L'inizio della Scuola di canto italiana
L’inizio della grande Scuola italiana di Canto (dal XIV al XVI secolo)
Approfondimento relativo ai moduli 7, 8 e 9 dell'ipertesto di Storia della musica La Vita della Musica
Inquadra le tematiche dell'Umanesimo - Il risorgere del mondo antico - Le corti e le cappelle italiane - Le forme popolareggianti e la musica strumentale - Il modo di cantare l'affezione chiaro e semplice - Collega l'Umanesimo al Rinascimento - Nascita del concetto di Moderno - Riforma protestante e contro-riforma - Il madrigale cinqucentesco - La cosiddetta 'scuola veneziana' - La vita nelle corti rinascimentali e il ruolo della musica - La muisica nel teatro - Pastorali e intermedi - La Camerata de' Bardi - "Imitar col canto chi parla" - La nuova figura dell'interprete - Monteverdi
Per esempi musicali usa Yiu tube
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In seguito al ritorno a Roma da Avignone, nel 1377, del Papa Gregorio XI, alcuni compositori e cantanti del Nord Europa si trasferiscono in Italia (pare che insieme al Papa arrivino in Italia anche i primi falsettisti), venendo in contatto con la cultura umanistica, acquisendo nella loro musica la fresca e spontanea cantabilità, la chiarezza d’espressione tipiche della produzuione dell’Ars Nova italiana. Rimane però una sostanziale differenza fra gli Oltremontani e gli italiani ed è l’affetione: per gli artisti italiani parola e musica possiedono attributi espressivi che si richiamano e si completano ed è da questa convinzione che si distaccano dalla tradizione contrappuntistica, per aderire alla monodia vocale, seguendo un ideale richiamo alla classicità greca. C’è una lettera, poco nota, del Petrarca che invita il Papa a venir via dalla sciovinistica cultura francese e a tornare in Italia, patria anche del bel cantare. I francesi, dice il Petrarca, hanno voci fisse mentre le nostre vibrano e per questo sono più espressive. La riflessione del Petrarca è anche legata all’idea del rinnovarsi della vita partendo dall’antica civiltà greca, da qui la polemica contro i “barbari”, siano Galli o Germani, colpevoli di aver sommerso la cultura classica.
Il canto poetico-musicale in senso umanistico che si sviluppa nell’Italia del Nordest, tra la seconda metà del XV secolo e l’inizio del secolo successivo, ama una tessitura centrale grave-media che implica un’emissione particolarmente raffinata; bisogna “portar la voce” in modo che la risonanza di petto sia purissima per la presenza in equilibrio del registro di testa. Così si raggiungono le tre ottave e, quindi, un unico registro che è stato poi suddiviso in contralto e soprano, un’estensione uniforme che le cantanti dell’epoca realizzavano naturalmente, basandosi sempre sul suono della parola.
Il risorgere del mondo antico, nel quale si vede – soprattutto nello spirito della Tragedia – la guida per lo svolgimento del presente, è già in atto all’inizio del Quattrocento, infatti la celebre lettera che Poggio Bracciolini scrive durante il Concilio di Costanza è datata 1416; in questa missiva si faceva interprete dell’esigenza della riscoperta del passato che viene chiamato “la voce degli antichi padri imploranti la liberazione dalla loro secolare prigionia”. Poggio aveva scoperto i Codici del monastero di san Gallo e, dandone notizia agli amici fiorentini, incitava a non intendere il passato come cimelio da museo, ma a vivificarlo trovando i legami col presente, che acquista in questo modo coscienza del valore della tradizione e proprio da questa consapevolezza nasce l’interesse per la historia magistra vitae. Nel secolo successivo, Giorgio Vasari parla addirittura di “rinascita”, per indicare il cammino percorso dagli artisti italiani, a partire da Giotto, nella riscoperta dei valori e principi espressi nell’antico mondo greco-latino, perfezionandoli (è noto che il termine “Rinascimento” passerà alla storiografia).
Il musicista-cantante improvvisatore nasce da questo contesto ed è un fenomeno tipicamente italiano: cantano ad lyram o ad citharam…, indicative sono anche le tante raffigurazioni pittoriche di Orfeo cantante con la lira in braccio. Esemplare è l’ambiente fiorentino all’epoca di Lorenzo il Magnifico, il quale canta insieme a Marsilio Ficino, Domenico Benivieni, Antonio Naldi e a Baccio Ugolini (quest’ultimo, considerato un grande cantante che si accompagnava con la lira da braccio, ricordiamolo fu l’interprete principale dell’Orfeo di Angelo Poliziano, nel 1480 a Mantova). Il poeta Vincenzo Calmeta, attivo alla corte del Magnifico, testimonia del diffuso uso di poeti e di umanisti di cantare i propri versi accompagnandosi su uno strumento a corde; scrive Calmeta: “sono da essere stimati di sommo giudizio coloro che cantando mettono tutto lo sforzo in esprimer bene le parole /…/ facendo non gli affetti e le sentenze della musica, ma la musica delle sentenze e degli affetti esser ministra”. Il genere rappresentativo costituisce, dai Canti carnascialeschi agli Intermedi, passando per gli inserimenti musicali nelle Commedie del Machiavelli, il filo rosso della cultura musicale fiorentina che porta fino alla Camerata dei Bardi.
Nelle parole degli umanisti si nota rispetto per la musica polifonica franco-fiamminga, ma traspare un giudizio che, con l’andare del tempo, si farà sempre più negativo, anche nei confronti dei musicisti del Nord italianizzati, soprattutto per gli aspetti tecnici che vengono definiti “innaturali”. Trionfa quindi una musica basata sulla chiara percezione delle parole, le quali vengono pronunciate/cantate da un solo cantore. Fra i primi esempi di virtuoso, conteso dalle corti, è Pietro Bono del chitarrino che, sulla metà del Quattrocento, afferma uno stile improvvisativo di cui, purtroppo, poco ci è rimasto, se non nelle elaborazioni confluite negli eterogenei generi della Frottola, dello Strambotto, della Giustiniana, della Canzone, della Barzelletta, dell’Ode, della Serenata, della Villotta, della Villanella e di altri forme minori, tutte esperienze nelle quali il rapporto fra poeti e musicisti è strettissimo, se non addirittura concentrato nella stessa persona, come nel caso dei poeti-cantori Bernardo Accolti e Gasparo Visconti.
La riscoperta del mondo classico attuata dagli umanisti ripropone con forza l’ideale di una comunicazione musicale più diretta, affidata a mezzi “semplici”, in grado di coinvolgere l’ascoltatore nella dolcezza del suono e nella chiarezza dei contenuti del testo. Poliziano, in una lettera da Roma del 1488, descrive questi modi “semplici” di cantare con parole che ricordano la futura Sprezzatura del Caccini e la Seconda pratica di Monteverdi. Si vede quindi come le metodologie del canto alla corte mantovana dei Gonzaga e a quella ferrarese di Isabella d’Este, come d’altra parte alla corte fiorentina dei Medici, anticipino gli stilemi che si affermeranno durante il corso del Cinquecento. E’ da ricordare e da riallacciare a quanto detto che a Mantova, già nel 1425, Vittorino da Feltre aveva fondato un’importante Schola umanistica dove era insegnata la musica, e che a Ferrara, il duca Ercole I nel 1471, aveva fondato una Cappella musicale fra le meglio organizzate d’Europa (solo la Cappella del duomo di Milano e la Schola Acolytorum di Verona potevano competere, in Italia, con la Cappella di Ferrara). Proprio dalla Schola veronese escono molti dei protagonisti del rinnovamento italiano quattrocentesco, da Trombocino, Cara, Pesenti fino a Martinengo, Ruffo, Asola, Ingegneri ecc. Il metodo di canto esclude il falsettista e insiste sulla perfetta fusione dei registri, sulla purezza e l’omogeneità di emissione, sulla declamazione del testo. E’ un modo di cantare che, nel tardo Quattrocento, predilige la tessitura “di petto”, ma che sta andando verso la raffinatezza del “legato”, la quale si realizzerà pienamente un secolo dopo nel canto espressivo cacciniano.
Educatori come Vittorino da Feltre, cui si deve la creazione di un nuovo modello pedagogico, pongono un’enfasi particolare sul valore educativo delle arti, riprendendo la teoria dell’ethos. Proprio il rapporto parola/suono costituisce il cardine di questa nuova etica musicale, dove la musica dev’essere “trasparente”, in modo da rendere intellegibile il testo. La creazione di senso è il fine più alto.
Nel nostro Paese, l’artista aveva acquisito, prima che altrove, coscienza della propria libertà espressiva, sganciandosi dalla soggezione della Cappella. L’intellettuale, formatosi alla scuola umanistica, propugnava i concetti di virtù, conoscenza e ragione, aveva formulato un utopico programma di collaborazione col Principe, un ideale proposto da Baldassare Castiglione, nel dialogo Il cortigiano del 1528. Scrive il grande letterato e diplomatico: “bella musica parmi il cantar bene al libro, ma ancor molto più il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste in uno solo, e con molto maggiore attenzione si nota ed intende il bel modo e l’aria non essendo occupate le orecchie in più che in una sola voce, e meglio ancora vi si discerne ogni piccolo errore, il che non accade in compagnia perché l’uni aiuta l’altro. Ma soprattutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare, il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole ch’è gran meraviglia.” E’ noto come il “meravigliare” sarà proprio della concezione manieristica e ancor più barocca dell’arte, per la quale diventa essenziale commuovere, dilettare, persuadere, legandosi alla Retorica classica. Va ricordato, onde evitare interpretazioni errate, che il termine “maniera” indica, nel Cinquecento, il modo di essere, per cui ogni artista ha la sua maniera, il suo stile. E che “Barocco” è una definizione di comodo che non va equivocata.
Musicalità del dire
La ricognizione della musicalità del dire, che il Doni scrive “non si è più attuata dopo l’antichità greco-latina”, è uno degli ideali forti del Rinascimento che, conoscendo Platone, Aristotele, Filodemo, Archita, Cicerone, Aristosseno, possiede la documentazione per capire come poesia e musica erano tutt’uno. La musica era l’arte del dire, infatti il pubblico dello scrittore antico non era un pubblico di lettori, ma di uditori, la retorica diviene, quindi, la base per la realizzazione fonetica del pensiero. “La via della persuasione percorre la strada che attraverso il delectare e il muovere giunge al docere, le arti devono assumere questa triplice funzione persuasiva /…/ stabilito come il fine proprio della musica sia il rappresentare gli affetti,” “oggetto è il suono, il fine è il dilettare e commuoverci con gli affetti più diversi” (Cartesio), l’indagine dei musicisti e dei teorici si volge a indagare tutti i possibili riscontri tra gli stati d’animo e i mezzi musicali più adatti a rappresentarli” (1). Per raggiungere tali obiettivi si riutilizzano i metri antichi, da Bernardo Tasso a Cesare Monteverdi, al Tolomei, Trissino, Chiabrera… fino ai tentativi della Pléiade. E’ chiaro, comunque, che il ricorso ai piedi greci o il riportare alla luce altri stilemi antichi, non è sufficiente a creare un unicum parola/concetto/suono (è per questo che la Pléiade rimane sospesa a metà strada).
Gli studia humanitatis avevano già evidenziato il soggettivismo, il regnum hominis, l’uomo come copula mundi in senso razionale ma anche emotivo. La traduzione italiana della Poetica di Aristotele, nel 1549, influenza l’ambiente culturale, come dimostrano gli scritti di Castelvetro e di Telesio, ma non è un’influenza decisiva né duratura, perché l’estetica del tempo si è spostata su una gnoseologia sensitiva che privilegia l’affetione e che trova la sua completa realizzazione nel canto espressivo fra Cinque e Seicento, nella ricerca della sonorità della parola, nell’ideale del poeta-cantore e della monodia, secondo l’insegnamento dei greci, studiati attentamente dal punto di vista tecnico, per la prima volta, nel Dialogo della musica antica et della moderna di Vincenzo Galilei, il quale stende anche un trattato meno conosciuto ma altrettanto importante, Discorso intorno all’ uso delle dissonanze, scritto studiato per primo e in maniera approfondida, come suo solito, da Gianuario, il quale dice che il Galilei “intende indagare sull’anima dell’armonia, cioè sui concetti delle parole ovviamente per quanto attiene a un contesto fonico-semantico di esse, in contrapposizione ed anche a completamento delle cognizioni circa il corpo dell’armonia che rappresenta il contesto tecnico del procedere ordinario di suoni e voci diverse.” Il punto essenziale della disquisizione del Galilei è la ricerca della ragione espressiva del fatto armonico che si manifesta compiutamente (nel risultato espressivo) nella Dissonanza, la trattazione della quale ed il cui uso sono poco seguiti dai musici della Prima pratica, legati soprattutto alla tematica della Consonanza /…/ esistenza di un cospicuo filone culturale che con il Vicentino, Cipriano de Rore, Gesualdo da Venosa, Giulio Caccini, Jacopo Peri e Monteverdi si riallaccia alla Poetica greco-latina” (2). Monteverdi farà della dissonanza la manifestazione dinamica della sua musica, realizzando la visione platonica del concetto espresso in suono. Il pensiero che il testo esprime si deve concretizzare nell’aderenza della musica alle parole: la messa di voce (il suo aumentare o diminuire), l’esclamazione languida o spiritosa, le cascate (volatine), gli effetti espressivi del legato e il trillo (a imitazione del canto degli uccelli, come dice Caccini) e tutti gli altri elementi che vanno a costituire la Sprezzatura (andamento a tempo libero per seguire l’arsi e la tesi della musica) sono allora in funzione dell’espressione poetica e devono essere realizzati a voce “sonora” naturale, in cui cioè è operante la completa fusione dei due registri. Nel “parlare modulando le sillabe”, come dice Caccini, devono essere conservati gli accenti tonici e le caratteristiche delle vocali.
Il canto rinascimentale è caratterizzato essenzialmente dalla prassi della diminuzione, ma, proprio grazie ai fiorentini e a Giulio Romano in particolare, intraprende uno sviluppo nuovo nel campo del passeggiare: “il diminuire si arricchisce di elementi come l’esclamazione, il trillo preparato o meno, gli accenti ecc. /…/ la monodia, nata secondo i dettami della nuova estetica, presenta una ricchezza e varietà di accenti veramente eccezionali, varietà che esecutivamente si realizza nella libertà dinamica (sprezzatura) e di espressione (accentuazioni fonetiche). Trovano così spiegazione alcuni effetti vocali, l’esistenza del semitono minore cromatico di cui parla Doni o le durezze sul piano strettamente armonico” (3).
Intorno al 1620 si esurisce il grande momento politico e culturale delle Corti italiane, preoccupate principalmente di non irritare le potenze straniere. Il Canto sceglie la strada di Mantova e Venezia, seguendo le Opere e i Madrigali di Monteverdi, e di Roma dove, già nel 1600, Cavalieri aveva proposto la Rappresentazione di Anima e di Corpo. Nella Città eterna l’Opera si diffonde negli spettacoli di corte (i primi teatri pubblici, mentre a Venezia si aprono dal 1637, a Roma si allestiscono solo dagli anni Settanta), con il gusto per la spettacolarità e per le pagine corali. Proprio l’esuberanza della scenotecnica e del sempre più vivo virtuosismo, saranno le maggiori concause che porteranno il Canto ad allontanarsi dalla grande Scuola e dalla Seconda pratica monteverdiana che rimarranno però, in maniera sotterranea, almeno fino a Mozart e Rossini, dopodiché il Romanticismo muterà molto dell’impostazione originaria.
NOTE
1) D. Bertoldi – R. Cresti, Per una nuova Storia della Musica, III vol., Eximia Forma, Roma 1994.
2) A. Gianuario, Vincenzo Galilei, la dissonanza e la seconda pratica, in Atti del Convegno su Vincenzo Galilei, a cura di D. Bertoldi e R. Cresti, Santa Maria a Monte (Pisa) 1988.
3) N. Anfuso, Tecnica di canto e monodia di seconda pratica, in “Poesia e musica nell’estetica del XVI e XVII secolo”, a cura del Centro Studi Rinascimento Musicale, Artimino 1976.