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Musica sacra e liturgica o musica religiosa
Musica sacra e liturgica o musica religiosa
 

 
Il concetto di “Musica sacra”, così come lo intendiamo oggi, si forma all’inizio del Seicento, quando si sente il bisogno di precisare meglio, dopo le varie vicissitudine cinquecentesche legate alla Riforma e al Concilio di Trento, le varie categorie di musica religiosa. Con questo concetto s’intendono quei canti rituali praticati durante il culto, distinguendoli dai canti devozionali popolari, che costituiscono un sostanzioso filone parallelo, considerato però marginale rispetto alla Liturgia. La “Musica sacra” è dunque quella nella Liturgia ed ha una precisa funzione rituale, come verrà ribadito anche, nel 1967, dal testo legislativo ecclesiastico Istruzioni della musica sacra nella Liturgia.

Per districarsi meglio nelle varie interpretazioni che del concetto di “Musica sacra” si sono venute formando nel corso della Storia (della musica), cerchiamo di proporre un’ermeneutica che si riallacci alle origini delle parole stesse. Iniziamo col ricordare che la parole Liturgia deriva dal greco “eitourgia, a sua volta derivata dall’ebraico, che significa “servizio del Tempio” e quindi, per estensione, indica la cerimonia pubblica destinata al culto. La Musica sacra è dunque quella funzionale a tale culto. Ma qui sorgono alcune aporie ermeneutiche.

Il luogo sacro è un luogo recintato, un jardin interdit, secret, all’interno del quale vi si pratica un repertorio (musicale) protetto, funzionale alla consacrazione e alla purificazione. Lo spazio sacro sta fuori da quello comune è stra-ordinario, così come il tempo ch’è tempo sospeso, anch’esso fuori da quello misurato della vita quotidiana. Lo spazio/tempo è un unicum, intimo e reservato, va in profondità e non si estende in superficie, configurandosi come spazio/tempo libero. La chiusura del tempio a tutto ciò che può distogliere l’attenzione della preghiera è dunque un presupposto necessario alla ritualità del culto. In questa ottica è chiaro che la musica non può che essere sottoposta alle regole del rito.

Religione è per noi un termine sinonimo di fede, riferito alle cosiddette “religioni del libro”, ma la parola “religare” sta a significare, in maniera molto più ampia e generale, un legame fra l’uomo e tutto ciò che oltrepassa la sua vita terrena, come la Natura, l’Universo etc. Col termine religione si può anche intendere tutto quel complesso di narrazioni mitologiche che appartengono al paganesimo, oppure il sentimento panico, rivolto alla comprensione del Tutto, oppure ancora quelle aspirazioni spirituali che ogni società esprime nei confronti del divino. Il sentimento religioso può intendersi come “rispetto devoto e fervido per entità astratte profondamente sentite”, come dice Agostino, quel sentimento reverente che si può esprimere in mille modi e quindi, musicalmente, il canto religioso non è soggetto alle rigide regole di quello sacro, non è chiuso nel recinto venerabile del Tempio, ma si apre alla vita quotidiana della collettività. Vi è dunque una differenza fra i termini “sacro” e “religione”, diversità che va tenuta presente nel tentativo di sciogliere l’aporia.

Dalla reazione alla iconoclastia del 726 in avanti, l’arte e la musica sono accettate nelle chiese cristiane non solo per il loro valore educativo e di richiamo ma anche, seguendo un discorso teologico, in quanto collegamento fra il mondo dell’Uomo e quello divino, svolgendo un ruolo di mediazione fra mondo sensibile e quello dello spirito, una funzione simile alla Scala di Giacobbe, che discende e sale, portando il divino all’uomo e innalzando il mondo sensibile dell’uomo al divino. Artisti e musicisti hanno dunque il compito di riversare il mondo sensibile della bellezza divina nelle forme dei dipinti e dei canti. E’ la figura stessa del Cristo fattosi uomo che consente d’interpretare la musica e l’arte come collegamento fra Terra e Cielo. In fondo anche la stessa Liturgia, come scrisse Paolo VI, in una comunicazione Alla Pontificia Commissione di Arte Sacra (1969), “nell’impiego dei suoi molti segni sensibili dimostra la sua vocazione artistica”.
Se la stessa Liturgia ha una vocazione artistica e se l’arte svolge un ruolo simile alla Scala di Giacobbe, il concetto di “Musica sacra” non può essere inteso come  una serie di norme, fisse e immutabili, ma dev’essere interpretato, di epoca in epoca, seguendo la spiritualità del presente, fatto salvo quel rispetto ossequioso che appartiene costituzionalmente alla sacralità dell’Evento.

La Musica sacra non può configurarsi come un mondo a parte, pur disponendosi all’interno della forma definita del rito, ad essa deve essere concessa la possibilità di esprimersi liberamente, senza quei lacci normativi che non appartengo al concetto stesso di arte e che la rendono, sacra o no, accademica e priva di quelle vibrazioni interiori che costituiscono la vera comunicazione artistica.

La Chiesa si è tirata fuori dall’evoluzione della musica degli ultimi decenni, procedendo a bassa velocità sulla strada di un romanticismo espressivo che si vuole rapportare alla tradizione palestriniana, creando un ibrido fra pathos soggettivo e ricerca di purezza stilistica, un pathos spesso inefficace che non si tramuta in ethos, ma che rimane al livello di vaniloquio musicale, in quanto la normativa rigida (come ogni rigidezza) impedisce all’arte di articolarsi in maniera originale e obbliga i compositori a rimanere in un recinto che poco concede alla loro abilità d’artisti, qualità già di per se stessa rara nel campo dei compositori di musica da chiesa, in generale organisti poco informati sulle tecniche che la composizione d’oggi richiede, sul senso della forma che non può più essere quello che aveva Palestrina e sulle dinamiche espressive richieste dalla comunicazione moderna.

Sembra che la ricezione di linguaggi nuovi impedisca il diffondersi del messaggio religioso, che pare debba avvenire per stereotipi, come partorito da una tradizione pressoché immobile, dimenticando che è proprio il cliché espressivo la causa maggiore di ogni banalizzazione, per cui il tentativo di preservare il linguaggio della “Musica sacra” in una sorta di presunta purezza, incontaminato, facendolo sopravvivere in un limbo fuori dalle coordinate musicali del proprio tempo, è la causa del suo ridursi a luogo comune espressivo, spesso senza alcuna qualità artistica, dote indispensabile a innalzare il messaggio stesso.
La musica non può venire intesa semplicemente come funzionale al rito, ma come elemento complementare che va ad occupare quegli spazi semantici lasciati liberi dai gesti e dalle immagini, completando gli spazi interni alla Liturgia, la quale non deve sottomettere la musica e l’arte, ma ad esse deve appoggiarsi con fiducia, in quanto il rito non è un insieme di fattori ma una splendida e inscindibile Unità.

La musica e l’arte del Novecento ha voluto esprimere essa stessa la propria spiritualità, non va soffocata questa aspirazione, anzi va aiutata in modo che la spiritualità dell’arte e della musica non sia mera ancella, in una sorta di discutibile scala di valori all’interno del rito, ma espressione profonda e consapevole del messaggio divino.

Come dovrebbe dunque comportarsi il compositore di Musica sacra? Innanzitutto non scrivendo su commissione o per esigenze pratiche, ma mettendosi a comporre solo quando è spinto da un bisogno interiore, da una necessità di comunicare il proprio afflato spirituale. Ovviamente il compositore deve essere assolutamente cosciente che la sua musica andrà a inserirsi in un contesto pre-compreso, quindi occorre che tale compositore si senta vocato dal contesto rituale e che quindi la sua musica partecipi, in maniera del tutto innocente, alla Liturgia. Tecnicamente la Musica sacra ha l’obbligo di considerare bene i tempi del suo svolgersi, in modo da accompagnare o sottolineare o completare i momenti del tempo particolarissimo della ritualità e di adeguarsi a diversificati momenti significativi, ma non deve farlo seguendo un prontuario di frasi musicali fatte, anzi la complementarietà del tempo musicale con quello della Liturgia richiede non solo grande attenzione e rispetto, ma anche un’intesa capacità di articolazione dei parametri compositivi che devono essere lasciati alla sensibilità, alla preparazione e all’esperienza del compositore. Non vi possono essere leggi a priori che delimitano l’estro e le scelte del Maestro, pena il porre la Musica sacra nella vaghezza delle esperienze artistiche senza valore (come purtroppo è avvenuto e continua ad avvenire).

Incredibilmente il concetto di “Musica sacra”, criticabile per la sua chiusura, ha subito anche un’interpretazione del tutto fuori luogo (in senso etimologico), aprendosi a generi musicali inadatti a partecipare alla riflessione sul mistero di Dio. Si sono imboccate strade cialtronesche, fatte di canzoncine accompagnate da improbabili accordi alla chitarra, presi dal miraggio della facile comunicazione, specchietto per richiamare in chiesa i giovani, malinteso senso di partecipazione agli aspetti della cultura giovanilistica contemporanea.

Se ci spostiamo dal concetto di “Musica sacra” a quello di Musica religiosa le tematiche si alleggeriscono, in quanto il richiamo alle norme che regolano il farsi stra-ordinario della Liturgia qui non è presente, anche se il contenuto richiede comunque quell’ossequio proprio di ogni esperienza rivolta a Dio. La Storia della Musica è piena di forme, le più diverse e varie, che accompagnano Lodi e Inni, così come tutte le varie preghiere innalzate dal canto popolare. E’ proprio a queste forme più libere che si sono rivolti i grandi Maestri del Novecento i quali, a parte qualche Messa, scrivono  brani organistici, Cantate, Salmi, Epitaffi, Passioni e altro.
 
 
  
Dalla Rivista "Feeria" n. 40, Panzano in Chianti 2010.




Renzo Cresti - sito ufficiale