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Il tempo mistico di Skrjabin
Il tempo mistico di Skrjabin
 
di Renzo Cresti
 

Il tempo è senza tempo […]
Qualcosa c’è e non è nel tempo.
(G. Scelsi, Il sogno 101)
 
Il racconto sospeso
 
Goethe vedeva in un quartetto d’archi dei musicisti intenti a dialogare fra loro, a narrarsi una storia, in effetti, la musica del periodo tonale veniva costruita sulla traccia temporale del racconto, i temi rappresentavano le idee iniziali del raccontare che poi si svolgeva con intrecci, sviluppi e conclusioni, un po’ come nel romanzo ottocentesco e come nell’estetica di Hegel.[1] Il raccontare, nelle sue varie forme anche non verbali, è parte fondante l’esperienza umana,[2] in quanto la coscienza del proprio essere non si precisa senza un (auto)narrazione, la quale, però, non sempre ordina in maniera chiara e lineare i (f)atti ma li accavalla e, a volte, li confonde, creando una sorta di intreccio o di parallelismo e sospendendo la consequenzialità e la vettorialità degli avvenimenti. La spinta vettoriale si collega al concetto di progresso e a quello di futuro, pragmatici e razionali, tipici della società industriale e della cultura occidentale, non a caso profilatesi nell’Età umanistica poi consolidatesi nel progressivo consolidarsi dell’affermazione della classe borghese, alla quale fa da contro-altare lo stabilizzarsi della scala ben temperata e del sistema armonico-tonale, entrambi pratici ed efficienti nel riferirsi a una concezione dialettica della musica, dove i rapporti tematici sono messi in relazione fra loro e sottoposti a uno sviluppo rettilineo e coerente che progressivamente giunge a uno stadio più evoluto.
 
È necessario far riferimento alla tematica del tempo musicale nella seconda metà dell’Ottocento per capire in quale contesto la musica di Skrjabin, o almeno buona parte di essa, si inserisce e contribuisce all’approfondimento di questa tematica che sarà molto importante per molta musica futura.
 
Il rapporto fra narrazione lineare e racconto spezzato e/o sospeso è una delle principali tematiche della cultura del Novecento.[3] L’ultimo colossale narratore di quel periodo straordinario che è stato il Moderno[4] fu Wagner,[5] la sua Tetralogia fu davvero il conclusivo e immenso monumento basato sulla grande narrazione, onnicomprensiva, dopo di lui il tempo della narrazione si sminuzzò in schegge sospese e indipendenti, nell’impossibilità di contenere il tutto, la totalità, l’universale, la completezza dei fatti e delle cose (come avvenne in Mahler). La gigantesca esposizione delle storie trattate da Wagner è anche una narrazione che, nel momento stesso in cui realizza il racconto universale, lo frantuma. L’arte della modulazione continua del Tristan è arte del passaggio, della transizione senza meta, è un procedimento che contraddice le funzioni tonali, sostituendovi l’instabilità che fa vacillare la sintassi e il tempo classico, creandone uno virtuale realizzato attraverso la circolarità dei cromatismi e la mobilissima rete degli Ur-motive che si insinuano nell’inconscio, in un tempo non realizzato, onirico e fantastico, tempo del mito dove la temporalità effettiva si annulla nell’Ur-zeit. Wagner non fu solo lo straordinario punto terminale di una visione del mondo totalizzante, nel Parsifal iniziò a presentarsi quel tempo sospeso e bloccato, non lineare e verticale, mistico e misterioso, che diverrà il tempo amorfo di Debussy: «Il tempo appare meglio attraverso l’immobile» - scriveva Valéry - «È in questa dimensione inesprimibile che si muovono le colonne».[6]  Tempo che in maniera similare troviamo anche in alcune opere di Skrjabin.
 
In Debussy[7] sorge il silenzio, una quiete piena di senso che raccoglie l’esperienza dell’assenza/essenza, una serenità che si estende al tentativo di dominare il tempo e con esso la morte, il dominio sul tempo avviene conferendo all’istante, all’immediatezza, a un quid sfuggente, il valore di uno stop rivolto a Chronos, bloccandone il flusso ed esaltandone un attimo d’eternità. Un altro elemento che ferma lo scorrere del tempo è quello delle reminiscenze, di un tempo esistenziale che emerge dal passato e che poco o nulla ha a che fare con lo scorrere vettoriale della temporalità, si viene a creare un tempo spazializzato, discontinuo, non orientato. La giustapposizione di attimi sonori esaltano gli aspetti psicologici e, come un po’ in tutta la musica Romantik, anticipano le future ricerche delle psicanalisi che, finalmente in maniera scientifica, iniziò a parlare di tempi esistenziali diversificati, intrecciati e dagli andamenti ora lenti ora veloci, ora statici ora vivaci. Skrjabin, con le sue ossessioni mistiche, si rivolse a un tempo rituale e per celebrare il tempo del rito dovette defunzionalizzare le spinte vettoriali dell’armonia tonale. Un’altra esperienza che contribuì a scrivere diversamente il tempo musicale fu quella di Varèse, che frantumò il tempo in uno spazio di materie e di timbri, esperienze che trovarono il loro momento straordinario e risolutivo nella consapevolezza di Webern e delle scritture che a lui si rifecero nel secondo dopoguerra, dove la Moment-form di Stockhausen rivestì una rilevanza eccezionale. I processi messi a punto dalla musica elettronica, così come i procedimenti aleatori furono altri e decisivi fattori di un ripensamento e di nuove attuazioni pratiche dei tempi musicali.[8]
 
Il legame fra il tempo musicale e lo stile diventa strettissimo, proprio il frazionamento dei cosiddetti linguaggi artistici portò alla ricerca di principi unificanti, se non di un sistema almeno di alcuni aspetti che legati insieme portassero a una sintesi tecnico-formale, come gli ‘accordi sintetici’ di Skrjabin, le teorie sui Tropen di Hauer,[9] lo stesso metodo dodecafonico e il riferirsi ai procedimenti tradizionali del para-classicismo che garantivano una salda struttura e un’unità espressiva.
 
Nell’Est europeo, un caso rilevante è quello di Janá?ek, il quale, nel 1897, scrisse il trattato La combinazione degli accordi e le loro risoluzioni, un’interessante riflessione che parte dal valore della nota, l’accordo dunque è libero da ogni costrizione sintattica legata alla tonalità, come aveva affermato anche Debussy, ma Janá?ek non conosceva ciò che avveniva a Parigi; questa riflessione fu alla base delle composizioni che il maestro scrisse nel Novecento. Janá?ek fa derivare le inflessioni del canto dalla lingua parlata; il modo di cadenzare della lingua verbale costituisce quelli che il maestro chiama ‘motivi linguistici’, dai quali derivano le sfumature psicologiche; le inflessioni vocali della lingua morava vennero assimilate nei ritmi e nei fraseggi musicali, attraverso anche l’impiego di incisi di brevi temi, spesso basati su piccole unità metriche di 2/8 e 3/8; questo produce anche un allontanamento dall’armonia tonale che sconfina nella modalità, evitando la sensibile e le modulazioni. L’opera Jenufa (1903) prende corpo dalle inflessioni del linguaggio parlato, rispettandone le componenti foniche ed espressive; l’armonia vaga libera, spezzata e sospesa, non vi sono funzioni tonali e le cadenze hanno riferimenti ai modi dell’arcaica musica religiosa, mentre i metri e i ritmi variano in continuazione per adattarsi al testo: armonia, metrica e ritmica dunque non indirizzate alla linearità ma a una voluta discordanza dalla consequenzialità del tempo cronologico.
 
 Il tempo mistico di Skrjabin

Ci sono casi, soprattutto nel Romanticismo, dove le ossessioni dei vari musicisti furono foriere di intuizioni folgoranti; a volte si dice che il limite fra genialità e pazzia è labile e molti compositori trovarono humus creativo fertile proprio in quella zona liminare dove la ragione viene sospesa a favore di una sensibilità febbrile, come nel caso di Skrjabin che subì l’influenza delle esperienze mistiche ed estatiche del Decadentismo russo, specie del poeta e filosofo Merekovskij (la cosiddetta Età d’argento, compresa fra il 1895 e il 1925). Le simbologie, sensuali e mistiche,  presenti negli scritti di Solov’ëv contribuirono a formare il pensiero di Skrjabin. La tormentata visione del mondo portò Skrjabin, nella sua pan-religiosità molto personale, a frequentare il pensiero di Rudolf Steiner e i circoli esoterici e teosofici di Bruxelles, dai quali prese suggerimenti per la messa a punto del Prometeo (1910), qui gli accordi per quarte (già usati in Satie) vennero utilizzati quale reazione all’iper-cromatismo. Nel Prometeo compare un accordo che costituirà il perno dell’intera composizione, il cosiddetto “accordo mistico”, costituito da intervalli di quarta (do-fa#-sib-mi-la-re).[10] «Skrjabin giunse alla sua rivoluzione armonica con molti mezzi e per diverse vie. Aveva creato dentro di sé un mondo astrale. […] Le quarte non creano tensione verso il centro, creano un equilibrio statico privo di risoluzione. […] Il tritono è il punto cruciale del sistema armonico di Skrjabin».[11]

La mancanza del dinamismo armonico tonale sospende la vettorialità del tempo cronometrico, del tutto impossibilitato a evocare il flusso di coscienza che ha un movimento a spirale, i rapporti fra momenti di tensione e di distensione sono sospesi nel tentativo di aprirsi all’Erlebnis, a un vissuto aggrovigliato fra sogni e visioni. Non a caso Prometeo per Skrjabin doveva rappresentarsi come un ‘mistero’ e fondere misticamente e misteriosamente (i due termini hanno la stessa radice) elementi sonori e visivi (la visionarietà e una altro aspetto che contribuisce a creare una temporalità oscillante). L’armonia non segue più la funzionalità del sistema tonale e gli accordi vengono a formarsi seguendo l’interesse per la sonorità. Questo non vuol dire che non vi sia racconto e senso, espressività ed emotività, anzi, ma che nella narrazione si aprono finestre e sospensioni temporali quanto mai interessanti.

Gli a priori del tempo e dello spazio vengono sottoposti a una radicale trasfigurazione o meglio a un riposizionamento che li riporta a una musica rituale senza sviluppo, dove presente, passato e futuro smarriscono la loro successione, cercando – come scrive Dante – di ‘mirare il punto in cui tutti  i tempi sono presenti’. Per l’esoterismo di Skrjabin è fondamentale bloccare il tempo in una dimensione di preghiera: sant’Agostino diceva che se qualcuno gli chiedeva cos’era il tempo non sapeva rispondere, perché, in realtà, vi sono varie tipologie di tempo da quella cronologica a quella psicologica, da quella misurabile a quella sospesa. Alcuni titoli sono già di per sé significativi, come Rêverie op. 24 (1898), nel quale il procedere temporale si pone a mezz’aria, come Il poema dell’estasi (1907), dove l’incanto e la contemplazione dovrebbero essere celebrati in una sorta di stato di trance, oppure nei poemi Fantastico e Notturno (Skrjabin scrisse anche 4 Notturni), dove il tempo si dischiude ai tempi sovrapposti della fantasia e a quelli dilatati dell’ora della mezzanotte. E a proposito del tempo mistico come non citare le due Messe, quella Bianca (1911) e quella Nera (1913), dove non vi è soltanto la temporalità sospesa della preghiera ma pure quella tortuosa dell’ossessione, quella subdola dell’assillo, quella ambigua dell’incubo, quella spezzata del tormento. Come nel Wast Land di Eliot e nella Recherche proustiana, in queste opere si sostituisce al tempo narrativo il tempo mitico, un mito sub specie temporis nostri, in una sovrapposizione fra realismo e visionarietà che intreccia una temporalità naturalistica e una soggettiva, una spazialità concreta e una indeterminata.[12] Le coordinate del tempo usuale, presente verso il passato, presente verso il futuro, vengono sospese da una finestra che si apre su una temporalità smarrita. Questa finestra è la stessa del quadro pittorico che ferma il tempo, della fotografia che blocca lo scorrere su un istante, di ogni riflessione e meditazione, di ogni gesto d’amore e di ogni preghiera, un tempo fermo dove tutti i tempi sono presenti.[13]

Skrjabin inaugura, insieme a Debussy, una prassi della discontinuità temporale, l’arricchisce di un procedere a spirale costituito non dai legami della sintassi tonale e delle sue estensioni, bensì dalle affinità di rassomiglianza, di assonanze, di contrasti sottili, sono le emergenze che salgono dall’inconscio, dall’onirico e dal visionario e che rimandano a un tempo librato. I 26 Studi e i 92 ultimi Preludi sono costruiti su un singolo intervallo, a dimostrazione di come non vi sia un processo vettoriale sostenuto dall’armonia funzionale ma elementi simbolici, paradigmatici di una ricerca mistica. Il racconto non viene meno ma si spezza, si frantuma in atomi disposti spazialmente, più ascoso e difficile a percepire perché si stratifica e segue vie ellittiche, presentando una complessità di momenti e cambiamenti, in tensione fra loro, per cui la forma è centrifuga e il senso è risultante da un insieme di fattori diversi e a volte divergenti, anche se eventi salienti vi sono sempre ossia persistono aspetti che creano una sorta di punto di appoggio o di filo rosso o di note-pivot che permettono all’orecchio di orientarsi.[14]

Forti sono state le influenze che l’operare skrjabiniano ha avuto sui musicisti dell’epoca e di quella successiva. L’influenza di Skrjabin, con le strutture ottotoniche, sarà determinante per l’apertura mentale del giovane Stravinskij; brani dove direttamente si sente l’influsso di Skrjabin sono gli Studi op. 7 e Le roi des étoiles. L’armonia di Skrjabin precede ed è parallela alle esperienze che Schönberg farà alla fine degli anni Dieci e nei primi anni Venti,come nella Kammersymphonie op. 9 per 15 strumenti del 1909 (a differenza dell’accordo del Prometeo,[15] l’accordo per quarte della Kammersymphonie si compone di cinque quarte giuste). L’interezza della spazio cromatico era per Skrjabin un simbolo della sua visione panteistica e teosofica, ma il Quartenakkord rimanda anche all’intenzione di far derivare l’intreccio melodico/armonico da un unico elemento fondamentale, proposito che è lo stesso di Schönberg, soltanto realizzato con modalità diverse, entrambi rimandano alla Grundgestalt o a ciò ch’è stata chiamata anche “tecnica del centro sonoro”.
 
Skrjabin fu estraneo alle istanze della tradizione musicale russa e ossessionato da una ricerca armonica che fu tra le più innovative del tempo. Le scale per toni interi o esafoniche, gli accordi isolati, i lunghi pedali conducono a un’armonia defunzionalizzata ed (e)statica. Iniziò a presentarsi quel tempo sospeso e bloccato, non lineare e verticale, mistico e misterioso, che diverrà il tempo amorfo di tanta musica del Novecento.
 


[1] Non a caso si sono sviluppate varie teorie basate sul rapporto fra musica e linguaggio e, addirittura, alcune che vedono la musica come un linguaggio tout court, anche se la musica è una forma di linguaggio sui generis; per cui, per non ricadere in vecchie impostazioni linguistiche, occorre fare attenzione a quando e a come si usa la parola ‘linguaggio’ sia nella musica sia nelle arti in genere.
[2] Cfr. Antonio Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000 e Paul Ricoeur, Tempo e racconto, Jaka Book, Milano 1983. Secondo Damasio, l’organizzazione della memoria è di natura narrativa e ordina gli avvenimenti in maniera direzionale, rappresentandoli poi sotto forma di para-racconti, in cui i ricordi si dispongono in modo lineare, seppur non consequenziale, e sono formati da figure, visioni, percezioni, suoni. Che l’organizzazione generale, non solo della memoria, ma dell’intera mente sia prevalentemente orientata a disporre gli avvenimenti e le circostanze in maniera conseguente e logica è vero ma è altrettanto vero che non è sempre così e soprattutto nella strana ‘logica’ degli artisti, ch’è interessante proprio per non essere ordinaria, non a caso spesso paragonata alla ‘logica della follia’ ma anche quando si è in presenza di una forte razionalità questa non è quasi mai regolare e sistematica, se non nei casi accademici, ma si dispone a rizoma, a labirinto, a spirale, spezzando il diretto (e banale nella logica artistica) collegamento fra causa ed effetto e facendo ricorso non a una temporalità diritta e ininterrotta ma circolare.
[3] Indubbiamente la narrazione è un aspetto fondante della conoscenza e della consapevolezza, le stesse religioni sono un ‘racconto’, da quelle espresse nei miti arcaici a quelle riferite nei Veda, da quelle dichiarate nelle cosiddette Religioni del Libro fino alle pratiche diversificate che vanno sotto il nome di New Age. Cfr. Giuseppe Ruggeri, Della fede, Carrocci Editore, Roma 2014. La fede cristiana viene presentata sotto forma di racconto e accoglierlo equivale a una scommessa (nel senso dato da Pascal). «In tutte le culture esistono dei racconti che fondano l’esperienza umana, ne illuminano il destino, non nascono dal nulla, presuppongono un’esperienza vissuta. […] Sono racconti che hanno la pretesa di affondare le proprie radici nel divino: sono certo frutto anche di un’esperienza umana, ma sono sottratti all’esperienza che li hanno generati e collocati in qualcosa che precede l’esperienza stessa. […] Gli uomini hanno sempre avuto bisogno di articolare racconti che non esprimono soltanto bisogni primari ma anche di stabilire un rapporto tra ciò che sperimentano con immediatezza e l’Altro». (Carmelo Mezzasalma, Un approccio alla fede cristiana, conferenza tenuta presso la Provincia di Lucca, 9 gennaio 2015, manoscritto). Il racconto presupporrebbe dunque un’esperienza precedente a quella realistica e quotidiana, una emanah, come per la fede ebraica, una stabilità che sta prima dell’esperienza sensoriale e razionale ed è fondante. Racconto, quindi, come rivelazione del divino e base di ogni manifestazione dell’uomo sia a livello personale che collettivo. Ciò non toglie che nella consequenzialità del raccontare si instaurino delle soste, si aprano delle finestre, che servono per approfondire un momento della narrazione o a sbilanciarla verso racconti altri.
[4] Il ricorso alle categorie ermeneutiche del Moderno e del Postmoderno non vengono svolte per amore di classificazioni schematiche, ma, con metodologia aperta, per intenderci, senza sovrapposizioni culturali ad infinitum. Del resto, il panorama della musica della seconda metà del Novecento è talmente vasto e vario che non permette alcuna definizione costrittiva; è risaputo che sia il Moderno che il Post sono epoche complesse, stratificate e non definibili una volta per tutte.
[5] Cfr. Renzo Cresti, Richard Wagner, la poetica del puro umano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2012.
[6] Paul Valéry, Cantique des Colonnes, Gallimard, Parigi, pag. 70; l’espressione del poeta viene realizzata dal musicista in La Cathédrale engloutie, attraverso una serie statica di accordi paralleli che realizzano l’immobile e il frammentario, la prima volta che si affermò questa realizzazione fu nel 1891, nella seconda delle tre melodie su poesie di Verlaine.
[7] Michel Imberty, Musica e metamorfosi del tempo, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2014, pag. 15: «All’opposto dei silenzi iniziali del Parsifal che creavano l’attesa e la continuità del divenire mediante quest’attesa stessa, i silenzi di Debussy separano, isolano, si interrompono. Ma allo stesso tempo preparano il sorgere. All’inizio del Parsifal, la musica trasfigura il silenzio, lo abita. È l’inverso in Debussy, in Pelléas, il silenzio abita la musica, la indebolisce e la illumina allo stesso tempo».
[8] La durata nel tempo di Bergson prevede la continuità dell’esperienza e la rottura, la differenziazione, l’imprevedibile è ciò che emerge dalla persistenza, è l’evento che si dà in un contesto pre-compreso, è lo strappo che si verifica nel tessuto[8] della memoria, è l’emergenza che sale dall’inconscio, dall’onirico e dal visionario; avvenimento emergente e substrato temporale rappresentano i due poli su cui si declinano le infinite sfumature delle concezioni del tempo nella musica dei primi 70 anni del Novecento, concezioni che, comunque, non ammettono quella esclusivamente lineare e progressiva che rimane soltanto nelle opere più legate al tardo Romanticismo. Quanto siano fondamentali i nomi di Bergson, Proust, Freud, Joyce, Kafka è inutile sottolineare.
[9] Nel 1908, Hauer iniziò a scrivere musica costruita su un sistema che lui stesso teorizzò e che si basa su modelli di 12 note, lo stesso Schönberg riconobbe l’influenza del sistema dei Tropen sulla sua musica.
[10] Cfr. Luigi Verdi, Kandinskij e Skrjabin, Akademos e LIM, Lucca 1996.
[11] Faubion Bowers, Skrjabin, Gioiosa Editrice, Pieve del Cairo 1990, pp. 143, 147, 158.
[12] inoltre, la rete dei temi sussidiari e della mutabilità delle prospettive rende il monologo interiore a più dimensioni, come nello stream of consciousness di Joyce, dove varie tecniche, come quella delle tropatura retorica, del labirinto mobile, della progressione retrogressiva, dell’allucinazione, dell’anastomosi, dell’innesto, etc., fermano lo scorrere del tempo e descrivono un mondo fermo e antisentimentale, dove luoghi e persone prendono un rilievo e uno stacco da immettersi con forza evocativa nelle trama generale e lineare dell’ondeggiante racconto.
[13] La Ricerca ha una struttura complessa che lo stesso Proust paragonò a quella di una cattedrale gotica, con la navata centrale e le zone d’ombra, con gli spazi laterali e gli elementi accessori, solo percorrendo la cattedrale in ogni sua parte se ne scopre la forma, la bellezza e il senso; la metafora della cattedrale sta a significare che la graduale scoperta del significato delle cose avviene attraverso un ampio percorso ch’è quello della memoria, nella quale vanno a intromettersi visioni molteplici, come un trapianto dello spazio/tempo altro, separato e diverso, nello spazio/tempo effettivo e pratico. L’ultima parte del vasto lavoro, intitolata in maniera esplicita Il tempo ritrovato, è stata accostata al ‘tempo creativo’ di Bergson, un tempo ellittico interiore che filtra i dati esterni e li ri-compone.
[14] Nella musica tonale, questi elementi chiave e indicatori sono i temi, le regioni tonali, la metrica etc., ma anche nella musica pan-tonale vi sono profili sonori, soggetti contrappuntistici e cellule armoniche, registri e timbri, gesti e granulosità della materia musicale etc.
[15] L’armonia che lo stesso Skrjabin chiamò ‘sintetica’ è assai interessante: l’accordo fondamentale do – fa# - sib – mila – re, risulta un adattamento per quarte della scala do – re – mi – fa# - la- sib, che corrisponde agli armonici naturali, 9, 10, 11, 13 e 14, o piuttosto alla loro approssimazione nel sistema temperato (secondo Leonid Sabaneev, sarebbe stato Skrjabin a concepire la teoria della derivazione degli armonici, ma lo Skrjabin pianista aveva già scoperto la sonorità dell’accordo del Prometeo empiricamente; cfr. Martin Cooper, La musica moderna, Feltrinelli, Milano 1974, pag. 140.




Renzo Cresti - sito ufficiale