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Da Webern a Stravinskij, il concetto di intreccio
Da Webern a Stravinskij



Nel 1956 usciva sulla rivista «Die Reihe» il saggio di Henri Pousseur, Da Schoenberg a Webern una mutazione, articolo che allargava le premesse del famigerato scritto del 1952 di Pierre Boulez, Schoenberg è morto; questi due testi hanno influito moltissimo sull’egemonia del pensiero e della prassi weberniana durante gli anni cinquanta e sessanta. La strada principale di allora era quella che collegava Darmstadt a Colonia e a Parigi, luoghi obbligati della Neue Musik, tutta incentrata sulla concezione evoluzionistica del linguaggio, concezione che obbligava a comporre partendo sempre dallo stato tecnico più avanzato.

Secondo la tradizione occidentale è il concetto di struttura che collega la musica alla società. Ogni struttura fa riferimento a un’organizzazione della mente e delle forme e produce una strategia tecnica che collega la coerenza del pensiero compositivo con il sistema linguistico e quindi con le strutture sociali. Questa ratio stringente e idealistica ha prodotto un eccesso di tecnica, di calcoli e di complessi piani preparatori, come per esempio nelle utopie della musica elettronica (uno dei settori che in prospettiva ha deluso di più). Heidegger, nella sua Lettera sull’Umanesimo, aveva criticato l’assenza di radicalità della cultura umanistica, la quale aveva lasciato molti problemi aperti per il suo pensiero morbido, ma è di profondità umane di cui oggi abbiamo bisogno e non di radicalità e di ulteriori approfondimenti tecnici, l’uomo rimpiccolisce nell’abuso della tecnologia e del formalismo e non è in grado di produrre l’affondo necessario alla ricerca di un’ontologia dell’umano.

Finché la sofferenza farà parte dell’uomo, e sempre ne farà parte, anche l’arte non potrà che essere solidale a questo dolore, un male che però l’arte dovrà cercare di svincolare dalle cause che lo producono, andando alle radici di quel dolore, metabolizzandolo e vincendone le angosce, proponendo scenari possibili di un’umanità rasserenata e riappacificata. Rispetto alla posizione adorniana della dialettica negativa, ci deve essere una risposta positiva, un’affermativa forza utopica, perché se è vero che l’u-topia parla di un posto che non c’è, è anche vero che quel posto potrebbe esserci ed è lì, nella terra dell’uomo riconciliato con se stesso e con il prossimo, che l’arte deve incamminarsi.

Dopo il cambiamento nella scala di valori che vedeva la preminenza dello stile di Webern su quello di Schoenberg, si verifica una seconda fondamentale mutazione che s’intreccia alla già intricata trama degli incroci musicali, quella che vede l’affermarsi di compositori posizionati prima al margine e che diventano sempre più importanti, come per esempio Debussy, Skrjabin, Bartók, Berg, Richard Strauss, Prokof’ev e soprattutto Stravinskij, il quale diventa un riferimento paradigmatico del musicista eclettico che gioca con la storia, smontandone alcuni elementi e ricomponendoli in forme nuove, praticando una metodologia che diviene tipica degli ultimi decenni: le citazioni e l’assemblaggio di stilemi differenti (quella ch’è stata definita ‘musica al quadrato’) sono tratti tipici della musica di Stravinskij, il quale spesso si abbandona a un gioco ludico e artificiale (un esprit d’artifice che si riscontra pure in Ravel e nel secondo Strauss); il nomadismo culturale e stilistico fa di Stravinskij un artista attualissimo.

Può sembrare più semplice com-porre in maniera disparata che non in uno stile severo e compatto, ma non è così perché lo scrivere in modo razionale e omogeneo viene garantito da piani preparatori che tolgono naturalezza ma che servono a cementare gli elementi, piani che servono a poco se ci si concede all’estro dove il vissuto umano ha molto più rilievo e deve possedere una forza che permette di tenere legati gli aspetti del molteplice. Nella condizione ipermoderna si può tornare a parlare di creatività, di talento, di fervore, di estro e, perché no? Di ‘genio’, ovviamente senza i contorni romantici, intendendolo in maniera etimologica ovvero come una vocazione, una dote insita nei fortunati, una grazia ch’è molto difficile da descrivere ma che si sente benissimo! È per questa ragione che alcuni grandi compositori sostengono che la composizione non si insegna perché è un dono ossia la preparazione tecnica e culturale è condizione necessaria ma non sufficiente alla creazione[1].

Adorno aveva accusato Stravinskij di essere un restauratore, confrontandolo con il progressista Schoenberg[2], impostazione che partiva dall’assunto che il musicista, per conservare la propria verità interiore, doveva tenersi lontano dai meccanismi della società mercantile. Malgrado che le categorie ermeneutiche adorniane siano nel panorama odierno piuttosto lontane, è indubbio che l’intelligenza con le quali sono state trattate ci induce al doveroso rispetto, il che non ci impedisce di affermare che il messaggio nella bottiglia che il ‘vero’ musicista (Schoenberg), consapevolmente isolato dalla (in)civiltà della società dei consumi, getta nel mare magnum della massificazione appare oggi del tutto fuori posizione. A parte il persistere di atteggiamenti romantici nel concetto di ‘verità interiore’, ciò che la nostra concezione della storia esige è proprio il posizionamento nei grandi e trafficati incroci delle strade principali che consentono l’esserci. Chi non è in grado di sostenere i rumori del mondo e si isola nel suo studio è inevitabilmente condannato a una posizione marginale, ciò che in termini correnti si definisce ‘di nicchia’.
Il posizionamento e la qualità dell’opera sono due variabili indipendenti ossia vi può essere un posizionamento al centro ma con una proposta artistica di scarso valore o un posizionamento al margine con una proposta artistica alta. Mentre sul posizionamento i criteri sono chiari perché sono le stesse coordinate dello spazio/tempo attuale a determinarlo, sulla qualità dell’opera i criteri diventano assai labili, non vi è una fissa scala di valori artistico-estetici a cui far riferimento in quanto una delle caratteristiche prioritarie dell’ipermoderno è proprio quella della mobilità delle prospettive, per cui o ci si abbandona a una sorta di nichilismo sul giudizio o si ritorna al concetto di posizionamento il quale può comunque fornirci delle chiavi di interpretazione ossia pare che sia proprio il posizionamento a fornire almeno la patente di centralità nel dibattito culturale contemporaneo. Ai posteri spetterà il compito di scoprire se nella marginalità s’è nascosto un genio.

Si sono affermate posizioni empiriche, sensistiche e pragmatiche, legate a impostazioni induttive, concrete e d’impatto immediato all’ascolto. Intrecciato a queste vi è anche il funzionalismo che considera le problematiche del comporre non legate principalmente alla scrittura ma al suo effetto, al dove e al quando il brano verrà eseguito, alla tipologia del pubblico e alle attese. È dunque il punto di vista dell’ascoltatore a predominare, nello specifico di una situazione. I procedimenti della musica applicata sono dunque più adatti, rispetto a quella cosiddetta pura, per soddisfare le attese di pubblici vasti[3]. È il sound che deve funzionare e deve coinvolgere, in maniera diretta senza filtri tecnici, il (grande) pubblico: qui sta la sfida del comporre oggi per il quale la riuscita di un prodotto si misura in termini quantitativi ovviamente senza rinunciare alla bontà del prodotto stesso. Qualità (dell’opera) e quantità (di pubblico), esigenze della scrittura e della comunicazione, il tutto deve essere posizionato all’interno delle dinamiche dello spazio/tempo operativo in un difficilissimo equilibrio che non può che essere instabile, in quanto è sempre l’intreccio mutevolissimo il soggetto principale che determina l’operare, l’opera e le sue forme ricettive.

Il concetto di intreccio

È del tutto impossibile analizzare un fenomeno complesso come la musica contemporanea senza far riferimento al concetto di intreccio, come lo ha descritto Paul Veyne: «I fatti non esistono isolatamente, nel senso che il tessuto della storia è quello che chiameremmo un intreccio, una mescolanza molto umana e poco scientifica di cause materiali, di fini e casualità.[4]» L’agire dei tanti compositori non è un operare isolato, anzi, s’inserisce in una fitta trama di contatti (spesso inconsapevoli), innumerevoli sono i rimandi e i reciproci condizionamenti fra il pensiero compositivo e l’evoluzione della politica e della società, della cultura e della tecnica. L’intreccio è talmente fitto e aggrovigliato ch’è impossibile scioglierlo, occorre ritagliarsi una fetta di spazio e di tempo all’interno della quale poter focalizzare (f)atti e intenzioni, oggetti e pensieri. Il concetto di intreccio si accavalla a quello di complessità che ci insegna come ogni elemento sia inserito in una sfera di relazioni senza fine, del tutto non analizzabile in sé, ma solo ricorrendo a uno stop dei rimandi infiniti. A ogni analisi sfugge dunque qualcosa, tanto più che alla sistemazione razionale dei fatti vanno a sovrapporsi sogni e visioni. La «mescolanza molto umana e poco scientifica» riguarda pure il soggetto analizzante ossia colui che scrive attorno ai fatti. Tutto dipende dall’angolatura con cui si sceglie di studiare l’intreccio, l’angolatura, a sua volta, dipende da ciò che colpisce lo studioso, dal punctum, dalla sollecitazione avuta da un’illuminazione che gli permette di rendere meno oscura la complessità.
Non esiste una incrollabile e immutabile ‘verità’ del fatto storico, così come della personalità dell’artista ch’è sempre ‘uno, nessuno e centomila’. Non vi è dunque una lettura istituzionale della musica contemporanea, che sarebbe una contraddizione in termini in quanto negherebbe non solo l’intreccio ma la dinamica dei fatti e il loro veloce mutare. Ciò non significa lasciarsi andare al relativismo ermeneutico, i pericoli delle libere sovrainterpretazioni[5] sono quelli della confusione, non è dunque il caso di aggiungere a un intreccio già complesso anche il problema delle esposizioni forzate, delle fossilizzate esegesi accademiche e delle analisi fine a se stesse.

La contemporaneità è fatta di mille aspetti, spesso contrastanti, è in movimento e brucia tutto in poco tempo, bisogna avvicinarsi ad essa con amore e riflettere su ciò che vediamo-ascoltiamo con strumenti critici affinati, non tanto per attaccamento all’analisi, allo (s)comporre e classificare, quanto per potersi orientare e non subire passivamente i dati di fatto. Per capacitarsi occorre prima avere una buona educazione generale ai (f)atti della cultura odierna, poi un’informazione dettagliata, in quanto senza un bagaglio culturale di partenza e senza disporre dell’elenco dei materiali a disposizione non è certo possibile prendere dimora dentro la musica del nostro tempo.

Le vie principali sono quelle erranti, non solo nel senso del nomadismo culturale, così caro alla Worl music, che vuole cancellare ogni genere per aspirare a descrivere la multietnicità, ma nel senso di una continua inquietudine che obbliga a non fermarsi al già acquisito, una costrizione interiore ad approfondire le qualità di un io plurale. Si tratta di sondare le possibilità di spazi e luoghi, di tempi e modi in movimento, i quali riguardano molteplici piani della cultura, sottolineandone la poliedricità e le tensioni (del suono e del rumore, del ritmo e del colore…), in tal modo si sconfessa l’asetticità dell’estetica formalista che, nell’algida messa a punto di prospetti preparatori, si chiude in un’autoreferenzialità meramente descrittiva del proprio progetto.

Oggi si fa un gran parlare di comunicazione, come se non fosse un problema aperto per ogni epoca e per ogni musicista (da un punto di vista storico è dunque un falso problema), si va alla ricerca di una trasmissione di idee e (f)atti immediata, cosa impossibile, oggettivamente: la comunicazione è comunque dispersa in mille strade e viottoli che creano un intreccio entropico, nel quale la comunicazione è virtuale, impalpabile, perché non si fonda sul contatto diretto, sulla partecipazione attiva e umana: sono questi gli anni della ridondanza condivisa, in maniera eterea, leggera, vaga. Siamo dentro l’occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici. Più le parole vengono ripetute, i suoni moltiplicati e le immagini ingrandite e più aumenta la nostra solitudine. Così altro non possiamo fare che abitare la distanza da una comunicazione che non comunica, da un’espressione programmata, dalla leggerezza dell’essere e dalla pesantezza del pensiero forte e burocratico (o politicamente corretto). Abbiamo davvero necessità di una rinnovata e laica spiritualità, non staticamente dottrinale, ma percepita come fonte di senso e di vita. A livello di composizione musicale la problematica è quella che concerne il bisogno di una rinvigorita espressione della forma, che nulla deve concedere ai compromessi neo-qualunquistici e rimanere rigorosissima, metabolizzando però, nell'intimo suo farsi, l'esigenza della comunicazione.

Ci vuole uno sguardo mobile e intuitivo che veda atteggiamenti e opere da più punti di vista, mentre si muovono, senza alcuna pretesa di fissarli con un’analisi che, in ogni modo, risulterebbe deficitaria; serve uno studio minuzioso senza l'ostentazione di un giudizio estetico definitivo. Chi ha la capacità di uno sguardo mobile e intuitivo, interrogativo ed eccentrico al di là dell’omologazione generalizzata, meditativo e innocente fuori dai compromessi con se stessi e con il mondo, consapevole del proprio essere e delle relazioni con l’esserci, sia l’a-priori del pensare e comporre musica oggi?

Scrivere ciò che scrivendo si profila

Nel suo famigerato libro Fase seconda, che tanto scalpore suscitò al suo apparire nel 1969, Mario Bortolotto[6] prende in esame i seguenti compositori: Luigi Nono, Luciano Berio, Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Sylvano Bussotti, Franco Donatoni, non v’è dubbio che, nell’ottica dell’oggi, il compositore che fra questi ha assunto un ruolo sempre più in sintonia con i presupposti e con le metodologie usate nella contemporaneità sia Castiglioni[7], musicista fornito di doti straordinarie che stanno al di qua di ogni tecnica e che vanno al di là di ogni concetto culturale: quando Castiglioni iniziava a comporre non preparava schemi formali prestabiliti, non seguiva piani strutturali cavillosi, ma si lasciava guidare dall’estro e dall’idea formale che la sua mente sensibilissima immaginava; la sua vena poetica inesauribile riusciva a foggiare di volta in volta l’oggetto musicale, in forme sempre diverse e imprevedibili, realizzate con una mano assolutamente mirifica. Il recupero della tonalità e l’uso della citazione avviene nella musica di Castiglioni in modo del tutto naturale, scrivendo ciò che nello scrivere si profila (come avviene nelle composizioni recenti di Carlo Pedini). In fondo occorre fare come i jazzisti che studiano il brano per ore e giorni interi poi, quando è il momento dell’esecuzione, lasciano lo studio sullo sfondo e improvvisano (se hanno la musicalità che gli permette di farlo! Perfino gli studenti sanno che la creazione estemporanea è difficilissima da far bene perché non richiede solo lo studio ma anche l’inventiva.)

Fra i compositori citati da Bortolotto, si può dire che avvisaglie del postmoderno si hanno in Berio ch’è stato uno dei primi e uno dei pochi a evitare classificazioni e a muoversi sempre con abilità e fantasia, con un atteggiamento onnivoro. I Folk songs sono una delle prime e rare commistioni che la musica contemporanea occidentale realizza con la canzone popolare. La sua musica è un (f)atto eccentrico che eccede ogni centralità, ogni stare, ogni modo compiuto, per non lasciarsi imbrigliare nelle maglie dei generi omologati e degli stili consolidati. La sua Sinfonia è uno dei pezzi che, fra i primi in Europa, dimostra la prensile attività di Berio. Nel pozzo dell'interiorità non troviamo un’essenza pura, ma un villaggio abitato, dove convivono molti “io”, una sorta di nascosti compagni di viaggio. L’opera non può che risultare da queste mille voci. Nel teatro di Berio non esiste un racconto lineare, ma una multipolarità formale ed espressiva, che crea una polifonia di strati sonori ed emotivi: da Opera a La vera storia, da Un re in ascolto a Outis. Sotto il profilo tecnico, soprattutto nella produzione più recente, si può notare che da una compatta costruzione formale di base escono spesso degli elementi che vanno a costituire dei quadri, come nell’opera Cronaca del luogo, dove i suoni risultano essere una sorta di graffiti che appartengono al muro musicale, quindi appoggiati al progetto complessivo ma anche osservabili singolarmente. É impossibile dire con precisione in che cosa consista l’operare di Berio e come si esplica, poiché di volta in volta s’inventa le modalità: è fedele unicamente al proseguire, per cui sborda da stili affermati per entrare in “generi” malfermi, da cui ancora esce non appena si consolidano, e così via. La coerenza che altri trovano nello status delle cose, egli la trova in una pratica. Potremmo riportare l'operare vigoroso e felice di Berio alla poetica dell’artigianalità, espressa più volte nella storia della musica, contro romanticismi, idealismi, teorie e speculazioni, ma precisando che si tratta di un operare stratificato che si rivolge all’eterogeneità dei materiali, una sorta di poliartigianalità, pronta a prendere gli elementi più diversificati per metterli insieme con tecniche miste[8].

Anche Bussotti, per aver ignorato le esperienze strutturalistiche di Darmstadt, per il suo rapporto continuo con la memoria, per avere inteso l’opera come una sorta di auto-biografia, senza paura di far uscire sentimenti e umori, per gli auto-imprestiti e lo stile ibrido può ritenersi un autore che anticipa gesti in sintonia con il postmoderno. Appartiene a quei percorsi eccentrici che hanno acquisito una sempre maggior considerazione.

Un musicista che predicava musica a 360 gradi, al di là di generi e stili, già nel 1964 con la sua Musica totale, è Giorgio Gaslini[9], musicista che s’è sempre posto al confine fra i vari generi, inaugurando la strada della border music e in generale il libero atteggiamento che non ama intellettualismi e va incontro al pubblico con una proposta vissuta.

Colui che opera a contatto con la molteplicità è un artigiano che non si ferma a lavorare un solo materiale, ma è bravo a realizzare opere con materiali differenti, non con un solo modus operandi ma con la capacità positivamente eclettica d’incidere sui materiali con strumenti e tecniche varie, scelte via via a seconda della loro funzionalità all’idea di partenza. Questo avviene anche per coloro che hanno attraversato il moderno da protagonisti e che rimangono dei punti di riferimento tutt’oggi, come grandi monumenti: Nono, Clementi, Evangelisti, Donatoni, ma anche gli altri autori che Bortolotto cita quali Togni, Bertoncini, Panni, Pennisi, Vandor e altri.

Nono, Donatoni e in parte Clementi hanno mutato il loro operare durante gli anni settanta, il primo passando dalla musica politica al suono nascente, il secondo dalla musica negativa all’automatismo positivo e proliferante suoni vigorosi, il terzo dal costruire le sue linee contrappuntistiche su matrici cromatiche a realizzarle su modelli diatonici[10]. Per non cadere dentro all’omologazione di stili consolidati occorre una creatività molto forte, più potente di quella necessaria per restarvi. Difficilissimo è poi uscire da uno stile e non fermarsi a un altro, ma proseguire, incessantemente. Dal relativizzare se stesso e il proprio lavoro l’artista ricava il saper stare al passo con i tempi che mutano, contro la concezione da laboratorio dell’opera come formula chimica si scontra l’operare, forte e puro nel suo errare.

Lo studium è naturalmente importante che sia attento, sollecito, approfondito e intenso, ma se non è colpito dal punctum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, mi punge e mi prende e mi permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente diverso la quello dell’analisi razionale; è quel supplemento intrattabile dell’identità che mi permette di cogliere l’aria di un volto, la luce di uno sguardo, la scintilla dell’avventura, è quel non so che che anima ogni vera opera d’arte, la quale non comunica solo il come è fatta ma la pienezza dell’essere.

Platone, nel Fedro, ci lascia una stupefacente descrizione dell’ispirazione, dicendo che «chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompleto e la poesia del saggio sarà offuscata da quella del poeta in delirio», così l’arte, quando è abitata dal delirio delle muse, diventa un inciampo con l’inaspettato, con l’inconscio, con l’inatteso, il vero e il buono[11]. Va de sé che il «delirio delle muse» può essere esternato solo da chi non ha problemi tecnici e quindi può comunicare la sua ispirazione con assoluta naturalezza (e qui cascano molti compositori d’oggi che possiedono un’abilità tecnica assai modesta).



Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.



[1] Donatoni diceva che era impossibile insegnare a comporre, affermazione che pronunciata da uno dei più grandi didatti degli ultimi decenni appare strana, ovviamente il maestro non intendeva che è irrealizzabile un’educazione alla scrittura, si può infatti imparare benissimo come si costruiscono le forme classiche, il sistema dodecafonico, il funzionamento di strumenti elettronici e molto altro, ma è impraticabile un’educazione a render vive e originali queste forme. Non si può insegnare a usare il talento perché se uno ha la fortuna di possederlo lo utilizzerà inevitabilmente in maniera insolita e soprattutto autentica, se non lo possiede nulla e nessuno glielo potrà far avere. Il fatto tragicomico è che tutti i compositori sono convinti di possedere talento!
[2] Cfr. Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959.
[3] Scrivere per cori da chiesa, per orchestre di bambini, per ensemble di giovani, musicare delle colonne sonore e musiche di scena, insieme a musica sperimentale, suonare jazz, folk, insieme a musica classica questo potrebbe essere un buon esercizio!
[4] P. Veyne, Comment on écrit l’histoire, Seuil, Paris 1971, p. 46.
[5] Cfr. U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995.
[6] M. Bortolotto, Fase seconda, Einaudi, Torino 1969. Chi scrive è stato allievo di Bortolotto, Rognoni e ha scritto le prime monografie, pubblicate dalla Suvini Zerboni di Milano, su Donatoni e Clementi, ha avuto dunque modo di approfondire i meandri del moderno, specie con Rognoni di cui è stato assistente e amico per anni.
[7] R. Cresti, Niccolò Castiglioni, Miano, Milano 1991, pp. 47-48: «Castiglioni possiede un’indole autenticamente musicale, una musicalità nuda, una genuina inclinazione a che il suono venga inteso come bellezza naturale. L’abbandono allo slancio creativo non ha significati romantici, anzi il maestro si avvicina di più a concetti e a prassi ricavate dall’eloquenza e dalla critica stilistica come erano intese nell’umanesimo. L’assaporamento viene collegato non solo a un pensiero irrazionale, ma anche all’incessante perfezionamento degli strumenti artigianali dell’operare compositivo».
[8] La sbalorditiva serie delle Sequenze per strumento solo, oramai divenuta un classico del repertorio novecentesco, è uno dei più alti esempi dell’uso molteplice e stratificato delle tecniche strumentali le più svariate che, nel loro virtuosistico articolarsi, realizzano un «labirinto di specchi», com’ebbe a dire lo stesso Berio.
[9] R. Cresti, Giorgio Gaslini, Miano, Milano 1996, pp. 12-17-29: «Le vere opere, come quelle di Gaslini, sono rette da un turgido entusiasmo (e il pubblico lo percepisce subito), non dal ragionare intorno alla cosa, ma dal parteciparla. […] Gaslini ha da sempre avuto un’ottica in diagonale, denunciando come la cultura istituzionale non si sia mai posta né il problema del valore del fatto che esistono tante culture né tanto meno il problema di un’eventuale sintesi. […] L’operare non è un atto solipsistico, al contrario l’opera di Gaslini nasce con mentalità aperta, vive per gli altri».
[10] Cfr. R. Cresti, Il suono nascente, per una nuova lettura e(ste)tica, in L’ascolto del pensiero, scritti su Luigi Nono, Rugginenti, Milano 2002; idem, Franco Donatoni, Suvini Zerboni, Milano 1982; idem, Aldo Clementi, Suvini Zerboni, Milano 1990.
[11] Cfr. C. Mezzasalma, Il suono incantato tra letteratura e musica, prefazione al libro di R. Cresti, I linguaggi della arti e della musica. L’e(ste)tica della bellezza, Il Molo, 2007.



A Carlo Pedini


 




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