assalì Puccini dopo Madama Butterfly e che lo portò a scrivere un’opera orchestralmente evoluta come La fanciulla del West e quindi a cercare di comporre con il «cervello moderno» sfocerà nelle grandiose strutture di Turandot che in diversi punti ricorda la drammaturgia de La Walkiria come quando le sorelle di Brunilde pregano il padre Wotan di non coprirle di vergogna concedendo Brunilde a un mortale: «La fanciulla deve sfiorire / e soccombere all’uomo? Spaventoso dio, distogli da lei / la lamentevole onta!» Allo stesso modo Turandot prega suo padre: «Figlio del cielo! Padre augusto! No! / Non gettare tua figlia fra le braccia / dello straniero». Come Brunilde anche Turandot infine si concederà, non a un mortale qualsiasi ma a un eroe: «C’era negli occhi tuoi / la luce degli eroi». I riferimenti sono qui letterali, ma, al di là dei singoli episodi, è indubbio che Wagner esercitò un’influenza esplicita e implicita su pressoché tutti i compositori italiani della fine dell’Ottocento e d’inizio Novecento: da Busoni e Wolf-Ferrari, da Neglia a Scontrino, da Rossaro a Perosi, furono – almeno inizialmente – contagiati da Wagner.

Come dopo Beethoven, anche dopo Wagner non fu più possibile comporre come prima, il caso de I goti di Stefano Gobatti è quanto mai significativo di un’adesione totale al wagnerismo che si stava imponendo a livello europeo. Se il Mefistofele di Boito fu un malinteso avvicinamento alla «musica dell’avvenire» l’opera di Gobatti vuole consapevolmente inserirsi nel solco di Wagner. Snobbato da Milano, Gobatti trova una bella accoglienza nella Bologna wagneriana che accolse con successo la prima de I goti nel novembre del 1873. La speranza però di aver trovato un Wagner italiano si ridimensionò presto, gia l’opera successiva, Luce, andata in scena nel novembre del 1875, deluse assai. A dimostrazione che questi furono anni comunque wagneriani, negli stessi giorni fu messo in scena di nuovo Mefistofele di Boito che si riabilitò dopo la non felice prima del 1868.

Alla musica di Tannhäuser e Lohengrin si affiancò quella di Tristan e Parsifal, furono composizioni che continuarono a influenzare anche i compositori italiani della generazione di fine Ottocento, ma non solo le musiche influirono sulle opere ma anche i soggetti e le ambientazioni neo gotiche, infatti, numerosi furono le narrazioni ispirate alla mitologia e alla storia nordica, come Lorhelia di Stanislao Calvi o La figlia del re degli Alni di Niels Gade, oltre a Le Villi di Puccini e Loreley di Catalani.[6] Alle leggende e al fantastico si riallacciarono Francesco Malipiero con Linda d’Ispahan, Giulio Litta con Il viandante, Cesare Dominicetti con Il lago delle fate, oltre a Mascagni di Zanetto e altri. A Parsifal si rifà Lucia di Settefonti di Giuseppe Gallignani, alla costruzione simbolista si riallacciano L’Albatro di Ubaldo Pacchierotti e La Perugina di Edoardo Mascheroni (su libretto di Illica); al Ring rimanda Hedda di Fernand La Borne; Isora di Provenza di Luigi Mancinelli fu addirittura accusata di essere una scopiazzatura di Lohengrin. Con Mancinelli, Mascheroni, Mascagni entriamo nell’ambito dei compositori che furono pure direttori di drammi wagneriani. Tutta la produzione citata è oggi pressoché scomparsa a causa del fastidioso eclettismo fra argomenti disparati e di una musica che sostanzialmente non riesce a realizzare l’integrazione fra l’atmosfera fantasiosamente neo gotica e le nuove esigenze tecnico-formali relative ai processi compositivi di fine Ottocento.

Wagner e i letterati italiani

Anche letterati, poeti e romanzieri italiani furono fortemente influenzati da Wagner. Giosue Carducci si dichiarò inconsapevolmente wagneriano, è rimasta famosa la sua frase: «quanto alla musica non me ne intendo: più suon forte e più mi piace: son tedesco». Nella sua ode Presso l’urna di Percy Bische Shelley volle combinare mitologia greca e nibelungica: «Ivi poggiati a l’asta Sigfrido ed Achille alti e biondi […] Elena e Isotta vanno pensose per l’ombra dei mirti». Ancora un altro omaggio a Wagner, esplicito, Alle Valchirie, scritto nel 1898 per i funerali della regina Elisabetta (le Valchirie hanno il compito di portare la regina nella culla della cultura, la Grecia).

Giovanni Pascoli trasfigurò la vicenda di Sigfrido nel poemetto Le armi, ma lo scrittore che con Wagner ha intessuto un rapporto di amore fu Gabriele d’Annunzio che venne folgorato da Tristano, ascoltato nel 1892. L’amore di d’Annunzio per Wagner, che chiamò il «Gesù di Bayreuth», iniziò a Napoli, durante le esecuzioni al pianoforte di opere wagneriane in casa dell’amico Niccolò Van Westerhout, preparate dalla conoscenza della letteratura francese. «L’opera d’arte è determinata dalle condizioni dello spirito […] Wagner ha raccolto nella sua opera questa spiritualità, interpretando il nostro bisogno metafisico».[7] Wagner apparve un sismografo sensibilissimo che descrive i più piccoli moti della contemporaneità, non un artista decadente che si era abbeverato degli aspetti più bassi e mortificanti del proprio tempo come vide Nietzsche, ma un musicista che aveva saputo profondamente descrivere il proprio tempo. Il celebre romanzo Il trionfo della morte, la cui redazione definitiva risale al 1894, è un’apologia del clima tristaniano. Ma già nel romanzo successivo, Il fuoco, d’Annunzio prende le distanze dalla cotta wagneriana e parallelamente si avvicina alla musica italiana del Sei-Settecento, fino a interessarsi alla cura della Raccolta Nazionale delle Musiche Italiane (di cui fu direttore onorario, mentre gli effettivi furono Malipiero, che stese il piano dell’opera, Pizzetti, Balilla-Pratella e Perinello). D’Annunzio conobbe anche Liszt, proprio poco prima che il Maestro morisse, s’incontrarono a Villa d’Este a Tivoli e al grande pianista dedicò alcuni scritti su «La tribuna».[8]

Arturo Graf scrisse nel 1878 il poemetto Il vascello fantasma, sollecitato dalla prima italiana dell’opera wagneriana; la poesia Lo gnomo ha soggetto ripreso dall’Anello del Nibelungo, ma con accenti parodistici. Fra i pochissimi nostri letterati che conoscono la musica e che sanno suonare almeno uno strumento va annoverato Italo Svevo, non a caso triestino e quindi di cultura mitteleuropea, fu violinista come Benco e Saba. Nel suo romanzo Senilità vi è un importane passo dedicato a una messa in scena al Teatro di Trieste de La Walkhiria e si dice che «Wagner è condotto da un dio!» Anche il giovane Luigi Pirandello amò Wagner ed ebbe modo di ascoltarlo durante i suoi studi in Germania, progressivamente però si allontanò dal Maestro tedesco, ripercorrendo una parabola simile a quella di d’Annunzio.
Negli anni Dieci del Novecento, la rivalutazione del nostro patrimonio musicale pre-romantico allontanò gli scrittori da Wagner e dalla musica tedesca in generale, anche chi aveva avuto simpatie wagneriane, come Papini, Prezzolini, Morselli, si ricredettero in nome della classicità latina. Nel romanzo Il peccato di Giovanni Boine si segue l’esempio di Nietzsche e si identifica la musica wagneriana con la droga, essa soggioga l’ascoltatore con il suo incessante procedere e con la sua sonorità schiacciante. Marinetti propose di render più vivace il teatro wagneriano inserendosi canzoni napoletane!

Una visione della musica e dei contenuti simbolici wagneriani ebbero Dino Campana e Giuseppe Ungaretti, il primo riprese certi artifici letterari proprio del primo d’Annunzio, mentre il secondo, in Sentimento del tempo, dedicò due inni alla notte che ricordano Tristano. Gli anni Venti videro occuparsi di Wagner, in vario modo e con prospettive differenti, scrittori quali Bontempelli, Debenedetti, Barilli, Thovez, Lugli, Manacorda, Flora, Cogni, Tozzi e soprattutto Arturo Onori.[9]

Dall’inizio degli anni Trenta si assistette alla Verdi-renaissance che si richiamava agli aspetti risorgimentali, personalità come Celli, Gui, Baccelli, Gavazzeni, Barilli, Bontempelli, Montale, Savinio, affermarono, in nome di una visione nazional-popolare, la supremazia di Verdi che sembra «l’uomo nato apposta per spazzar via col suo pugno sterminatore ogni parassitismo intellettualistico», come scrisse Barilli nel suo celebre libro Il paese del melodramma. È noto come nel secondo dopoguerra le posizioni antisemitiche e nazionalistiche del Wagner di Bayreuth e soprattutto quelle sostenute da Cosima misero in cattiva luce l’opera wagneriana non solo nel mondo ebraico ma nel mondo intero, si dovette attendere gli anni Cinquanta per assistere a una progressiva Wagner-renaissance, soprattutto in chiave fenomenologia operata da Enzo Paci e da Luigi Rognoni, ma pure in prospettiva psicanalitica per la quale Wagner diviene importante quale scrutatore degli aspetti oscuri della coscienza, una visione che sarà anche dell’Ungaretti degli Ultimi cori per la terra promessa.


[1] Filippo Filippi, Secondo viaggio nelle regioni dell’avvenire, in G. M. Lleonardt, Riccardo Wagner, Milano, Dumolard, 1881, p. 161.
[2] Antologia della critica wagneriana in Italia, a cura di A. Ziino, Peloritana editrice, Messina 1970, p. 116. Per la critica moderna si citano: Gianandrea Gavazzeni, Massimo Mila, Guido Pannain, Italo Maione, Alfredo Parente, Ildebrando Pizzetti, Beniamino Dal Fabbro, Alberto Savinio, Giulio Cogni, Boris Porena, Giorgio Vigolo, Giovanni Ugolini, Luigi Magnani, Fedele D’Amico, Mario Bortolotto, Diego Bertocchi, Gianfranco Zaccaro, Piero Buscaroli, Rubens Tedeschi, Paolo Isotta e altri.
[3] Cfr. Renzo Cresti, Richard Wagner, la poetica del puro umano, LIM, Lucca 2012.
[4] Secondo le statistiche realizzate fra le Società concertistiche dopo l’Unità d’Italia Beethoven è l’autore più eseguito, seguito da Wagner, quindi da Mendelssohn e da Liszt. Solo al quinto posto si pone Rossini, a dimostrazione del mutamento delle preferenze che lo vedevano al primo posto qualche decennio prima. Fra le varie Società orchestrali Wagner fu il compositore più eseguito alla Società del Quartetto di Bologna, soprattutto con il preludio da I Maestri cantori. La Società orchestrale de La Scala e quella dei concerti di Torino preferirono il preludio da Tannhäuser; mentre la Società orchestrale romana la Cavalcata delle Walkirie.
[5] Cfr. Renzo Cresti, Giacomo Puccini e il Postmoderno, Edizioni dell’Erba, Fucecchio 2008.
[6] Cfr. Wagner e il teatro italano post-unitario: il caso dell’opera a soggetto nordico, in Itinerari musicali italo-tedeschi, a cura di Johannes Streicher e Armando Menicacci, Herder, Roma 1989.
[7] Gabriele d’Annunzio, La musica di Wagner e la genesi del Parsifal, Firenze, Quattrini 1914, p. 25.
[8] Gabriele d’Annunzio, in «La tribuna», del 5 agosto 1886: «Le dita di Francesco Liszt, quelle dita elettriche che erano il tuono, il lampo, il fulmine, e lasciano sul pianoforte da esse toccato un odore acuto di zolfo […] Nessuno all’infuori di Riccardo Wagner ebbe concetti metafisici più elevati e ardimentosi di lui […] Per Liszt pianista la posterità avrà una frase calda, appassionata, ma breve; per Liszt compositore il periodo sarà nutrito, robusto e assai più lungo; ma per Liszt figura complessa, organismo musicale, la posterità avrà una pagina intera; e quella pagina resterà eternamente legata al gran libro della storia dell’arte moderna».
[9] Cfr. Adriana Guarnieri Corazzol, Tristano, mio Tristano, il Mulino, Bologna 1988.



Ad Aldemaro Toni






 




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