Le città wagneriane italiane
Le città wagnerianeUn ruolo fondamentale per la diffusione dei drammi wagneriani in Italia lo ebbe l’editrice Giovannina Lucca, la quale aveva acquistato i diritti delle opere wagneriane per il nostro paese, appassionata e abile a tal punto da portare alla sua causa nientemeno che Angelo Mariani, direttore d’orchestra della cerchia di Verdi, il quale era aveva rapporti con il teatro Comunale di Bologna fin dal 1860 e si era interessato a Wagner dal 1862, quando acquistò lo spartito del Lohengrin, interesse che aumentò dopo l’ascolto delle opere di Wagner ascoltate a Monaco nel 1870. L’allora sindaco di Bologna, Camillo Cesarini, insieme alle Edizioni Lucca e ai critici giornalistici Enrico Panzacchi e Gustavo Sangiorgi, riuscì a combinare la prima italiana di Lohengrin; Wagner mandò una lettera a Mariani da Triebschen inviandogli una legenda su come rappresentare il dramma. La prima avvenne il 1 novembre 1871, dopo la première Wagner scrisse una lettera di ringraziamento a Mariani, da Tribschen il 23 ottobre dello stesso 1871. Fu un successo incredibile tanto che furono replicati i due preludi e la marcia nuziale, il Comunale era stracolmo di un pubblico curioso e plaudente, Elsa era Bianca Blume e Italo Campagnini interpretava Lohengrin.
Nel 1870, Verdi aveva chiesto a Du Locle di procurargli gli scritti teorici di Wagner e finalmente, nel 1971, ascoltò un’opera intera, si trattò proprio del Lohengrin bolognese, Verdi fu presente, alla recita del 19 novembre, con tanto di partitura alla mano, nel palco 23 della seconda fila, e qualcuno gridò “Viva Verdi”, ma non vi furono contestazioni. Verdi prese diversi appunti sulla partitura che aveva studiato perché i suoi commenti sono prevalentemente rivolti all’esecuzione: a conclusione del Preludio «bello ma riesce pesante con le continue note acute dei violini», mentre all’arrivo del cigno è annotato «bene la fine», la scena fra Ortruda e Telramondo è così commentata «tutto brutto fin qui, non si capisce niente», infine, dopo vari «brutto», «mal fatto», «cattivo», «duro», «orribile», «pasticcio», la sentenza è «impressione mediocre. Musica bella quando è chiara e vi è pensiero. L’azione lenta come la parola. Quindi noia». Non apprezzò dunque l’opera ma si dimostrò signorilmente diplomatico, per poi scrivere a Ricordi che «tutto quello che ho visto mi stomaca!» Marchetti, Marenco e Boito furono invece entusiasti. Il successo della prima italiana fu talmente clamoroso e inaspettato che il Consiglio Comunale di Bologna, in data 31 maggio 1872, conferì a Wagner l’onorificenza della cittadinanza onoraria (in assoluto il primo documento di cittadinanza onoraria conferita a Wagner). Wagner ringraziò con una lettera del 3 ottobre.
Il capoluogo emiliano stava conoscendo una profonda trasformazione determinata dalla fine dello Stato Pontificio e la nascente borghesia vedeva nel Teatro comunale un luogo dove poter ritrovarsi, un polo importante per la cultura della nuova Italia e siccome il nome tutelare di Verdi era un privilegio de La Scala, si pensò che l’astro nascente di Wagner potesse fare al caso. A Bologna ben cinque furono le prime italiane: Lohengrin (1871), Tannhäuser (1872), L’Olandese volante (1877), Tristano e Isotta (1888) e Parsifal (1914). Wagner fu presente all’esecuzione del Rienzi al Comunale di Bologna il 18 novembre del 1876, in quell’occasione il direttore d’orchestra era Mancinelli che venne molto apprezzato da Wagner, i due furono in corrispondenza dal 1880 alla morte di Wagner.[1]
Dopo la prima rappresentazione bolognese, sulle pagine del giornale «L’ancora» Enrico Panzacchi scrisse un articolo con delle riflessioni che ci fanno capire alcune tematiche della ricezione di Wagner in Italia; lo scritto inizia con una considerazione che venne ripetuta molte volte dalla critica italiana: «Dal punto di vista teatrale il suo stile, per soverchia finitezza e lusso di analisi, è l’ordinario troppo lontano dallo sguardo del pubblico e non sbalza, per così dire, dal fondo della scena». L’eccesso di analisi e la mancanza di momenti espressivamente in evidenza (come l’aria) situa la musica wagneriana nella nicchia degli specialisti: «Pel complesso delle musiche di Wagner si richiede un pubblico speciale. […] Per questa parte viene a convertirsi in fonte di squisito diletto la stessa astruseria dello stile wagneriano lamentata dagli altri». Panzacchi sostiene poi che anche lo stile di Verdi, vent’anni prima, era guardato con sospetto e dichiara: «Non ci contanta più l’opera fatta a pezzi staccati e a formule preconcette, non ci accontentano più i passi di bravura e la virtuosità dei cantanti, vogliamo sentire nella musica il dramma della vita». La conclusione dell’articolo è decisamente pro Wagner: «Egli freca nel melodramma profonde e belle invenzioni dalle quali non potremmo mai prescindere». Si noti che Panzacchi non conosceva le opere successive al Lohengrin, infatti afferma: «Dicono che nei suoi lavori successivi abbia portato ad applicazioni così esagerate il suo sistema da coprirne quasi interamente coi difetti i pregi. Può essere». Si lascia dunque in sospeso il giudizio e il dibattito aperto, come in effetti sarà per i decenni successivi.
Wagner e Verdi non ebbero rapporti diretti, troppo diversi di carattere e troppo differente la loro musica. Per un certo periodo Verdi fu accusato di essersi avvicinato a Wagner, ma è chiaro che il suo superamento dei pezzi chiusi, il declamato che ascoltiamo nelle ultime opere, la forza e raffinatezza della sua orchestra dal Don Carlos in poi, derivano da un processo interno allo sviluppo che il Maestro di Busseto maturò progressivamente. Un percorso che si articola sempre all’interno di tradizioni musicali italiane: «noi siamo i figli di Palestrina», usava dire Verdi, «mentre i tedeschi sono i figli di Bach», quindi vie diverse ch’è bene siano separate.
Dopo Lohengrin, che ottenne la bellezza di 861 rappresentazioni in Italia dalla prima bolognese al 1895, venne eseguita la seconda opera wagneriana in Italia, ancora al teatro Comunale di Bologna, l’anno successivo alla prima rappresentazione italiana, 1872, si tratta di Tannhäuser che verrà messa in scena anche a Trieste (1878) e ripresa ancora a Bologna nel 1884. La bella città delle due torri realizzò ben 135 rappresentazioni delle opere di Wagner dal 1871 al 1895 (seguita da Torino che rappresentò le opere wagneriane in 134 serate).
Al Teatro La Fenice di Venezia venne rappresentata quella ch’è la terza opera wagneriana in Italia, Rienzi, siamo nel 1874, due anni dopo quest’opera verrà messa in scena ancora a Bologna. Venezia si dimostrò città molto propensa ad accogliere le opere di Wagner tanto da realizzare un festival wagneriano nell’aprile del 1883, quando venne rappresentato l’intero ciclo del Ring, curato dalla compagnia di Neumann, che fu ripreso integralmente e a seguire a Bologna, Roma, Torino e Trieste; occorrerà aspettare il 1926 per riascoltare le quattro giornate a La Scala, che programmò il Ring per cinque anni di seguito.
Neumann, direttore dell’Opera di Lipsia dal 1876, ottenne nel 1878 il diritto di rappresentare per la prima volta l’Anello a Lipsia e nel 1880 acquistò i diritti per Berlino. […] Con il consenso di Wagner, nel 1882 può dare inizio alla fondazione del teatro wagneriano itinerante. […] nello stesso anno, il gruppo composto a oltre 150 persone, si mette in viaggio. […] Alla fine del 1882 Neumann prende la decisione di dare a Venezia l’Anello del Nibelungo».[2]
L’idea di una sorta di un moderno ‘carro di Tespi’ è quanto mai originale, Wagner fu scettico ma dette fortunatamente il permesso, la cosa funzionò e fu una pietra miliare per la conoscenza di Wagner nel nostro paese che, dall’aprile del 1883 (La Fenice e Teatro Comunale di Bologna) al maggio (Teatro Apollo di Roma, Teatro Regio di Torino e Politeama Rossetti di Trieste), ebbe un’idea concreta di cosa fosse il teatro musicale di Wagner. Inoltre venne realizzato anche un concerto a Firenze; infine si sarebbe dovuto mettere in scena il Ring anche a Milano, ma non fu possibile per l’opposizione dell’editore Giovannina Lucca che vantava diritti sui drammi wagneriani. La compagnia di Neumann si avvaleva di un discreto direttore d’orchestra, Anton Seidi, e di un’ottima schiera di cantanti,[3] alcuni cambiarono dalle rappresentazioni veneziane a quelle successive, su tutti emergeva la voce di Hedwig Reicher Kindermann che interpretava Erda, già interpretata a Bayreuth alla prima assoluta del Ring nel 1876 (dove cantavano anche le sorelle Lilli e Marie), dopo aver cantato anche la parte di Isotta, nel 1880, la Kindermann entra a far parte della compagnia di Neumann.
A Venezia sembra che la Kindermann ottenesse un successo travolgente. "Avvenne allora qualcosa di non protocollare né di lecito nel teatro wagneriano, ma in un certo modo prevedibile in Italia e previsto nella circostanza. Avvenne che l’esuberanza del pubblico, fino ad allora repressa nel mare di musica senza la forma chiusa dell’opera italiana, decretasse un’arbitraria chiusura formale sull’uscita di scena di Erda. Montò un applauso sfrenato che troncò la parola a Wotan e il passo a Fricka già pronta ad irrompere in scena".[4]
Le singole giornate vennero riprese in diverse città: nel 1891 il Teatro Regio di Torino rappresentò La Valchiria, eseguita poi al teatro Comunale di Trieste e a La Scala (1893); nel 1899 La Scala rappresentò Sigfrido, quindi ripreso al teatro Costanzi di Roma nel 1902; al teatro Regio venne allestito Il crepuscolo degli dei nel 1895 e l’anno successivo la stessa opera fu rappresentata a La Scala che mise in scena anche L’oro del Reno nel 1903.
Tristano e Isotta venne rappresentata per la prima volta a Bologna nel 1888, nel 1897 al Regio di Torino e nel 1899 al Comunale di Trieste. I maestri cantori di Norimberga ebbero la prima italiana a La Scala nel 1889 (con una ripresa nel 1898), vennero poi allestiti al Regio nel 1892 e a La Fenice nel 1899. Il 1914 fu l’anno di Parsifal che venne rappresentato per la prima volta a Bologna, ma che fu subito ripreso a Roma, Milano, Trieste, Pisa, Torino, Palermo, Firenze, Venezia, Genova, Brescia, un vero e proprio anno parsifaliano! A proposito delle città minori, Treviso fu quella che presentò più volte opere wagneriane: Lohengrin nel 1885, L’olandese volante nel 1888, Tannhäuser nel 1895, La valchiria nel 1901, Il crepuscolo degli dei nel 1903 e L’oro del Reno nel 1908. Anche Parma si distinse per essere una ‘città wagneriana’, malgrado la presenza e l’amore verso Verdi: nel 1883 al Regio venne messo in scena Lohengrin, nel 1900 Tannhäuser e nel 1908 Tristano e Isotta. Titoli wagneriani furono presenti nei primi anni del Novecento anche Ravenna, Brescia, Pisa. La Spezia, malgrado la città fosse legata al racconto che Wagner fece dell’intuizione del celebre accordo di mib dell’inizio de L’oro del Reno, non fu pronta ad accogliere la musica wagneriana. Ecco come Wagner descrisse l’intuizione ne La mia vita.
"Volli fuggire all’enorme frastuono del porto di Genova, presso il quale abitavo e credetti di potermi salvare rifugiandomi alla Spezia. Mi recai col battello a vapore, otto giorni dopo il mio arrivo a Genova. Anche questa navigazione, di una sola notte, fu di nuovo trasformata, dalla violenza dei venti contrari, in una penosa avventura. […] Alla Spezia andai alla ricerca del migliore albergo: con mio grande terrore lo trovai in una stretta via rumorosa. […] Mi distesi stanco morto sopra un duro giaciglio, aspettando il sonno lungamente agognato. Esso non venne, caddi invece in una specie di dormiveglia, nel quale ebbi improvvisamente la sensazione di sprofondare in una forte corrente d’acqua. Il suo rumorìo mi si determinò ben presto come un suono musicale, e precisamente l’accordo di mib, dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti; questi arpeggi si configurarono in forme melodiche sempre più mosse. […] Mi destai bruscamente atterrito dal mio dormiveglia. Tosto riconobbi che mi si era rivelato il preludio orchestra de L’oro del Reno".[5]
L’affascinante e inquietante Venezia (Wagner ne ebbe sempre un po’ di timore) realizzò altre cinque prime italiane: Rienzi (1874) e l’intero ciclo del Ring (1883). Nella splendida città lagunare Wagner era arrivato per la prima volta il 30 agosto del 1858, costretto a lasciare l’Asilo e l’amante Matilde Wesendonck. Trascorse le prime notti, come di solito da fuggiasco di lusso, all’Hotel Danieli poi si trasferì a Palazzo Giustiniani, dove portò avanti la stesura del Tristano. Dall’agosto 1858 al marzo del 1859 lavorerà da solo, ascoltando il silenzio dei canali e osservando l’infinito del mare: «Un mondo tutto remoto, che aderisce al mio bisogno di solitudine […] Qui sarà completato il Tristano e da qui che saranno proclamate al mondo le nobili esigenze dell’amore più sublime, i lamenti della più straziante voluttà».[6]
L’ouverture e il canto nuziale del Lohengrin e l’ingresso nel Wartburg dal Tannhäuser vennero eseguite in piazza san Marco per omaggiare il Maestro; queste furono le prime pagine tratte dalle sue opere che Wagner ebbe modo di ascoltare in Italia. Dopo che Boito ne aveva curato l’edizione italiana, La Fenice mise in scena Rienzi, il successo fu dubbio e un po’ scoraggiò, infatti si dovette aspettare il dicembre del 1881 per avere ancora una rappresentazione di un’opera di Wagner, Lohengrin. Venezia, com’è noto, accolse gli ultimi mesi della vita del grande Maestro tedesco.
Cosa conosceva Wagner della musica italiana? Dei musicisti storici soprattutto Palestrina del quale il Maestro possedeva diverse raccolte di messe e mottetti; nella biblioteca di Bayreuth sono conservati anche lo Stabat Mater di Pergolesi e il Miserere di Leo. Conosceva qualcosa di Piccinni, Cimarosa e Paisiello, ai quali non dava gran peso, e pressoché niente della musica strumentale di cui possedeva solo sei sonate di Domenico Scarlatti. Dei compositori suoi contemporanei conosceva e disprezzava Rossini, mentre giudicava abbastanza positivamente Bellini e Spontini. La scena e l’aria italiana costituirono il riferimento diretto nelle opere giovanili, così come le lunghe melodie belliniane e anche il duetto all’italiana è presente fino al Lohengrin. Negli scritti di Zurigo la disistima nei confronti dell’opera italiana si fece più forte, definita in Opera e dramma «una prostituta». Non si può pretendere da un ideologo come Wagner l’oggettività di giudizio, è interessato solo a fortificare la sua visione del teatro musicale. Da considerare pure il periodo storico carico di battaglie ideologiche e politiche, questo vale per Wagner e per l’Italia.
Milano era la città di Verdi e delle Edizioni Ricordi, non fu facile per Wagner penetrarvi, quando però vi entrò, anche grazie alla lungimiranza del critico Filippo, vi entrò alla grande. Si dovette aspettare il 1888, con il successo del Lohengrin (la prima di quest’opera a La Scala, nel 1873, fu un fiasco). A La Scala venne rappresentato in prima solo I maestri cantori di Norimberga (1889). Sul giornale «Il secolo» comparve la recensione di Galli, professore di Estetica musicale al Conservatorio: «Wagner tempera le corde della sua lira a pezzi ricchi di indiscutibile effetto. Ma è da deplorarsi che prima di giungere a quelli si debba attraversare delle zone plumbee e talvolta assideranti», quali siano è difficile da capire, fatto sta che insieme a una critica sostanzialmente negativa vi fu anche qualche articolo più convinto, come quello di Noseda sul «Corriere» e di Nappi su «La perseveranza».
Milano fu la città che mise in scena più rappresentazioni wagneriane fra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, seguita da Roma e da Torino. Città molto sollecite a recepire il teatro wagneriano, oltre Bologna e le citate Venezia, Roma e Torino, anche Trieste, Firenze, Palermo, Genova.
I direttori d’orchestra delle prime rappresentazioni furono Carlo Ercole Bosoni per il Rienzi, Marino Mancinelli per L’olandese volante, Angelo Mariani per il Tannhäuser e per Lohengrin, Giuseppe Martucci per Tristano e Isotta, Franco Faccio per I maestri cantori di Norimberga, Anton Seidi per l’integrale del Ring, Rodolfo Ferrari per Parsifal. Si tratta dei musicisti più colti che l’Italia dispone nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni collaboratori anche di Verdi. Per primo va ricordato Giuseppe Martucci che oltre a essere un ottimo direttore fu anche un buon compositore e pianista e, sempre della cerchia degli appassionati wagneriani si devono citare Luigi Mancinelli, Giovanni Bolzoni, Giovanni Bottesini, Carlo Pedrotti, sono i rappresentanti della musica strumentale italiana dell’epoca.
Firenze, città dalla buona cultura di musica strumentale, accolse subito Lohengrin che, dopo il 1871, venne ripreso nel 1886, 1888, 1893, 1897 e 1899. Rienzi venne eseguito nel 1877; L’olandese volante nel 1887; Tannhäuser dieci anni dopo. Trieste, città mitteleuropea, mise in scena nel 1876 l’opera che più successo ebbe in Italia, Lohengrin; fu poi la volta di Tannhäuser due anni dopo e nel 1892. Nel 1883 fu la volta del ciclo integrale del Ring.
Nel 1876 Wagner trascorse un mese a Roma, dove strinse diversi rapporti musicali; la Regia Accademia di Santa Cecilia gli consegnò il diploma di socio onorario. Il Lohengrin venne rappresentato molte volte, nel 1878, 1880, 1884, 1890; nel 1880 fu messo in scena anche Rienzi; nel 1886 Tannhäuser; nel 1887 L’olandese volante; nel 1883 vi fu l’avvenimento dell’esecuzione delle quattro giornate del Ring. Prima della rappresentazione del Lohengrin del 1880 Wagner scrisse alla sua editrice italiana Giovannina Lucca, in francese in data 12 marzo, di non poter essere presente all’esecuzione e che lasciava totale libertà agli artisti italiani per lo spettacolo, questa condiscendenza non significa affatto una completa fiducia nei nostri musicisti, tutt’altro, è dà intendere come poca considerazione per i musicisti e per il pubblico italiano: il Lohengrin veniva proposto con numerosi tagli che non potevano certo essere avvallati del compositore, il quale lasciò fare, tanto per l’Italia potevano andar bene anche opere «tronquées»! Del resto la sua stessa editrice italiana aveva in mente l’idea di ridurre il Ring in una sola serata! È interessante riportare questo aspetto per poter considerare i risvolti del rapporto fra Wagner e l’Italia.
Carlo Pedrotti aveva fondato a Torino i Concerti sinfonici popolari, dove venne eseguito l’ouverture del Lohengrin, il 12 maggio 1872. Fu poi la volta di brani tratti da Tannhäuser e da L’olandese volante. Al Teatro Regio venne eseguita la prima opera wagneriana a Torino, Rienzi, 23 dicembre 1882, al quale seguì, al Teatro Carignano, L’olandese volante, 24 novembre 1886.
La Spezia, che pur ebbe l’onore di essere citata ne La mia vita quale città che ispirò il preludio a L’oro del Reno, non fece un grande onore al Maestro perché, a parte un Lohengrin, rappresentato al Politeama il 16 luglio 1898, non si hanno notizie di rappresentazioni di drammi wagneriani fra Ottocento e inizio Novecento. In quel Lohengrin, Elsa venne interpretata da Fausta Labia, Lohengrin da Carlo Lanfredi, Ortruda da Elvira Ceresoli Salvatori, Federico da Vittorio Brombara, il re da Camillo Flegna, l’araldo da Alfondo Mariani e il direttore d’orchestra fu Antonio Palminteri.
Da Renzo Cresti, Le città wagneriane, in "Il Rigo Musicale" n. 51, La Spezia febbraio 2013.
A Luigi Verdi
[1] La stima verso Mancinelli fu dimostrata dal fatto che Wagner lo volle come direttore della sua Sinfonia in do a Venezia, in occasione del 45° compleanno di Cosima, e lo volle a Londra a dirigere le prime rappresentazioni de I Maestri cantori e del Tristano. Come compositore Mancinelli rese omaggio a Wagner nella sua opera Isora di Provenza, rappresentata a Bologna nel 1884. Nel 1886 Mancinelli lasciò Bologna e suo successore fu Martucci, successore anche nel senso di eccellente interprete della musica wagneriana.
[2] In Wagner in Italia, cit., U. JUNG,La fortuna di Wagner in Italia, p. 192.
[3] A Venezia la compagnia era formata da Orlanda Riegler nella parte di Fricka (poi sostituita nelle rappresentazioni nelle altre città da Elisabeth Lindemann), Anna Stürmer nel ruolo di Freia (poi avvicendata da Elise Freitag), Rosa Bleiter nel personaggio di Erda (successivamente la Kindermann), Friedrich Galiga nella parte di Loge, Julius Lieban in quella di Mime, Franz Krüchi in quella di Alberico, Hans Thomasczek in quella di Wotan, Robert Biberti in quella di Fafner e Josef Chandon in quella di Fasolt; il direttore di scena era Müller.
[4] GIANNI GORI, Brünnhilde, morte a Venezia, Zucchini, Varese 2006, p. 33.
[5] RICHARD WAGNER, La mia vita, UTET, Torino 1973, pp. 615, 616.