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La radura e l'artista illuminato
La radura e l’artista illuminato
 
Relazione al convegno L'artista illuminato, rassegna Il Suono Sacro, Assisi, luglio 2016
 
 
La natura ci insegna lo stupore, l’incanto panico produce un pathos travolgente che è pure un ethos, in quanto la natura ci insegna, come scrive Hesse a proposito degli alberi: «Gli alberi sono sempre stati per me i più persuasivi predicatori. […] Essi mirano con tutte le loro forze vitali a un’unica cosa: realizzare la legge che in loro è insita, costruire la propria forma, rappresentare se stessi».[1] La creazione nell’arte dovrebbe essere come la creazione in natura, quodlibet ossia l’essere tale e quale è, con tutti i suoi predicati, il quale in quanto è tale. Troppo spesso gli artisti, invece di “mirare con tutte le loro forze vitali a realizzare la legge che in loro è insita”, nel loro pensare e nel loro operare, si lasciano distrarre dall’inconcludenza delle mode, delle commissioni, del presenzialismo. Così l’arte si fa davvero effimera, nell’accezione più debole del termine.

Il compositore non può operare in questo o in quel modo, ma deve ricercare il suo modo, una ricerca costante e durissima, come quella della verità, la quale non può che essere generata che dalla propria maniera, eccum sic, assolutamente.

Che l’arte abbia molto da condividere con il concetto di religio è stato messo in evidenza dalla cultura Romantik, come il sacro l’arte appartiene a un tempo spazializzato, stra-ordinario, tempo/spazio del misticismo che ha parentela con mistero, quindi l’arte ci porta nelle prossimità di quel mistero che ciascuno di noi è per se stesso, mistero che nessuna parola comune può raggiungere, perché la profondità dell’intimità dell’uomo è linguisticamente impraticabile. L’arte che non si lega al luogo comune vuol mostrare l’essenziale, inaugura quel tempo sospeso nel quale il linguaggio diventa rivelativo ossia dice più di quanto non dica testualmente.

La musica è meno rispetto alla cultura, alla filosofia, alla concretezza del linguaggio comune, ma questo meno si rivela essere un di più; essa è una riduzione rispetto alla determinatezza e alla concettualità delle parole ma proprio questa riduzione consente un’apertura, un’amplificazione di quegli aspetti indefinibili e misteriosi che appartengono al nocciolo nascosto dell’essere. Dunque, la musica è pure un’eccedenza che si svolge in verticale, in un dire archetipo che allude a cosa lontane e nascoste.
Heidegger, nel suo saggio del 1935 L’origine dell’opera d’arte, intende il termine Lichtung come ‘radura’, termine che condivide la stessa origine di Licht, luce, e di Leicht, leggero come l’aria; alla luce, quale simbolo di bellezza e di spiritualità si erano già rivolti i filosofi del tardo Medioevo, come Bernardo, Grossatesta e Bonaventura: bello come lumen, bello come consonantia e claritas, luce come aspirazione al trascendente che crea una dimensione spazio/temporale estatica, luce come vestigium della Bellezza superiore. Heidegger però non si riferisce alla luce com’è intesa da questa tradizione filosofica, ma a quella «Luce che filtra dal bosco laddove la vegetazione si dirada e il sacro, secondo le credenze degli antichi culti, si manifesta fra il fremere delle foglie e la misteriosa danza dei raggi colorati. L’opera d’arte ha per Heidegger funzione fondativa, è porsi in opera della verità che getta fasci luminosi obliqui nella radura dell’essere, disboscandone e chiarendone alcune zone».[2] Nell’opera d’arte ha luogo un’apertura che, proprio come una radura, raccoglie la luce che passa tra i rami degli alberi e illumina la dimora, è uno svelamento della verità.

La clarière corrisponde all’Aperto ed è già presente prima che si faccia chiarore, la luce esisteva comunque, anche quando noi eravamo al buio, è l’infinito che eccede l’essere. L’arte equivale all’Aperto che è precedente e l’artista ne è il ricettacolo, coincide con il ricovero dell’altro-da-sé. La bellezza dell’opera è la luce che arriva nella radura e tale luce collega l’oscuro e il chiaro, l’infinito e il presente, la verità e la vita quotidiana. La contingenza, croce e delizia dell’artista, diventa un (ac)cadere dell’opera nell’operare, un precipitare del tempo (infinito) nell’accidentalità, creando l’Ereignis, l’evento che cade da un contesto pre-compreso.

L’evento è ciò che ha preso luce, è l’illuminazione dell’Aperto oscuro che ci circonda, è quel qualcosa che dal tutto sorge. Quando si parla di ispirazione altro non si dice che l’esser toccato del compositore della grazia della luce. Al di là del famigerato concetto di genio, l’intuizione è letteralmente il lampo, la folgorazione, la rivelazione alla mente e al cuore del musicista di ciò che è stato rivelato, di ciò che si è manifestato dall’annebbiamento al chiarore della verità.

Un po’ come nel mito platonico della caverna, la radura può essere assimilabile al sonno, nel quale l’uomo è nudo, svestito da ogni convenzione, semplice ed essenziale e nella sua nudità s’avventura nei misteri del sogno, si abbandona a quelle strane visioni, bizzarre e stra-ordinarie ma proprio perché tali più legate al groviglio dell’Es, ai labirinti della mente. Il sogno è simile alla radura, dona verità.
Il sogno attraversa lo specchio e ci mette in contatto con le profondità dell’essere, più si accetta questa realtà intima e infinita e più ci si inoltra nell’incavo dell’esser nostro e dei suoi problematici rapporti con la materialità della vita quotidiana. Nel risveglio si riattraversa lo specchio e si riprende contatti con l’ovvietà dell’ambiente, con la tangibilità e la fissità del mondo delle cose. Se l’artista non si affida al flusso di coscienza, alla dinamicità dell’immaginazione, alla vivacità della fantasia, alla velocità delle immagine sognate abbandona l’utopia e si addormenta nel luogo comune. Se l’arte restringe il suo orizzonte alla banalità della realtà conosciuta e scarta ogni aspirazione a illuminare con luce nuova gli avvenimenti e le cose, quest’arte è ben poca cosa, si colloca fra gli oggetti ordinari, diventa un soprammobile, un ninnolo per borghesi soddisfatti, non si tratta di fare sociologia a buon mercato ma certificare la mancanza del desiderio di andare oltre per soddisfare quello per la piacevolezza, il confortevole, il già ascoltato ossia l’assecondare il vivere pacifico nell’ovvietà.
 
L’arte è una risorsa di conoscenze, una forma di soccorso della mente, una sorta di magia del cuore che evoca l’umanità, viatico del bello e di luce. L’estetica è limitata, pare un ricamo sul vuoto, è forse un decadimento dell’intelligenza o forse del carattere dell’uomo postmoderno? È una ragione che riguarda la leggerezza dell’educazione culturale e sentimentale o forse di una bassezza d’animo che si è impadronita del genere umano? L’oscurità della selva risucchia nell’oscuro ogni solidarietà, ogni fratellanza, ogni indulgenza, ogni compassione e ogni viaggio verso l’altrove, eppure la vita è sempre un esodo alla ricerca di un avvento. Anche l’arte si fa cattiva ossia prigioniera di sé, chiusa negli egoismi degli artisti, ognuno dei quali chiuso nel suo orticello, arrovellato nel lavoro pro doma sua, convinto che ciò che cresce nel suo orto siano i frutti migliori, quando troppo spesso sono frutti di serra, artificiali. Solo attraversare lo specchio, abbandonandosi a una creatività aperta e dinamica, solo il rapportare il pensiero e il fare artistico all’etica e solo il  dimorare nella luce della raduna crea quell’autenticità e quell’originalità di cui sentiamo un gran bisogno.
 
 


[1] Herman Hesse, La natura ci parla, Mondadori, Milano 1990, pag. 89.
[2] Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Urbino 2002, pag. 55.



 




Renzo Cresti - sito ufficiale