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Claudio Monteverdi
Claudio Monteverdi e la 'voce sonora'

Approfondimento relativo all'ipertesto La Vita della Musica


Collegati al Rinascimento e alla musica della Camerata de' Bardi - Manierismo e Barocco - Vita di Claudio Monteverdi - I Libri di Madrigali - L'Orfeo e le opere veneziane - La musica sacra

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Claudini Montisviridi”, così si legge nel frontespizio del primo lavoro che Monteverdi pubblica nel 1582, Sacrae Cantiunculae,  presso il famoso editore Gardano di Venezia, “è un allievo di Ingegneri” e in questa Antologia di Mottetti, pur nell’evidente ricalco di certi stilemi del grande polifonista sacro, Maestro della Cattedrale di Cremona e col quale il giovane Monteverdi studia, dimostra una sottigliezza di scrittura che rimarrà una felice costante: i Mottetti sono a tre voci (non a cinque come usanza) e questo ci dice che il giovane Monteverdi non è tanto attratto dalle grosse sonorità quanto piuttosto dal raffinato rapporto con la parola, in tal senso Monteverdi è davvero il grande continuatore della Scuola di canto che ha origine nelle Corti italiane del Quattrocento.

La relazione parola/suono costituisce il cardine dell’e(ste)tica musicale umanistico-rinascimentale, per la quale la musica dev’essere “trasparente”, in modo da rendere intellegibile il testo. La creazione di senso è il fine più alto. La rigogliosa cultura del Quattrocento italiano influenza l’Europa tutta, un esempio musicale è il De modo bene cantandi, pubblicato nel 1474 da Conrad von Zabern, in cui si critica con severità le cattivi abitudini dei cantori che “nasalizzano”  e che non pronunciano bene le parole “generando confusione nella pronuncia”. Il rapporto col testo è, insieme alla “voce sonora” e ad alcuni princìpi tecnici, la base su cui s’imposta l’e(ste)tica della grande Scuola di canto italiana, un’estetica che si contrae in etica.

L’intellettuale, formatosi alla scuola umanistica, propugnava i concetti di virtù, conoscenza e ragione, aveva formulato un utopico programma di collaborazione col Principe, un ideale proposto da Baldassare Castiglione, nel dialogo Il cortigiano del 1528. Scrive il grande letterato e diplomatico: “bella musica parmi il cantar bene al libro, ma ancor molto più il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste in uno solo, e con molto maggiore attenzione si nota ed intende il bel modo e l’aria non essendo occupate le orecchie in più che in una sola voce, e meglio ancora vi si discerne ogni piccolo errore, il che non accade in compagnia perché l’uni aiuta l’altro. Ma soprattutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare, il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole ch’è gran meraviglia” (1).

La ricognizione della musicalità del dire, che il Doni scrive “non si è più attuata dopo l’antichità greco-latina”, è uno degli ideali forti del Rinascimento che, conoscendo Platone, Aristotele, Filodemo, Archita, Cicerone, Aristosseno, possiede la documentazione per capire come poesia e musica erano tutt’uno. La musica era l’arte del dire, infatti il pubblico dello scrittore antico non era un pubblico di lettori, ma di uditori, la retorica diviene, quindi, la base per la realizzazione fonetica del pensiero. “La via della persuasione percorre la strada che attraverso il delectare e il muovere giunge al docere, le arti devono assumere questa triplice funzione persuasiva /…/ stabilito come il fine proprio della musica sia il rappresentare gli affetti /…/ “l’oggetto è il suono, il fine è il dilettare e commuoverci con gli affetti più diversi” (Cartesio), l’indagine dei musicisti e dei teorici si volge a indagare tutti i possibili riscontri tra gli stati d’animo e i mezzi musicali più adatti a rappresentarli” (2). Per raggiungere tali obiettivi si riutilizzano i metri antichi, da Bernardo Tasso a Cesare Monteverdi, al Tolomei, Trissino, Chiabrera… fino ai tentativi della Pléiade. E’ chiaro, comunque, che il ricorso ai piedi greci o il riportare alla luce altri stilemi antichi, non è sufficiente a creare un unicum parola/concetto/suono (è per questo che la Pléiade rimane sospesa a metà strada) (3).

La voce sonora e Monteverdi

Da un punto di vista tecnico, i cantanti devono utilizzare la risonanza superiore, infatti il suono perfettamente emesso viene creato nelle cavità di risonanza superiori, poggiando sul fiato, realizzando quel “cantare sul fiato” di cui parlano i teorici: il Giustiniani descrive le meraviglie canore delle corti di Ferrara e di Mantova: “facevano a gara nel moderare e nel crescere la voce, assottigliandola e ingrossandola, hora strascinarla, hora smorzarla, con l’accompagnamento di un soave sospiro /…/ accompagnavano appropiatamente la musica e li concetti”. La rappresentazione degli affetti richiede quindi uno stile che vada in profondità, entri dentro alla parola e ne esalti le innumerevoli possibilità di declamazione. La naturalezza espressiva fa ricorso anche a un uso sapiente della pausa che deve seguire il respiro e dar rilievo alla sensibilità dell’interprete.

Sotto il profilo canoro, l’estrema purezza e fragilità del suono-poetico richiede la stessa prefezione della emissione che permette la realizzazione dello  spiccato (tipico della esecuzione della virtuosità) che deve far risaltare bene ogni suono-sillaba e, per realizzare questa pronuncia, occorre creare il suono utilizzando al massimo i risuonatori sopra-laringei che hanno sede nelle fosse nasali e nei seni paranasali, cosa che oggi non si ascolta quasi più. La risonanza totale quindi (la “voce sonora” del Caccini) è possibile solo mediante il meccanismo dell’appoggio che permette il registro unico e quindi l’omogeneità e la purezza dell’intonazione. C’è un grande “segreto” per giungere alla perfetta vocalità ed è quello di considerare che esiste un punto unico dell’appoggio per tutti i suoni della scala musicale (nessun testo italiano antico, e ciò è significativo, accenna ai cosiddetti “passaggi di registro”). Inoltre l’emissione va realizzata sul fiato, creando così un suono vivo e vibrato che permette di portar la voce attuando i particolari effetti cromatici tipici del canto affettuoso. Il crescere e lo scemare della voce dev’essere basato su una buona respirazione (alcune conformazioni facciali possono aiutare la buona risonanza, come la forma del naso).

Lo stile rappresentativo non è tale perché realizza una visione scenica del testo, quanto perché rappresenta gli affetti, modulando emotivamente la voce, quindi, come dice Annibale Gianuario, “siamo molto lontani dal melodramma e dall’operismo e siamo lontanissimi da un canto virtuosistico fine a se stesso nel quale e per il quale si possono inventare diminuzioni, accompagnamenti elaborati e… orchestrazioni” (4).
Oltre a Cremona, il giovane Monteverdi ha contatti con Milano, dove vi suona più volte la viola, e con Ferrara, dove conosce le celebri tre dame che cantavano trii scritti appositamente per loro da vari musicisti (fra cui Luzzaschi), ma è certamente Mantova la città fondamentale per la messa a punto della Seconda pratica. In una lettera del 1611, indirizzata al cardinale Ferdinando Gonzaga, Monteverdi scrive: “ogni venerdì sera, nella Sala degli specchi, si tiene un concerto. La signora Adriana canta, regalando ai sensi tutti un tale piacere e donando alla musica un tale potere e una grazia così particolare che quel luogo diviene un nuovo teatro”. Lo specchio è uno dei simboli dell’estetica seicentesca, verità del riflesso e, contemporaneamente, apertura di uno spazio illusorio. “Come potremmo vivere senza specchi? /…/ sono le finestre attraverso le quali vediamo noi stessi /…/ vi piace la Sala degli specchi? State osservando il soffitto, i quattro cavalli e l’auriga /…/ notate che i cavalli sembrano galoppare nella direzione opposta. Un’illusione ottica, come molti nostri affreschi. Giochiamo con le dimensioni. Tutto ciò che potete vedere nella Sala è il vuoto, e voi stessi riflessi negli specchi. Non sentite, seppur debole, la musica che filtra attraverso il sudario del tempo? /…/ le nostre pareti, là dove non sono ricoperte di specchi, risplendono con le opere di Tiziano e di Rubens. Il nostro direttore della musica, il maestro di Cappella, è il migliore d’Italia, il divino Claudio. Il duca Vincenzo ha riconosciuto il suo talento la prima volta in cui lo ha visto a Cremona, un giovane violinista” (5). La signora Adriana, citata nella lettera di Monteverdi, è Adriana Basile, cantante di grande fama già a Napoli, prima di giungere a Mantova; la lettera è del 1611, l’anno dopo, il 18 Febbraio, muore Vincenzo I°, quarto duca di Mantova, sposato in prime nozze, con un matrimonio annullato a Margherita Farnese, poi a Eleonora de’ Medici (era nato nel 1562), gli succede, per breve tempo, Francesco (nato nel 1586 e sposato a Margherita di Savoia) ma in quel tempo breve combinerà il guaio di licenziare  Monteverdi, insieme al fratello Giulio Cesare, e invano il successore, il cardinale Ferdinando (al quale è indirizzata la lettera citata) cercherà di riportare a Mantova il divino Claudio, che la Repubblica Serenissima di Venezia aveva ingaggiato come Maestro nella basilica di san Marco.

E’ grazie all’ammirazione e all’aiuto che Monteverdì avrà dal duca Vincenzo che il Maestro potrà realizzare, con agio, le sue composizioni maggiori (è un rapporto felice quello fra i due, a parte la vicenda della figlia del violinista Cattaneo, Claudia, che il duca corteggia strettamente, poi sposata da Monteverdi nel Maggio del 1599), fra i capolavori alcuni Madrigali e le due Opere Orfeo e Arianna, sulla quale il librettista, Ottavio Rinuccini, in una lettera del 1607, fa questa riflessione: “queste cose cantate sono più difficili e più belle di quello che pensa la gente: richiedono grande squisitezza di versi.” La difficoltà viene dunque sciolta nella squistezza, ossia nel modo di porgere la parola e qui la dissonanza assume un ruolo decisivo.

Monteverdi farà della dissonanza la manifestazione dinamica della sua musica, realizzando la visione platonica del concetto espresso in suono. Il pensiero che il testo esprime si deve concretizzare nell’aderenza della musica alle parole: la messa di voce (il suo aumentare o diminuire), l’esclamazione languida o spiritosa, le cascate (volatine), gli effetti espressivi del legato e il trillo (a imitazione del canto degli uccelli, come dice Caccini) e tutti gli altri elementi che vanno a costituire la Sprezzatura (andamento a tempo libero per seguire l’arsi e la tesi della musica) sono allora in funzione dell’espressione poetica e devono essere realizzati a voce “sonora” naturale, in cui cioè è operante la completa fusione dei due registri. Nel parlare modulando le sillabe, come dice Caccini, devono essere conservati gli accenti tonici e le caratteristiche delle vocali.

Il pathos garbato delle musiche di Autori quali Andrea Gabrieli, Giovanni Croce, Luca Marenzio, deriva dall’uso blando della dissonanza, “mai dura da offendere l’orecchio”, che ben si addatta ai circoli cortesi, ma Monteverdi, quando passa da Cremona a Mantova, scopre il Manierismo e con esso l’andare a fondo nelle passioni, superando gli statici schemi su cui si basa la polifonia accademica, quelli che aveva in mente il monaco Artusi quando dice che Cruda Amarilli è pieno di errori, dimostrando una visione della scrittura musicale arretrata. Le dissonanze iniziali servono per dare fin da subito il climax della composizione, mentre le ornamentazioni intensificano l’espressività, approdando a uno stile tormentato che supera di gran lunga ogni schema fisso e getta le basi  di una nuova concezione della musica a servizio della parola. La dissonanza serve appunto a creare quell’affondo altrimenti impossibile seguendo le regole tradizionali e tale affondo è guidato dal significato parole e dalla ricerca della loro comprensibilità. Per esempio, in alcuni Madrigali del Quarto Libro come Cor mio, non mori? Oppure Anima mia, perdona o ancora in Anima dolorosa non una sola parola va perduta, in Sfogava con le stelle un inferno d’amore le parole sono addirittura declamate. E’ interessante ricordare che Monteverdi utilizza la notazione comune per i Salmi, limitandosi a indicare le note dell’accordo che devono essere cantate, lasciando le durate libere, in modo che il cantante si avvicini il più possibile al parlato. Il Quinto Libro di Madrigali (che ha un grandioso successo ed è ristampato più volte), poi l’Orfeo (anch’esso ristampato nel 1615), quindi l’Arianna e, infine, il Sesto Libro (pubblicato dopo che Monteverdi aveva lasciato Mantova, ma scritto negli ultimi anni del soggiorno mantovano) dimostrano come questo affondo riesca in maniera perfetta già a Mantova, facendo di Monteverdi “il divino Claudio”. Certo gli Scherzi musicali, gli ultimi Libri di Madrigali e la musica sacra scritta a Venezia, per non parlare delle due ultime Opere per il teatro, aggiungono molte tematiche e approfondiscono i tanti aspetti della produzione monteverdiana, ma l’apice pare già raggiunto nei primi 15 anni del Seicento: per esempio l’apprendimento della tecnica legata alla pratica del basso continuo, così importante per le composizioni veneziane, risale all’epoca di Mantova, è infatti alla Corte dei Gonzaga che Lodovico Grossi da Viadana, organista della Cattedrale, sviluppa tale tecnica, descrivendola nella Prefazione del suo Primo Libro di Concerti (1602). Anche il balletto Tirsi e Cloe, pubblicato nel Settimo Libro (1619) era stato scritto per il Duca di Mantova, dove Monteverdi aveva conosciuto Giovanni Giacomo Gastoldi (allora Direttore della Cappella privata in santa Barbara) e del quale si ricorderà quando comporrà, a Venezia nel 1632, gli Scherzi musicali, dal tono leggero proprio come quello del Gastoldi. Inoltre, molta della musica sacra veneziana si avviciana allo stile profano già messo a punto a Mantova, per esempio il Mottetto Pianto della Madonna è una rivisitazione del Lamento di Arianna, oppure Laudate Dominum si basa su un gorgheggio di tipo operistico come pure Ab aeterno ordinata sum, pezzo ricco di pittoreschi effetti. Infine, nella Prefazione all’Ottavo Libro il Maestro sente il bisogno di ricorrere ancora una volta a Platone e alla sua idea di “imitazione”, ribadendo, anche a Venezia, la sua educazione formatasi dentro la cultura delle grandi Corti italiane del Cinquecento.
 
 





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