L'ontologia dell'umano
L’ontologia dell’umanoIl puro umano e Wagner oggi
Dalla Prefazione al libro Richard Wagner, la poetica del puro umano, LIM, Lucca 2012.
Il puro umano
Soltanto il puramente umano,
liberato da ogni formalismo storico,
poteva interessarmi.
(R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici)
Bisogna essersi interessato a Wagner per tutta la vita per scrivere su di lui una monografia.[1]
Dopo i 50.000 volumi scritti e i 4.600.000 siti internet in cui, in qualche modo, si parla del maestro,[2] «Sembra incredibile, ma il ‘caso Wagner’ esiste ancora».[3] Pare davvero difficile scrivere ancora su di lui: «Eppure, di nessun altro dei grandi musicisti del passato può dirsi come per Wagner, che molte delle questioni, sollevate dalla sua vita d’artista, siano rimaste irrisolte».[4] Vi è un giustificato timore nell’affrontare un’immensità di problematiche, ma la ricerca del puro umano spinge a sostenere la prova.
Tutta l’arte di Wagner, dalle opere giovanili in avanti, è protesa alla ricerca di ciò che lui chiama il puro umano ossia dell’essenza della vita, della sostanza dell’essere e dell’esserci, del fondamento dell’esistenza e del divenire; è un’arte protesa all’ontologia.[5]
Nell’epoca della leggerezza dell’essere i fatti si vaporizzano e i sentimenti sono inconsistenti, niente è più necessario che spostare lo sguardo dalla superficie dell’evidenza al fondamento di ogni entità, a ciò che sta dietro alla presunta verità del contingente e del pragmatico. In questo Wagner è un maestro insuperabile.
Wagner sapeva bene che la coerenza di un metodo compositivo è un presupposto necessario all’ordine formale, ma non sufficiente alla sua completezza, perché l’opera deve vibrare di vissuto, alimentata dall’humus delle esperienze di vita e dall’educazione culturale, dal pathos delle emozioni, dal puro umano.
La varietà di interessi e la difformità di livello
degli studi wagneriani è tanto sconcertante
che è impossibile tracciarne un bilancio.
(J. Deathridge, in Wagner handbook)
Passati gli anni del furor wagneriano, della wagnermania, e dell’atteggiamento contrario dell’anti-wagnerismo, all’inizio del terzo millennio la figura di Wagner, nella sua straordinaria complessità di vita avventurosa, di scritti, di teatro e di musica, può godere di un’ermeneutica meno giocata sulle contrapposizioni. Lo stesso Bayreuth non è più il simbolo di una Germania nazionalistica costruita su fondali di cartapesta, rimangono però, nella bibliografia degli ultimi decenni, alcune letture agiografiche e scritti generici che ripetono vecchie interpretazioni che non fanno onore al grande maestro, neanche nei momenti celebrativi.
Negli anni del secondo dopoguerra, per la precisione nel 1957, un’intelligenza acuta come quella di René Leibowitz sentiva l’esigenza di iniziare un suo saggio su Wagner in questo modo:
"Questo è il meno che si possa dire dell’opera di Wagner: è indispensabile conoscerla. Una tale affermazione, per quanto ingenua possa sembrare, si impone soprattutto in questo momento, in cui si critica o si respinge l’opera dell’autore della Tetralogia senza conoscerla a fondo. […] Dobbiamo accettare Wagner così com’è, con tutto quello che ha insieme di prestigioso e di impossibile, di magnifico e di irritante, di possente e di negativo."[6]
Se nella prima parte del Novecento la vita e l’opera di Wagner suscitarono discussioni appassionate,[7] finita la seconda guerra mondiale si mise in atto un colossale processo di rimozione, in quanto di Wagner se n’era appropriato il nazismo. Quando Hitler andò al potere Wagner era morto da mezzo secolo, ma il suo sciovinismo e l’antisemitismo continuavano a essere presenti tramite gli scritti e i drammi, soprattutto tramite la famiglia che, con Cosima e con i suoi figli (e con Winifred in particolar modo), si compromise fortemente con la dittatura nazista. È evidente che il nome e la musica di Wagner dovettero affrontare un periodo assai complicato, tanto che la critica e il pubblico furono imbarazzati ad affrontare il grande sassone. Da qui la rimozione e il «disconoscimento» di cui parla Leibowitz, il quale dice anche un’altra cosa importante ossia che Wagner dobbiamo «accettarlo così com’è», nel senso di mettere in opera un’ermeneutica a 360 gradi che, senza preconcetti, riesca a studiare il ‘fenomeno Wagner’ nella sua sfaccettata complessità.
In Israele Wagner fu bandito, fino a che l’impegno di Metha e Baremboim non fecero accettare agli ebrei la sua musica. Gottfried Wagner[8] venne esiliato dalla famiglia per averne denunciato le convivenze con il nazismo. «Che, come pensatore politico e sociale, Wagner rappresenti il tramite fra Jahn e Hitler non si può negare».[9] L’influenza postuma degli scritti wagneriani, da Il giudaismo nella musica in avanti, è stata indiscutibilmente nefasta, è bene non dimenticarlo quando si affronta il guazzabuglio culturale in cui la mente di Wagner si agitò, producendo non solo articoli ignobili, ma anche farneticanti opere anti francesi (come La capitolazione), personaggi collegati al suo antisemitismo (da Beckmesser a Mime) e al mito della della razza pura (da Siegfried a Parsifal), senza parlare degli innumerevoli aspetti sciovinistici (Hitler amava identificarsi con Rienzi). Ma Wagner, per fortuna, è anche altro.
Attorno al centenario della morte vennero pubblicate diverse monografie che tentarono, anche a seguito della Nietzsche-renaissence degli anni precedenti, d’indagare il caso Wagner lasciandosi alle spalle le polemiche politiche, per concentrarsi su un approfondimento del pensiero e della biografia di Wagner contestualizzato al periodo storico in cui visse e per impegnarsi in un’analisi dei suoi drammi in maniera più oggettiva. Ma è proprio sulla maggior parte delle analisi che si concentrano molte perplessità, in quanto vi persistono vecchie metodologie che privilegiano uno studio spesso basato sui supercitati Grundmotive e sulle innovazioni armoniche, aspetti importanti ma che vanno studiati con finalità diverse, soprattutto inseriti nell’intreccio drammaturgico/musicale e non analizzati separatamente.
Non solo l’analisi ma è soprattutto la sintesi (il sound) che ci avvicina al destino, alla destinazione di senso, al fiat del capolavoro. L’analisi è importante ma bisogna tener presente che non è il particolare, tanto più se staccato dal contesto del dramma, che fa il capolavoro ma il suo insieme, il quale non è affatto la somma dei particolari ma un quid in più e comprende anche gli umori, le inclinazioni, le fantasie, gli stati d’animo del compositore, dell’interprete e dell’ascoltatore. Jung dice che quando si osservano le pietre di una cattedrale non si ha un’idea della maestosità dell’architettura e che quindi si compie un lavoro più da geometra che da artista o da amante dell’arte; gli fa eco Adorno quando scrive che più ci si concentra sulla microstruttura e più l’opera diventa astratta, perdendo il valore dell’unità stilistica che è forma e messaggio, tecnica ed espressione, inscindibilmente unite. Le vecchie metodiche raccolgono solo dati che al massimo possono spiegare certe scelte del piano di lavoro, ma non la differenza fra un compitino e un grande atto artistico. Occorre abbandonare la morfologia del sistema e le metodologie formalistiche per passare alla percezione globale della forma e al senso sonoro dell’insieme.
«Pare sempre più necessario alzare lo sguardo dalla partitura per osservare attorno a sé e aprire le orecchie ad ascoltare quelle stesse note calati nei panni di un comune ascoltatore».[10] Fin dalla fine degli anni Settanta questa esigenza stava sempre più emergendo[11] e stava spostando l’interesse dal significante al significato, dagli aspetti squisitamente linguistici a quelli percettivi, ma non solo, questi aspetti non dovevano essere considerati solo dal punto di vista analitico, compositivo, musicologico, ma immedesimandosi nelle orecchie, nella mente e nel cuore di un ascoltare medio, ascoltatore attivo.[12] Vi sono stati vari tentativi di rivalutare l’ascolto di cui si è interessata la psicologia della musica, ma tutti sono stati realizzati con un’ermeneutica colta, che guarda il ‘fenomeno musica’ dall’alto di un sapere scrupoloso e para-scientifico; mettersi dalla parte del pubblico era considerato indegno, Wagner ci insegna invece che l’obiettivo è quello di farsi capire dal ‘popolo’, un termine che va sfrondato dalle ideologie e ricondotto all’ascolto partecipato. Oggi che la cultura postmoderna ha posto al centro il tema della trasmissione delle idee e delle emozioni possiamo riportare l’analisi a quello che Wagner voleva ossia al servizio della comunicazione.
La tecnica – e quindi l’analisi - è condizione indispensabile per creare un’opera d’arte e se c’è un musicista dalla tecnica compositiva mirabile questi è proprio Wagner, il quale sa bene che la scrittura deve dar ragione del suo costituirsi, del suo come, ma anche del suo cosa e del suo perché (non in maniera letterale ma vissuta). Non è ammissibile un’opera dicente il dire, l’opera d’arte deve essere un dire argomentato, un ponte che viene gettato per comunicare. Comunicare significa entrare in comunità, nella comunità degli ascoltatori, è differente dall’esprimersi che ha un significato individuale.[13]
Qualsiasi lettura non può che prendere dimora all’interno delle dinamiche culturali del proprio tempo, il quale oggi richiede di passare dall’analisi della morfologia del (f)atto artistico alla sua percezione. Progressivamente si è affermata una nuova filosofia sensista, per la quale le intuizioni, le percezioni, l’emotività hanno un alto valore conoscitivo, quindi l’acquisizione del sapere, la conoscenza di un fenomeno non passa più soltanto dalla razionalità e dalla coerenza logica, ma anche e soprattutto dal riuscire a mettersi in sintonia con quel quid ineffabile che è l’aura di un’opera d’arte (ma anche di una persona, di un fatto, di una cosa). Wagner usa l’orchestra per commentare lo svolgersi dei fatti e inserirli in una «atmosfera»; è nei meandri (psichici) indicibili della musica strumentale che si crea l’aura e la comunicazione delle energie emotive poi narrate o rivelate dal canto. L’ascolto è fondamentale.[14]
Spesso le analisi negano uno degli aspetti sostanziali dell’opera wagneriana, il suono vivente. Quel dire archetipo che mostra cose lontane e nascoste, come avviene nel linguaggio sui generis delle novelle e dei miti. Prima del suono organizzato vi è un Unkland, un suono costitutivo del carattere dell’uomo universale e del singolo uomo. Wagner è il musicista che ha saputo cogliere, con profondità e convinzione, questo essere sonoro costitutivo, aprendolo agli infiniti spazi della narrazione mitologica e, a un tempo, focalizzandolo sull’infinità dei moti interiori dei personaggi da lui evocati.
Il suono vivente è una sorta di DNA di una forma concepita come un organismo vivo: ogni elemento in Wagner va verso questo tutto organico. Il suono è percepito contemporaneamente come tono e come lingua, portatore di un campo semantico molto vasto ed elementare,[15] basato su archetipi che rimandano all’antropologia più che alla musicologia. La metodologia analitica deve tendere ad abbracciare l’opera, a con-prenderla nel suo humus e pathos, oltre che nella sua presenza segnica. È l’uomo con i suoi bisogni primari a richiederlo e nessun musicista come Wagner ha fatto un così grande passo all’indietro.
Ci sono opere talmente importanti dopo le quali la storia della musica non è più la stessa, opere imprescindibili da qualsiasi angolo di visuale, che riguardano la storiografia, la musicologia, l’antropologia, la sociologia, la filosofia, l’e(ste)tica, la filologia, la drammaturgia e ogni altra disciplina culturale ma che in realtà concernono la vita medesima. Tutte queste nobili scienze hanno analizzato il caso Wagner, decine di migliaia sono infatti i libri scritti dagli eruditi, dagli accademici e dagli esegeti di ogni paese, dai critici e dagli studiosi di varia umanità, nella saggistica dei quali tutto si potrà sapere sulla vita e sulle frequentazioni di Wagner, sulle idee e sugli scritti, sul suo operare e sull’opera. Anche Shakespeare ha un bibliografia smisurata che, come in Wagner, affronta il teatro del grande inglese da molteplici punti di vista; la costante altissima considerazione critica rende la sconfinata saggistica shakespeariana piuttosto omogenea nell’opinione condivisa di essere di fronte a opere d’arte indiscutibili, non così per Wagner che viene interpretato non solo in maniera differente a seconda dei punti di osservazione ma anche in modo negativo, ostile alle sue idee e contrario alla sua visione del cosiddetto ‘teatro totale’.
Annosa e controversa è la questione del rapporto fra musica e poesia, esempio tipico dello iato fra il Wagner teorico e quello pratico, ma anche dei continui mutamenti degli equilibri fra parti poetiche, gestuali e attoriali, vocali e strumentali, teatrali e musicali in genere; molti commentatori hanno preso per vangelo ciò che Wagner scrisse in Opera e dramma, quando questo importante testo è specchio di un determinato periodo che, con la lettura de Il mondo come volontà e rappresentazione (e quindi con Tristan), s’interrompe e muta. Ma anche nelle opere precedenti, da Lohengrin indietro, di ciò che è espresso in Opera e dramma non vi sono avvisaglie; in pratica solo L’oro del Reno rispecchia abbastanza fedelmente i precetti dello scritto teorico, che risente dell’attività di drammaturgo (fra gli altri Gesù di Nazareth e Wieland il fabbro) e di saggista (I Wibelunghi, L’arte e la rivoluzione, L’opera d’arte dell’avvenire, Il giudaismo nelle musica, Una comunicazione ai miei amici). In realtà, pur con sfumature diversificate, «La musica modellò sempre le parole, anche se gli piacque affermare che in lui il poeta era signore».[16]
Nella sterminata bibliografia saggistica si riscontrano molte ripetizioni e numerose vecchie impostazioni, ma soprattutto si riscontra una sostanziale mancanza di prospettiva. Di solito ci si sofferma sull’influenza di Wagner sui musicisti mitteleuropei delle generazioni successive, ma vi è di più, molto di più. Occorre mettere in atto un’ermeneutica che si basi su quanto e su cosa le innovazioni wagneriane hanno oggi da dire o meglio in che misura e quale aspetto la cultura dei nostri anni riesce a far suo l’enorme lascito della drammaturgia musicale wagneriana. È un problema di relazione fra Wagner e l’attualità.
Altrettanto immensa è la produzione letteraria che si è interessata alla vita di Wagner, migliaia sono le biografie dettagliate e ancor più i saggi che analizzano i vari aspetti della sua contraddittoria vita. Durante il primo Novecento e anche sulla metà del secolo scorso furono pubblicati anche nuovi documenti che hanno contribuito in maniera decisiva a completare le notizie biografiche. Oggi una mera biografia wagneriana non può che fare lo sgradevole effetto di un racconto che si attorciglia su se stesso, ripetendo cose più o meno note, l’unica via di salvezza da questa spirale di ripetizioni è tentare di focalizzare i momenti salienti della vita del maestro, quelli che hanno un significato per il momento storico in cui visse e soprattutto quelli in cui vennero espressi i suoi ideali e si realizzò l’operare artistico. Anche la sua produzione di scritti è stata studiata con accanimento, a volte fin morboso per alcune idee in essi contenute, come prima cosa conviene rileggerli e meditarli[17] sia nella prospettiva storica sia in quella attuale. Infine le opere, che, come in nessun altro autore, si sono giovate di innumerevoli contributi, è doveroso tenere questa sostanziosa saggistica in attenta considerazione ma superandola con un’ermeneutica mobile che si basa sulla cultura contemporanea, per scoprire cosa e quanto di Wagner oggi viva in noi.
Non è nelle intenzioni di questo saggio seguire la vita di Wagner passo passo, molti altri volumi lo fanno (con risultati un po’ noiosi), ma comunque è indispensabile tenere un filo rosso biografico che colleghi i fatti artistici, tanto più in un artista che teneva in modo particolare al rapporto infuocato fra vita e arte, ma non dobbiamo commettere l’errore di leggere Wagner con la mente di Wagner, molta acqua è passata sotto i ponti da quando la Romantik credeva d’intrecciare in maniera diretta l’operare con l’opera, realizzando documenti interessanti e a volte anche di un certo valore artistico in sé, utili a capire gli umori dello scrivente ma meno efficaci a capirne la scrittura, la quale s’intreccia sì col pathos dell’autore ma reclama pure un’indipendenza di movimento che va a collegarsi a una miriade di elementi propri dello scrivere che trasfigura le idee e le passioni in un atto del tutto particolare e con forza propria, specifica al suo modo di essere, di disporsi.
La parte biografica è realizzata con una messa a fuoco sui momenti decisivi – sintetica, quasi aforistica in certi momenti per non lasciarsi prendere da particolari che possono interessare solo gli amanti delle biografie romanzate. – Fra le righe s’insinuano brevi commenti a fatti, documenti, personaggi, esposizioni che si fanno più consistenti quando gli avvenimenti biografici si collegano alle idee e al metodo compositivo. Alcune figure assumono un’evidenza inevitabile: Berlioz, Liszt, Mendelssohn, gli Schumann, von Bülow, Schopenhauer, Nietzsche, i Wesendonck, Cosima, Ludwig II. Vi sono inoltre altri momenti assai significativi che vanno tenuti presenti, come il rapporto con le donne, con la natura, con gli animali (il vegetarismo fu uno dei temi principali dei cosiddetti scritti sulla rigenerazione), con le case in cui visse Wagner, cose, luoghi e persone che contribuirono a creare un intreccio straordinario che fece, di questo sassone duro ed egocentrico, un genio.
Dal percorso biografico escono gli scritti, tutti citati e alcuni lungamente analizzati sia quelli a carattere musicale sia quelli dai tratti estetici sia quelli dall’impostazione sociologica o ideologica (questi ultimi piuttosto delicati, ancor oggi). Vengono presi in esame anche gli abbozzi drammaturgici e i diari, ma soprattutto sono le opere e i drammi ad essere il soggetto privilegiato della trattazione, dalle composizioni strumentali giovanili alle prime opere teatrali, delle quali poco o nulla si sa; dai brani strumentali della maturità dedicati a Mathilde e a Cosima ai grandi capolavori drammatici, che vengono guardati da angolature diverse, analizzandone la metodologia compositiva, i presupporti e i risultati sonori, le idee che correvano nella mente vulcanica di Wagner nel momento della concezione e della stesura, la filosofia soggiacente, i riferimenti culturali, i messaggi che il maestro voleva comunicare e come questi possono venir compresi nella nostra epoca.
Ogni paragrafo del libro contiene in sé materia per studi specifici, a volte ci si deve accontentare, in una monografia generale, del semplice sollevamento di una problematica, che serve comunque a far pensare e che potrà essere con una certa facilità approfondita grazie ai numerosi rimandi critici in nota; altre volte gli aspetti del pensiero e dell’operare di Wagner vengono sufficientemente trattati, con un’ampiezza e con riferimenti alla cultura contemporanea che trovano pochi riscontri nelle monografie wagneriane già edite.
Vengono applicate alcune minuzie terminologiche ma importanti, perché si rifanno al volere di Wagner, come chiamare i motivi Grundmotive e non Leitmotive oppure dramma e non opera, distinzioni concettuali sulle quali si basa gran parte della teoria wagneriana. Tutte le opere e i drammi sono state analizzati sui libretti nella traduzione di Guido Manacorda,[18] editi dalla Sansoni di Firenze negli anni del secondo dopoguerra; sugli spartiti per canto e pianoforte pubblicati da Ricordi e sulle partiture orchestrali edite da Schott.[19]
L’intreccio
Ogni testo, ogni enunciato è un intreccio,
un tessuto di significanti, i cui significati
sono per definizione intertestualmente
determinati da altri discorsi.
(J. Derida, Positions)
È del tutto impossibile analizzare un fenomeno complesso come l’arte wagneriana senza far riferimento al concetto d’intreccio, come lo ha descritto Paul Veyne: «I fatti non esistono isolatamente, nel senso che il tessuto della storia è quello che chiameremmo un intreccio, una mescolanza molto umana e poco scientifica di cause materiali, di fini e casualità».[20] L’agire di Wagner non è un operare isolato, anzi, s’inserisce in una fitta trama di contatti di cui i privilegiati, dal punto di vista musicale, sono quelli con Berlioz e Liszt, relazioni intessute soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta, dopo di che il pensiero compositivo wagneriano si auto alimenta. Sotto il profilo intellettuale, straordinario è l’intreccio con Bakunin, Feuerbach e soprattutto con Schopenhauer e Nietzsche, quest’ultimo, per quanto ha espresso nei suoi scritti, rappresenta un caso ermeneutico fondamentale, perché ad esso si sono riferiti quasi tutti i musicologi, critici, sociologi e letterati successivi.
Dal punto di vista biografico fondamentale è la trama intessuta, oltreché con musicisti e filosofi, con le donne, gli amici e Ludwig. E non solo: costanti sono gli sguardi al passato, da Gluck a Beethoven, dagli antichi poeti e filosofi greci a Shakespeare; inoltre molteplici sono i riferimenti alla cultura parigina degli anni Trenta e ai temi Romantik in genere, ai contrasti con l’opera francese e italiana e al tentativo di definizione di ciò che dovrebbe essere l’opera tedesca; infine innumerevoli sono i rimandi e i reciproci condizionamenti fra il pensiero wagneriano e l’evoluzione della politica sociale tedesca nella seconda metà dell’Ottocento, con le riflessioni sullo stato, il nazionalismo e l’antisemitismo, sulla natura del popolo tedesco e la religione, sulla scuola musicale tedesca, sul rapporto fra il dramma, la musica, la società. E questo solo per citare alcune problematiche che Wagner si porta con sé dalla gioventù per tutta la vita e che hanno avuto chiari riflessi nella cultura e nella musica dell’intero Novecento, fino ai giorni nostri.
Il primo capitolo analizza il contesto della cultura romantica in cui si trovò ad agire il giovane Wagner, lo si inquadra negli anni di Parigi perché realmente fondamentali per la sua maturazione artistica. Gli anni di apprendistato vengono studiati all’inizio del secondo capitolo, riprendendo poi dal ritorno di Wagner da Parigi a Dresda e proseguendo, passo passo, in maniera cronologica, opera dopo opera. Un’attenzione particolare s’è posta al rapporto di Wagner con l’Italia sia nei suoi tormentati rapporti con il melodramma sia con i luoghi da lui frequentati, Venezia su tutti. Rapporto di Wagner con l’Italia ma anche dell’Italia con Wagner.
La simbologia messa in atto nei drammi wagneriani oltrepassa il livello sintattico e morfologico per creare una fitta rete di connessioni semantiche che toccano ogni aspetto della cultura, intesa nell’accezione più ampia possibile; il significato di ogni scena, di un passaggio orchestrale, perfino di un accordo è plurimo e si apre a ventaglio. All’interno di questa trama vi è una circolazione di pensieri e di (f)atti che abbraccia l’intero periodo storico, dove le influenze si fanno evento relazionale. Se questa circolazione prende il sopravvento può disperdere l’unicità dell’opera e farne un prodotto come tanti che usano il vocabolario comune del proprio tempo, la grandezza di un artista come Wagner sta nel filtrare, elaborare, metabolizzare la koiné e la circolazione delle influenze subite per progettare e concretamente realizzare un unicum dal valore stra-ordinario.
L’intreccio è talmente fitto e aggrovigliato che è impossibile scioglierlo, occorre ritagliarsi una fetta di spazio e di tempo all’interno della quale poter focalizzare (f)atti e intenzioni, oggetti e pensieri. Il concetto di intreccio si accavalla a quello di complessità che ci insegna come ogni elemento sia inserito in una sfera di relazioni senza fine, del tutto non analizzabile in sé, ma solo ricorrendo a uno stop dei rimandi infiniti. A ogni analisi sfugge dunque qualcosa, tanto più che alla sistemazione razionale dei fatti vanno a sovrapporsi sogni e visioni. La «mescolanza molto umana e poco scientifica» riguarda pure il soggetto analizzante ossia colui che scrive attorno ai fatti. Tutto dipende dall’angolatura con cui si sceglie di studiare l’intreccio, l’angolatura, a sua volta, dipende da ciò che colpisce lo studioso, dal punctum,[21] dalla sollecitazione avuta da un’illuminazione che gli permette di rendere meno oscura la complessità. L’attenzione è un attendere certo.
Non esiste un’incrollabile e immutabile ‘verità’ del fatto storico, così come della personalità dell’artista che è sempre ‘uno, nessuno e centomila’. Non vi è dunque una lettura istituzionale di Wagner, lui stesso l’avrebbe rifiutata e più aspetti del suo pensiero e del suo agire sono ambigui, forse volutamente. Ciò non significa lasciarsi andare al relativismo ermeneutico, i pericoli delle libere sovrainterpretazioni[22] sono quelli della confusione, non è dunque il caso di aggiungere a un intreccio già complesso anche il problema delle esposizioni forzate, delle fossilizzate esegesi accademiche e delle analisi fine a se stesse.
Dopo un’infatuazione per la classificazione dei motivi, molti studiosi wagneriani, e noi con loro, hanno spostato l’attenzione sui nessi fra drammaturgia e orchestra, fra testo e struttura armonica, fra canto e timbrica strumentale, ciò non vuol assolutamente significare che l’intreccio tematico e la sua articolazione temporale abbia perso d’importanza, sta a dimostrare uno sguardo più ampio che abbraccia le varie componenti che compongono l’organismo drammaturgico e musicale.
Possiamo ascoltare le opere giovanili pensando a quelle della maturità e trovare anticipazioni e costanti; possiamo altresì fare il contrario ossia vedere le opere maggiori come risultanti delle presunte minori, con differenze e continuità; possiamo anche ascoltare ogni singola opera nella sua propria capacità comunicativa che dipende dal contesto storico e dalle coordinate culturali del momento; possiamo privilegiare l’aspetto politico-sociale o quello biografico-psicologico delle opere; possiamo lasciarci prendere dallo stato di grazia del loro creatore o realizzare uno studio tecnico-razionale; possiamo rimanere affascinati dall’ispirazione o scandagliare l’opera secondo metodologie analitiche; tutto questo crea un intreccio che non va sciolto ma studiato proprio come groviglio, poiché ogni snodo rimanda comunque alla trama di partenza, nelle spiegazioni lineari si perde la profondità e la complessità del (f)atto, si tradisce quella capacità di assimilazione e di costante trasfigurazione degli aspetti di ogni tipo che in Wagner è assolutamente eccezionale, senza meno.
L’intreccio non scompare nei capitoli che seguono, una volta però sciolti alcuni nodi esistenziali, culturali, sociali e musicali, si può fare la legittima scelta di concentrarsi sulla tela interna del percorso artistico wagneriano e, come in una sorta di zoom, raccontare lo sviluppo delle sua produzione, racconto che non può non articolarsi attraverso l’ottica della nostra cultura contemporanea, l’occhio critico non può soffrire di strabismo ma deve essere fisso e attento sull’oggi, per non fare di Wagner un vecchio armamentario da museo, la sua eccezionale vita, il suo vivido pensiero e la sua musica vigorosa non lo meriterebbero.
Wagner oggi
Leggeremo dunque l’opera wagneriana
secondo l’unica angolatura che ci sia possibile,
quella della nostra musica.
(M. Bortolotto, prefazione a Wagner di Adorno)
Nel 1982 uscì Wagner oggi,[23] l’anno successivo, in occasione del bicentenario della morte di Wagner, un saggio con lo stesso titolo, in cui l’ermeneutica connessa alla cultura dell’oggi era ben chiara: «La musica, l’estetica e l’ideologia wagneriana sono leggibili secondo l’unica angolatura possibile, quella della nostra musica, delle poetiche, estetiche e ideologie contemporanee».[24] Attraverso l’Espressionismo, la seconda scuola di Vienna, la musica negativa, il teatro, l’esperienza wagneriana, con la sua sintesi di elementi poetici, musicali e drammaturgici, si oppone alle astrazioni linguistiche delle tendenze strutturalistiche che hanno fatto capo a Darmstadt, la quale, perseguendo il mito della purezza e autonomia della pagina scritta, si sono sempre tenute lontane dalle contaminazioni, volutamente slegate da ogni rapporto con la realtà viva, ponendo il proprio universo tecnico accanto a quello del mondo, per paura di abbassarsi alla banalità (del vivere comune). Il compositore strutturalista crea un mondo all’interno della pagina musicale, mentre Wagner è uno zoom politikon. Darmstadt conclude l’itinerario classico dell’art pour l’art, così caro ai puristi di ogni epoca, Hanslick su tutti.
Nell’eclettismo del Postmoderno, Wagner non potrebbe essere più attuale, dimostrando come si possa conciliare una padronanza tecnica mirabolante, addirittura mettendo a punto un nuovo sistema compositivo, con una comunicazione in profondità. Negli ultimi decenni, in concomitanza con la leggerezza dell’essere, si è semplificata la questione formale, arrivando anche alle banalità dei cosiddetti neo-romantici, i quali con il vero Romanticismo nulla hanno a che vedere. L’espressività è tornata in primo piano ma a spese della ricerca, della forza del pensiero, dell’energia profusa, dei grandi temi. L’intensità e l’incisività con cui Wagner ha lavorato sugli aspetti intrecciati del pensiero, del teatro e della musica, assume un valore emblematico, in un’epoca che ha bisogno di recuperare il puro umano.
Negli ultimi trent’anni, in pratica dalla ricorrenza del 1983, non sono usciti in Italia molti libri importanti sul grande compositore, ciò ha prodotto un fossilizzarsi ermeneutico su vecchie interpretazioni, cosa assai grave per la nostra musicologia, ma il non essere riusciti a leggere (e soprattutto ad ascoltare Wagner) con occhi e orecchie attuali ha prodotto anche un misconoscimento dell’importanza del suo pensiero e operare compositivo che oggi potrebbe risultare un monito per chi scrive musica.
Nel Postmoderno si fa un gran parlare di comunicazione che è comunque dispersa in mille rivoli, il cui approdo al mare magnum dell’informazione viene sempre rinviato, è impalpabile perché non si fonda sul contatto diretto, sulla partecipazione attiva e umana. Sono questi gli anni della ridondanza condivisa, in maniera eterea e vaga. Siamo dentro l’occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici. Al contrario l’arte di Wagner è alla ricerca di un’autenticità di fondo, quella sincerità che oggi sembra interessare poco a compositori, pubblico e società.
Più le parole vengono ripetute, i suoni moltiplicati e le immagini ingrandite e più aumenta la nostra solitudine, così la cosa più saggia è abitare la distanza da una comunicazione che non comunica, da un’espressione programmata e dalla velocità dei fatti che si accavallano creando un’entropia che blocca ogni capacità critica, che non permette di distinguere le cose importanti da quelle inutili. Wagner sa ben discernere il positivo dal negativo, ciò che è inessenziale e ciò che è fondamentale, e per non rimanere invischiato dalla banalità delle convenzioni, per prendere distanza dalla mediocrità, Wagner ricorre al mito, al racconto leggendario che già in sé esprime i caratteri universali dell’essere in quanto tale, a prescindere dalle sue qualità particolari e fenomeniche. È proprio di questo che la nostra epoca abbisogna, di una rinnovata e laica spiritualità, non staticamente dottrinale, ma percepita come fonte di senso e di vita, ed è quello che Wagner ci lascia in eredità (più nei suoi drammi che nei suoi scritti), in quanto ci mostra com’è possibile rinvigorire l’espressione della forma, una struttura saldissima che però sa essere talmente elastica da comunicare ogni sorta di situazione emotiva, con un pathos che è contemporaneamente anche un ethos, il quale trasmette i saggi principi del comportamento umano, basato sull’universalità del mito.
Tutte le note scritte da Wagner corrispondono alle sue intenzioni? A partire dal momento in cui, secondo i principi della civiltà della scrittura, il compositore lascia una traccia dell’opera – la partitura – allo scopo di permetterne la riproduzione, l’interpretazione di questa traccia può essere fortemente dissociata dalle intenzioni che si attribuiscono a Wagner.
Che la tecnica compositiva di Wagner sia evoluta e abbia costituito il punto di svolta della storia della musica tardo ottocentesca, con importanti riverberi durante il Novecento, nessuno vorrà mettere in dubbio, tale tecnica è assai complessa, ma, a differenza della complessità novecentesca, si piega con straordinaria flessibilità a tutte le sfumature espressive, realizzando un punto di equilibrio fra esigenze compositive e necessità comunicative che può esser preso a modello ancora oggi.
Gli attuali compositori hanno una buona preparazione tecnica, indubbiamente paragonabile, se non superiore, alla media di quella che avevano i loro colleghi ottocenteschi, ma ciò che manca loro è la ricerca ontologica, non sentono il bisogno di scavare nei meandri dell’essere, tutto sembra avvenire in superficie. La globalizzazione ha annullato le differenze culturali, affastellandole in una fusione poco vissuta. Wagner si è sempre immerso nelle tradizioni a cui ha fatto riferimento: quella italiana l’ha appresa personalmente dirigendone molte opere, quella francese l’ha vissuta trasferendosi a vivere a Parigi, quella tedesca ha fatto parte della propria interiorità, profondamente. All’inizio degli anni Quaranta Wagner era il primo ed unico compositore ad aver avuta diretta esperienza del teatro europeo, grazie alla sua indefessa attività di direttore d’orchestra.
L’analisi è la partenza del piano compositivo non il fine, l’arroganza del sistema è stata una delle tante croci del secolo scorso che ha portato a un rigor mortis metodologico: occorre passare dalla questione del metodo al metodo messo in questione, come Wagner ha saputo fare. Pur non rinunciando alla ricerca di novità formali, armoniche e orchestrali, di modalità di canto e strumentali sperimentali, non s’è fatto imprigionare dalle (molte) esigenze del metodo compositivo, ma ha sempre avuto chiaro che l’opera, nella sua drammaturgia e nella sua struttura musicale, è al servizio di un pensiero e di un’emozione che deve comunicarsi in maniera forte e percepibile, perché se è poco avvertibile vuol dire che la finalità dell’opera di esprimersi è fallita.
L’operare wagneriano è tutto teso a far convergere gli elementi del suo teatro nel punto focale della comunicazione delle idee, dei concetti oltre che dei sentimenti così cari ai romantici. Il problema che nell’età postmoderna sconvolge è che pare che le idee siano assenti nella mente dei compositori, non quelle operative ma quelle che riguardano i grandi temi della contemporaneità e soprattutto quelle relative all’uomo nella sua essenza. Nell’arte di oggi l’uomo si rimpicciolisce, non abita uno spazio vitale, ma virtuale. L’artista sembra aver paura ad assumersi la responsabilità di esprimere pensieri e trova più consono al suo operare concentrarsi su strategie tecniche, lasciando così campo libero all’insinuarsi del pensiero unico. La forte omologazione è il risultato di questo conformismo culturale.
Wagner sapeva bene che occorre passare notti insonni ad aspettare ‘il suono giusto’ (come direbbe Monteverdi), sapeva concedersi ai tempi lunghi della meditazione, lontani da quelli oggi imposti dalla fast kultur, sapeva dar agio alla propria interiorità di svilupparsi con la dovuta calma, tematizzando la propria lontananza da ciò che chiamava il Monumentale e dalla Moda; sapeva rimanere in attesa di percepire e di raccogliere il suono, in uno stato di liquidità dell’essere in ascolto che corrisponde a ciò che i romantici chiamavano ispirazione.
La geniale arte wagneriana non è dunque solo un momento decisivo della storia della musica occidentale, fra i più ricchi di prospettive, ma è anche un saldo esempio che sta davanti all’attuale comunità dei compositori e di un pubblico sbigottito da tanta forza e splendore, sublime equilibrio fra sperimentalismo e comunicazione.
La stessa parola ‘inter-esse’ mette in evidenza il fra, il processo comunicativo, il senso che si trasmette fra chi parla e chi ascolta, un senso che non è solo razionale ma che è, spesso, più emotivo che deduttivo. Wagner, che sulla narrazione fantastica, ha basato l’intera sua produzione può ben essere preso a modello esemplificativo della ricerca sugli archetipi della comunicazione, sul quid emozionale, ridurre il puro umano a schemi (i motivi conduttori, l’armonia cromatica, i ‘resti’ dell’orchestra, le allitterazioni etc.) è fare un torto alla sua grandezza, alla sua grazia di essere un musicista universale, al dono ricevuto di esser stato il più incommensurabile genio della sua epoca, una genialità che – per definizione – sfugge a ogni sciocco tentativo di classificazione e ancora oggi, grazie alla sua libertà di mente e di cuore, sa scuoterci cervello e viscere, fino alle lacrime.
Commemorare Wagner oggi,
significa affrontare il problema della musica moderna
e della sua ideale continuità.
(M. Mila, Poesia di Wagner)
Non si può, non si deve scrivere ancora su Wagner nella sola prospettiva storicistica, accanendosi a interpretare per l’ennesima volta gli stessi fatti, l’unica possibilità è quella di legare la propria analisi all’oggi che muta in continuazione, per cui un’interpretazione dell’operatività e dell’opera wagneriana scritta nel 2013 non può essere che differente da quella scritta qualche anno prima, per esempio nel 1983, perché sarà la cultura contemporanea a fornire la chiave di lettura. Lo studium è ovviamente necessario, dev’essere attento e approfondito, ma se non è colpito dal punctum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes, il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, ti punge e ti prende e ti permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente intuitivo e (s)fuggente che l’analisi razionale non coglie, una conoscenza che supera ogni riferimento codificato e accademico e coglie il supplemento intrattabile dell’identità, il valore di una vita che accompagna l’oggetto. La scintilla della mente, la luce dell’occhio, l’aura dell’opera e il suo quid espressivo sono intrattabili con il rigor mortis analitico, enunciativo e assertivo, sono aspetti ineffabili che ammiccano a un di più che si riferisce non tanto e non solo alle forme e alle tecniche con cui l’oggetto viene composto, ma alla pienezza dell’essere il quale non si esprime nell’oggetto come somma dei parametri tecnico-formali ma ha in sé la sua avventura ossia quella forza per la quale l’oggetto stesso avviene e che nel suo avvenire nel mondo coniuga essere ed esserci. È questo supplemento d’identità che definisce l’opera d’arte dal mero esercizio accademico.
È la pienezza dell’essere e del suo abitare il mondo che si nasconde fra i suoni che lo studioso deve cercare, lavoro difficile e che rimane in una superficie descrittiva se non viene sorretto dal dono della scoperta. Le analisi musicali e le riflessioni culturali sono utilissime per inquadrare l’operare e l’opera, per illustrarne le problematiche, sono funzionali alla spiegazione, ma debbono servire come base rigorosa sulla quale poggiare la pienezza dell’io plurale e sociale, fondamento del pensare e del fare. Se ci si ferma al mero dato analitico si rimpicciolisce l’uomo e il suo infinito interiore, si approda un esserci senza essere. L’analisi musicale e culturale è dunque la partenza e non il fine di una metodologia che tende ad abbracciare l’opera, a con-prenderla nella sua essenza profonda oltre che nella sua incidenza sociale. Non scordiamoci che ciò che voleva comunicare Wagner era il puro umano.
[1] Chi scrive ha iniziato a studiare Wagner negli anni universitari, sostenendo la sua prima tesi di laurea al DAMS di Bologna sugli scritti wagneriani, poco conosciuti in Italia e citati tutti in questo libro (alcuni analizzati in profondità), ha poi proseguito sostenendo la seconda tesi di laurea in musicologia, sempre all’Università di Bologna, incentrata sui rapporti fra Wagner e Nietzsche, di cui molto si parla nell’ultimo capitolo di questo volume. Dalle due tesi di laurea deriva il libro Wagner oggi, stampato dalle edizioni Zanibon di Padova nel 1981 e in seconda edizione l’anno successivo, con prefazione di Luigi Rognoni.
[2] Su Wagner s’è scritto troppo, non v’è dubbio. Soprattutto Wagner è stato per molti un pretesto per parlare d’altro: politologi, sociologi, filosofi, psicologi e anime belle si sono rivolti a Wagner, spesso senza cognizioni musicali e drammaturgiche, senza studiarne tutti gli scritti e l’intreccio di questi con il suo percorso di vita e d’arte; Wagner al di là di Wagner potremmo dire. Ma Wagner, anche quando parla di politica e filosofeggia, è essenzialmente un drammaturgo (lui stesso ne è consapevole) e la sua drammaturgia è sostanziata dalla musica, se non si parte da qui tutto è Wahn! Come direbbe Sachs.
[3] GUIDO BARBIERI, Richard Wagner, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2005, p. 8.
[4] GIORGIO MANERA, Wagner: cent’anni dopo, in Parole e musica, l’esperienza wagneriana nella cultura fra Romanticismo e Decadentismo, Olschki, Firenze MCMLXXXVI, p. 45. Wagner, come tutti i veri grandi artisti, è uno scrigno di ricchezze senza fine, un’opera che sollecita ermeneutiche infinite: parafrasando l’inizio del Faust, si potrebbe dire che dopo aver letto tanti libri, aver analizzato le partiture, aver suonato gli spartiti e ascoltato i drammi, siamo al punto di partenza!
[5] Vi è un’indipendenza del reale rispetto alla conoscenza, questo Wagner, in linea con un certo neo-realismo contemporaneo, sembra averlo intuito; la grandezza (filosofica ma poi concretizzata nella drammaturgia e nella musica) di Wagner è quella di essere riuscito a compendiare realismo, ermeneutica, epistemologia e ontologia, in una sorta di realismo metafisico.
[6] RENÉ LEIBOWITZ, Storia dell’opera, Garzanti, Milano 1966, pp. 235, 236. La prima grande biografia, scevra da mistificazioni realizzate attraverso l’ottica sciovinistica e proto nazista, fu quella in quattro volumi di Ernst Newman, The life of Richard Wagner, non a caso edita a New York, da Knopf, nell’immediato secondo dopoguerra (1946); in questo monumentale lavoro, Newman liberò la biografia wagneriana dalle montature che i vecchi studiosi del Circolo di Bayreuth avevano perpetuato, a seguito dei 6 volumi di Glasenapp e dei due di Chamberlain (fu questo fanatico inglese che voleva parlare solo tedesco a introdurre Hitler a Bayreuth). Il libro di Adorno, Versuch über Wagner, edito a Francoforte nel 1952, ebbe il merito, grazie alla sua autorevolezza e alla sua influenza, di spazzar via molti luoghi comuni.
[7] Fra le due guerre, soprattutto in Italia, si affermò la prassi di estrarre dai drammi delle antologie di momenti orchestrali e vocali; pratica dura a morire, in quanto ancora oggi è possibile trovare con facilità compact-disc antologici, mentre per fortuna è quasi del tutto scomparsa la proposta di rappresentare i drammi con il testo tradotto, idea malsana in assoluto per qualsiasi opera ma addirittura fuorviante per il Musikdrama.
[8] Chi scrive invitò Gottfried a tenere una conferenza presso l’Università di Pisa, nel 2004, e può confermare ciò che scrive Michael Tanner ossia che Gottfried è convinto che «Without Wagner there would have been no Hitler», in MICHAEL TANNER, Wagner, faber and faber, London 2010, p. 245. Tanner si chiede se il nazismo fu un incidente o qualcosa di legato intrinsecamente alla storia e alla mentalità tedesca, nelle quali la posizione di Wagner divenne predominante, d’altra parte, se Hitler volle sempre riferirsi a Wagner quale nume tutelare per la cultura nazista ci saranno state ottime ragioni che fecero affermare al Führer «I have only one predecessor, and that is Wagner», cit. in Tanner a p. 254.
[9] ROBERT W. GUTMAN, Wagner, Rusconi, Milano 1995, p. 15, lo studioso continua: «Hitler ammirava in modo particolare gli scritti di Wagner, ne imitò lo stile ampolloso, mise il musicista su un piedistallo di dio artistico del terzo Reich e portò alle loro logiche e terrificanti conclusioni molte delle idee implicite dei saggi e nei drammi del musicista. L’opera d’arte fu inghiottita dalle sue ipotesi. Ciò cui il migliore dei wagneriani era passato sopra, come se si trattasse di cosa di poco conto, si sviluppò nella più spaventevole realtà del mondo. Bayreuth divenne la capitale spirituale di una scelleratezza senza precedenti».
[10] MARCO BEGHELLI, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Istituto nazionale di studi verdiani, Parma 2003, p. 16.
[11] C. GEERTZ, L’arte come sistema culturale, in Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna 1988, p. 151: «Occorre volgere i poteri semiotici della teoria semiotica – sia di Peirce, Saussure, Lévi-Strauss o Goodman – da un’investigazione dei segni in astratto ad una investigazione degli stessi nel loro habitat naturale: il mondo comune in cui gli uomini guardano, nominano, ascoltano e fanno.»
[12] Il pubblico purtroppo non è assolutamente educato sia per le carenze del nostro sistema scolastico in genere sia per quello specifico dei Conservatori sia soprattutto per il disinteresse dei mezzi di comunicazione di massa che propongono solo musica leggera e leggerissima. Non è questa la sede per ribadire quanto poco si faccia in Italia sul piano educativo e quanto troppo su quello commerciale, ottenendo l’effetto voluto di un pubblico supino e istupidito.
[13] Cfr. RENZO CRESTI, Abitare la creatività, in «Codice 602», rivista dell’Istituto “Luigi Boccherini” di Lucca, n. 5, Lucca, novembre 2009. Molti compositori si esprimono, ieri come oggi, dicono la loro, si parlano addosso in quanto non hanno idee da manifestare e non hanno un vero auditorio, esternano le loro idee alla risibile cerchia degli addetti ai lavori. Sono i formalisti detestati da Wagner, ma non solo, anche tutti coloro che vogliono essere programmaticamente espressivi senza aver nulla da dire.
[14] Purtroppo il discorso musicologico si pone accanto al suono, gli è parallelo senza alcuna possibilità d’interazione, vi è però la possibilità di evocare il sound, sottolineandone i momenti eclatanti a cui rimandare il lettore.
[15] Elementare perché riguarda gli elementi basilari dello svolgersi della vita sia nei suoi tratti legati alla natura sia in quelli appartenenti all’essenza dell’uomo (dolore, angoscia, piacere, letizia, odio, amore, compassione, indifferenza etc.).
[16] ROBERT W. GUTMAN, Wagner, p. 49: «La musica di Tristano e Isotta andò imponendosi alla sua attenzione prima che cominciasse il libretto. E mentre attendeva a Tannhäuser scrisse al critico berlinese Karl Gaillard: “Prima di principiare a scrivere un verso o perfino di tracciare i contorni di una scena, devo sentirmi intossicato dall’aroma (Duft) musicale del mio soggetto, e tutti i suoni, tutti i motivi caratteristici sono già nella mia mente”. Sebbene i versi, a loro volta, lo soccorrano a cristallizzare le idee musicali, si debbono considerare solo come un’estensione dell’ispirazione musicale. Scrisse a Liszt nel 1856: “Fatto alquanto curioso, è soltanto durante la composizione che la reale essenza del mio poema mi si rivela. Ovunque scopro segreti che prima mi erano celati”».
[17] Lo stesso Wagner si rese conto che i suoi saggi e articoli erano stati letti con superficialità e senza obiettività, se ne lamentò più volte, come nello scritto del 1879 Vogliamo sperare? Nel quale invita a studiare seriamente, senza preconcetti e ideologie, ciò che aveva scritto e stava scrivendo. Questo è il primo libro italiano a prendere in esame tutti gli scritti e a studiarne attentamente i principali, facendo anche chiarezza su alcuni luoghi comuni.
[18] Dopo le traduzioni di Manacorda ce ne sono state molte altre, anche di pregevole fattura; i teatri e le case discografiche, in dvd e in cd, hanno pubblicato molte versioni italiane dei libretti wagneriani. Si poteva scegliere di qui e di là, prendendo i punti migliori di una traduzione o di un’altra, addirittura scegliendo versioni differenti anche per un unico dramma, ma si entrava in un ginepraio di riferimenti che avrebbero incrementato in maniera esponenziale le già numerose note a piè di pagina, con difficoltà estreme per il lettore nell’orientarsi ed eventualmente nel reperire i testi sparsi. Abbiamo preferito avere un punto di riferimento certo, anche se non aggiornato, ma di alta qualità e di indiscutibile valore ancora oggi. D’altra parte il rapporto testo-musica, pur imprescindibile in Wagner, non è il tema centrale di questa trattazione, per cui i libretti tradotti dall’insigne Manacorda costituiscono un sicuro punto di orientamento. Le citazioni da Le fate e da Il divieto d’amare sono state da noi tradotte dal testo nelle partiture Sheet Music.
[19] Alcune note redazionali: Abbiamo preferito scrivere i nomi delle varie razze presenti nel Ring in maiuscolo. I nomi sono rimasti, ovviamente, nella scrittura originaria, tranne quelli di uso troppo comune (come per esempio quello della città di Monaco). Le citazioni in inglese e francese sono riportate nella loro lingua originale, mentre quelle da altre lingue in traduzione. I plurali dei sostantivi in lingua straniera sono stati omessi. I nomi delle razze, come per esempio Giganti, Nani etc., si è preferito scriverli in maiuscolo. Le molte note e citazioni sono l’inevitabile risultato dell’enorme mole degli studi wagneriani, esse costituiscono anche una sorta di bibliografia. Si è usato il passato remoto nel raccontare la biografia wagneriana, mentre si è utilizzato il presente per le analisi delle opere, dei drammi e degli scritti. Alcune epigrafe contrappuntano lo svolgersi del testo, non solo danno respiro grafico ma soprattutto introducono, con poche parole tratte da monumenti della musicologia e della cultura, gli argomenti che si vanno a trattare.
[20] PAUL VEYNE, Comment on écrit l’histoire, Seuil, Paris 1971, p. 46.
[21] Cfr. ROLAND BARTHES, Camera chiara, Torino, Einaudi 1980.
[22] Cfr. UMBERTO ECO, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995.
[23] RENZO CRESTI, Wagner oggi, Zanibon, Bologna 1982, Luigi Rognoni, nella Riflessione introduttiva scrive: «Una rilettura di Wagner, oggi, comporta la presenza (e la coscienza) di quella ‘crisi di valori’ che ha iniziato con il Romanticismo e che si proietta nel nostro secolo».
[24] RENZO CRESTI, Wagner oggi, cit.