Gianfranco Pernaiachi, le profondità dell'essere
Le profondità dell’essereSembra che per Pernaiachi l’essere possa stare senza l’esserci, da questo dipende il suo distacco dal mondo (della musica).
Ho conosciuto Gianfranco Pernaiachi con un rapporto epistolare, rapporto a lui caro (rapporto demodé ma con infiniti pregi, come quello della lentezza), m ringraziò per la scheda critica che avevo scritto nel mio libro Verso il 2000, meravigliandosi che avessi centrato alcuni temi a lui cari. Da allora ci siamo incontrati diverse volte, ma meno di quanto avrei voluto, a causa della sua ritrosia al contatto umano che Gianfranco ama vivere alla lontana, inserendo fra il suo Sé e il Mondo vari filtri che lo preservono dalle banalità.
E' uno dei personaggi più profondi che abbia conosciuto, molto attento a ogni sfumatura emotiva. Fine lettore, poeta dallo scavo psicologico costante e musicista sempre più scarno, fino a giungere al silenzio, un silenzio che mi avvolge e che tiene viva la grande ammirazione e il legame con alcuni suoi tratti, che mi portano lontano (forse alle origini, forse chissà dove, verso il mistero). Purtroppo il suo isolamento crea anche a me dei problemi di comunicazione con lui, crea delle difficoltà alla sua arte (che ben altrimenti dovrebbe essere conosciuta) ed è indice di un'inquietudine non facilmente risolvibile (se non in un ritrarsi in un mondo tutto suo).
Il tema dell'infanzia è sostanziale per la musica e per la poesia di Pernaiachi (Roma 1951), sostanziale sia nel senso che è il tema decisivo per comprenderne appiano l'arte e la vita, sia perché sostanzia di contenuti profondi ogni suo gesto. L'infanzia è vista come metafora di una stagione in cui non si pensa alla morte. L'infanzia rappresenta il tempo dell'innocenza. Infanzia come paradiso perduto, che si perde vivendo. Infanzia - soprattutto - come genesi di vita, quindi anche come inizio sovrapersonale dove Uomo e Cielo, Terra e Mondo hanno un inizio contemporaneo per poi svilupparsi separatemente, dando origine da una parte all'Erlebnis e dall'altra all'Erfahrung, far dialogare queste due esperienze (come vorrebbe la teologia di Balthasar) è molto difficile: nell'articolazione che il percorso della musica di Pernaichi ha fatto si nota una prevalenza dell'esperienza vissuta, ma con le opere recenti (Abendland e soprattutto Ora) l'esperienza "oggettiva" dell'abbandonarsi alla natura (del suono o del rumore) si fa profonda.
Il nascere, l'aprirsi, il dischiudersi alla ricchezza del suono, del rumore e della silenziosità è un tema che viene sempre più in evidenza, come nelle ultime opere. La scrittura di Pernaiachi segue il filo rosso del ricordo, si apre a squarci nei quali s'inserisce il passato, un passato tanto lontano da andar ben oltre le rimembranze personali, alla ricerca di un'origine. E' una scrittura verticale, dove tempo si spazializza e procede per illuminazioni, come flussi di coscienza che si materializzano. La verticalità penetra nella sfera del tempo e va a scavare nelle torbide acque dove giace il segreto dell'infanzia, la coscienza si dilata, inglobando gli stupori della fantasia. Ogni infanzia ha dei segreti che, come tali, in parte devono essere svelati e in parte custoditi. E' col silenzio che si espia l'ipertrofia della pienezza della società degli adulti. L'infanzia è il tempo senza tempo, lo spazio senza luogo, l'eden dove non si è ancora consumata la distanza fra l'uomo e le cose, fra il gesto e il linguaggio, il suono è una sorta di realizzazione allucinata dell'allontanamento dall'essenza della vita, realizzazione che tende a sprofondare nella lingua-non-lingua originaria, quella che non si parla, ma si può solo ascoltare.
Il silenzio, come l'acqua, è l'elemento primigenio, scrive Pernaiachi, nella sua raccolta poetica Da un'altra infanzia, "nell'acqua dei tuoi silenzi", il liquido che dona vita si accoppia alla quiete dalla quale le parole e i suoni sono alla ricerca. Dal silenzio nasce il suono, che dell'involucro originario conserva la primitiva innocenza. Pernaiachi allarga il pieno che tutti noi circonda, il troppo della vita occidentale, per creare zone di silenzio, di respiro, sospensione, distanza, diminuzione, zone atte meditazione, dove il pensiero diventa eremitico. Ogni suo suono, poetico o musicale, è un sospiro e un gemito, forse un anelito al ricongiungimento alla grande Madre (che nel mito potremmo raffigurare in Afrodite, la quale non solo amò lo splendido Ares, ma anche il brutto e zoppo Efesto, a significare la complementarietà dell'ombra con la luce).
La musica di Pernaiachi è materia sublimata ed esprime un'aspirazione al trascendente, un'effondersi di un aliquid incorporeum che si risolve in un tessuto sonoro fatto di piccoli grumi. Prima dell'essere-parlante sta l'essere-infante, questa condizione va però perduta, ma permane la possibilità di ri-diventare-infanti, evenienza che cerca di recuperare il senso della meraviglia di fronte alle cose. Lo stupore produce uno smarrimento dei confini, a questo la musica di Pernaiachi tende, ripristinando immagini ancestrali, oniriche, rituali, giocando su assonanze, aloni sonori, sugli effetti della ripetizione del suono, sulla timbrica, sui tempï immoti, che diventano tempi interiori, distensio animi. Lo stupore viene così innalzato a principum stilisationis.
In questa musica s'insinuano tanti significati diversi, per certi versi inconoscibili perché vanno a nascondersi in luoghi segreti del nostro essere, e il loro compito non è quello della comunicazione ma della fascinazione. Pernaiachi dimostra una sincera disponibilità all'impermanenza, egli sta come d'autunno sugli alberi le foglie! Esprime un pensiero pudico che prova disagio nei confronti della società (senz'altro di questa società). L'"inflazione dell'io", secondo Jung, è la malattia psichica del Novecento, e, negli ultimi decenni a cavallo fra il 1900 e il 2000, tale morbo è diventato patologico e davvero drammatico, si può curare solo con una lezione di genuinità, alla ricerca di quel pudore con cui Wittgenstein esprimeva l'indicibilità del "che cosa": il significato profondo del linguaggio sta nella sospensione del discorso. Per questo è giusto lasciare solo il proprio essere, sottraendolo a dissertazioni, dialoghi o colloqui. Ciò che la coscienza chiama non è un atteggiamento o una cosa, ma l'essere stesso. Essa lo chiama a sé col carattere della cura, dell'affettività. Prendersi cura del proprio essere vuol dire anche la maniera autentica di ritornare al proprio passato, in base al precorrimento della propria morte.
La pulsione di morte si avvicina al desiderio per l'inorganico che, musicalmente, significa aspirare a un suono in statu alteritatis, ossia a un suono perennemente in bilico fra Eros e Thanatos, situato in una dimensione a-intenzionale irriducibile alla soggettività e riconducibile all'affinitas con l'oscuro e il freddo, con il mortuum del mondo minerale. Concedersi e disperdersi nella Terra (o nell'Acqua, o nel Fuoco o nell'Aria), questo il desiderio terrifico.
L'Ombra è l'Altro che alberga in me, un altro che mi appartiene ed io faccio parte a lui, divenendo poi una cosa sola in ultimo. La morte è una presenza permanente a partire dalla nascita, determina rapporti enigmatici fra vita e morte, fornisce il senso della virtualità, dell'immanenza dell'avvenire, un avvenire in cui bisogno aspettarsela. Aspettare la morte è aspettare il limite, aspettarsi di incontrare la linea estrema e di incontrare se stessi in quella demarcazione sublime. Al termine si attende se stessi, ma si è in attesa di un altro da noi, del diabulus, di colui che divide, che ci precede e ci conosce (tematica affrontata anche da Coral). Si aspetta la morte su una soglia, quale frontiera di ogni (im)possibilità.
Il tema della soglia (come anche in Coral) e della morte è fondamentale nell'arte di Pernaiachi che sembra vivere la propria morte. Come la soglia, anche la musica di Pernaiachi è a-topica, si radica nell'assenza del luogo, di fronte a questa musica la ragione è esausta e immobile, lascia spazi all'affezione del silenzio: essere affetti dal silenzio è condizione necessaria per penetrare nel cuore del suono.
Tecnicamente troviamo in alcune opere di Pernaiachi, come in Ritorni all'ombra, dei moduli ritmici e polifonici che si accavallano e creano delle nebulose sonore indefinite e sospese, la scrittura in filigrana ci racconta di un viaggio esistenziale, leggibile ovviamente con gli strumenti della psicologia e della psicanalisi, ma nel procedere erratico il suono viene conosciuto e rispettato e assaporato così come si presenta, nella sua purezza di suono grezzo, nel suo esser così. La fatica del viaggio è descritta in alcuni brani, come Realgar II, dove il nastro magnetico crea un'atmosfera tesa che oscilla fra la maestosità del dramma dello sforzo e il ripiegamento su sottili impressioni. Il tema del viaggio si sposa con quello dell'erranza tematica, miniaturizzata. L'elettronica favorisce il legame fra stati inconsci e razionalità, aiuta a entrare dentro al suono.
Solo nel silenzio si può ascoltare il respiro e proprio sulla respirazione si regola l'interprete di Abendland, una sorta di icona o un Libro d'ore all'interno del quale il respiro scandisce un tempo profondamente interiore e il suono nasce, lontano, da quelle profondità, come un "rintoccare d'un'ora fragante" (come recitano dei versi giovanili dello stesso Pernaiachi; fra l'altro, c'è da aggiungere che la partitura del brano contiene testi poetici, inseriti, prima di ognuna delle nove sezioni del lavoro, quale silente dialogo preliminare fra compositore e interprete).
Il suono di Pernaiachi incarna l'eterno femminino, ma anche il suo silenzio è femminile (secondo il filosofo Valentino, del II secolo dopo Cristo, il silenzio è femminile e con lui si può giacere). Stare coricato vicino al silenzio significa dunque sdraiarsi con la Madre o con l'Ombra o con la Morte. Dopo Abendland, quindi dopo il 1995, Pernaiachi si ritira in un parossistico colloquio con se stesso. Questioni e concetti, come suoni e pause, ci narrano e testimoniano di un'esistenza che si adagia nel segreto del silenzio. Occorre però intendere il verbo "adagiarsi" nel significato di concedersi al fatum (dei suoni), dove le parole cardini sono: assenza, ombra, dolore, arsura, tramonto, declineo, naufragio, povertà. Con l'adagiarsi prende più consistenza l'Erfahrung, la disposizione ad accogliere la Rivelazione (del suono), al di là della coscienza, della mente e del vissuto: il suono/rumore/silenzio sa dar vita a se stesso e Pernaiachi si fa vaso per ospitarlo.
Ora è davvero terrificante nel presentarci l'unione di Silenzio/Madre e di Ombra/Morte. Ora significa l'"ora" in cui si (e)leva la parola rivelatrice "ultima parola…/ la Straniera, / la Risvegliatrice" (Holderlin). Quell'istante in cui la miseria si tramuta in purezza, la ciecità in sguardo rivolto all'interno, il sonno in veglia del cuore, il tempo dell'assenza e dello smarrimento in ricongiungimento e riconoscimento, l'errore in attimo di verità. Il silenzio è lo smarrimento che conduce all'attesa, alla soglia, all'Ombra. Solo smarrendoci è possibile ritrovarci, più saggi e nudi, come dopo una catarsi. Nell'Ora la Parola/Rumore/Suono si fonda su un Mondo distrutto e su una Terra che accoglie, sull'allontanamento dall'Abisso e sulla vicinanza all'Origine. Nel baleno dell'Ora tutto è necessità.
"Di sera la luminosità del luogo sboccia e risuona d'una luce radente, Sboccia, risuona. Sboccia… e il tempo appare tempio", scrive Pernaiachi: è da notare come l'attività poetica sia a lui connaturata, per cui è assolutamente impossibile scinderla da quella musicale e, addirittura, dal suo essere uomo. Pernaiachi è uomo colto e sensibile lettore e la sua musica si può rapportare a un doppio letterario. E' una letteratura esperita che si fa poetica vissuta ed estetica pulsante, ma mette in gioco, oltre alle spinte emotive, anche un eccesso di pensiero e di cultura che sembra contraddire la ricerca di spontaneità, sollecitando una metariflessione che può allontanare dall'ascolto puro.
E' evidente una pars destruens nei confronti del Mondo (musicale) che, per contrasto, mitologizza i resti di questa distruzione, ad essi concedendosi, tematizzando intellettualmente il concedersi, senza l'ingenuità cageana, come se una riduzione estrema del Mondo (musicale) fosse, in sé, salvitica, non intravedendo i rischi che l'abbandono ai piccoli gesti, ai minuscoli rumori, ai suoni naturalistici e soprattutto al grande silenzio fa correre, sono i pericoli di un trascurabile risultato musicale (in senso stretto, appropriato e pertinente alla messa in gioco dell'opera) e di uno spostamento verso il concettuale, proprio in quanto l'opera, dal punto di vista squisitamente musicale, non si sorregge e abbisogna di appoggiarsi a un pensiero che la pensi e ne compensi il deficit tecnico.
L'arte è incanalamento dell'energia creativa, ci sono delle necessità interne, legate all'operare, ma ci sono anche delle esigenze legate all'esternare quella vitalità inventiva da cui si è partiti: Goethe pensa che ci siano leggi proprie all'opera (extra-soggettive), la quale non si articola per impulsi come un sentimento ma come una forma costruita, la perdita del (senso) del costrutto fa cadere lo statuto di arte, perché non c'è inter-esse, non avviene alcun passaggio di esperienze ma si esprime solo vaghezza umorale (come nel falso romanticismo d'accatto), il passaggio di pulsioni e di idee non può non avverire grazie a un mezzo che le comunica, la forma appunto). Queste le riflessioni che girano attorno all'opera ultima di Pernaiachi, considerazioni al limite e sul limite. Ma quale stupefatta trepidazione produce quest'arte sull'orlo dell'abisso! Un'arte che nega se stessa, nel senso che rifiuta quasi tutti i presupposti del concetto occidentale di arte, ma che resta ancorata a quel quasi. E sovviene la domanda: e poi? Ci sarà il passo che tutto fa precipitare nell'abisso? Quale disorientamento e spavento perfino!
Pernaiachi approda - non senza sconcerto, che equivale a una purificazione - a un'essenzialità austera che non lascia (s)campo ad altro che non sia cosa primaria e necessaria. Il viaggio di Pernaiachi è verso l'ignoto, simbolo di isolamento e di liberazione, separazione dai demoni che affollano la kultur e affrancazione da ogni condizionamento. Un atteggiamento del genere potrebbe, nelle sue conseguenze estreme, portare al all'uccisione dell'Opera e al suicidio dell'individuo, entrambi evitati per amore di testimonianza. La radicalità di Pernaiachi lascia davvero sgomenti: ne va ammirato l'ardire, è risoluto, con coraggio, a percorrere, fino in fondo, la discesa agli inferi del proprio Sé. Il personale mondo interiore di Pernaiachi serve a tutti, come monito, a tutti coloro che sanno ancora ascoltare l'essenza/silenzio dentro le cose e mettersi in discussione, per questo dobbiamo essergli infinitamente grati, per sperimentare lui, sulla sua pelle, ciò che ognuno di noi dovrebbe attraversare, e per comunicarci le pulsioni che scaturiscono dal percorso agli inferi.
L'Opera diventa l'Asilo, l'ultima dimora di una sorte di follia che, fra manie e frenesie, fra pulsioni e malinconie, testimonia dell'erranza di un uomo. Nell'erranza e nell'errore, come nel delirio, si elude il pricipio di realtà: Platone diceva dei "folli" che erano "abitati dal dio". Si esperimenta una temerarietà tutta ripiegata sul gesto solitario e interiore, esplosiva nella sua carica di apprensioni disperatamente creative. E' uno stato morboso, patologico, di crisi funzionale però al gesto artistico, un deliquium ossia uno stato di leggera vertigine in cui l'uomo è in ex-stasi, non sta nel suo luogo proprio, ma abita una casa sospesa. Pernaiachi si sdraia per terra: è lo sdraiarsi un gesto di umiltà e un modo per avvicinarsi allo strato più basso, e "lì", nelle profondità dell'"ora", si dispone in attesa del momento nuziale con la propria Ombra.
Ora è un'opera composta da due parti, racchiuse in due Cd che possono essere anche sovrapposti, ognuna di queste due parti e suddivisa in tre sezioni. Si avvale di una mini-partitura grafica che simboleggia le curve del suono/rumore. Tutto è fatto di un lunghissimo silenzio, interrotto da rumori lievi, come uno sgranocchiare suoni o spezzettarli, in un tramestio che ricorda la scarica elettrica o il gocciolamento. Primo Cd: un lungo silenzio all'inizio e alla fine, con nel mezzo un appena percepibile crescendo di rumori brulicanti, costituisce la prima sezione, mentre la seconda è formata come un microscopio che focalizza pochi e leggeri movimenti, tutto è minuscolo, contro il troppo e il grande. E tutto è sempre avvolto da un rombo lontano e inquietante: è il fuoco che brucia! La terza porzione è semplice silenzio, interrotto solo da una scarica nervosa.
Secondo Cd: dopo un gocciolamento si ha una sorta di movimento tellurico, dove la terribilità dell'Ombra, dell'Ospite, dell'Altro, della Morte esprime tutto il suo terrore, che si placa in un silenzio assoluto: è la quiete della riconciliazione fra il nostro Sé e la sua Ombra. La taciturnità è un atto indispensabile all'introspezione. Il lungo silenzio è quasi ipnotico e, come in certe pratiche di musiche religiose orientali, porta a perdere i confini di ciò che ci circonda per entrare in uno spazio/tempo tutto spirituale. La silenziosità collega la fine della prima parte con l'inizio della seconda, occorre una grande concentrazione per l'ascolto del silenzio (per questo è consigliabile la cuffia), rotto da un'onda sussultante che ritorna subito nell'involucro silenzioso. La terza sezione riprende deboli rumori, come uno sminuzzare e frantumare suoni, silenzi ampi come un sudario e secche scariche elettriche, fino al suono (salvitico?) di una campana/gong.
Questo drammatico compimento sembra davvero esprimere lo spirito dionisiaco che, seguendo un'idea nicciana, dava origine alla Tragedia, dove il fatum regnava perfino sugli dei, e dove l'uomo altro non era che un frammento del destino. Pernaiachi innalza il suo timele e come un auleta intona un canto fatto di rumori e di nulla. E' un tappeto di preghiera (diverso e simile, a un tempo, da quello di Cisternino). Si rinuncia al Mondo per incamminarsi in direzione della Terra e del Cielo, verso le proprie radici e verso le origini dei Padri, ma non è una rinuncia assoluta (ideologica), perché il rumore riconduce sempre al Mondo. Come Evangelisti, Pernaiachi rinuncia al concetto di musica formalistica e di scrittura speculativa, così come si è consolidato attraverso un accumulo abnorme di incrostazioni culturali, ma non ammutolisce, torna indietro fino ai limiti del completo tacere, ma su quei limiti si ferma per ascoltare il Rumore/Soffio vitale della Natura: Natura contra Cultura? Pernaiachi ci salva da questa cultura.
In un vecchio articolo, comparso nel 1966, sulla Rivista bolognese "Lo spettatore musicale", Guido Turchi, in un'intervista concessa a Pironti, accenna alla problematica del silenzio, con argomentazioni certo ancora valide: "il silenzio come fatto individuale, ossia fatto privato, non interessa nessuno. Se invece si vuol attribuire al fatto individuale un significato che trascenda il soggetto, allora è più giusto chiedersi se piuttosto è la musica odierna che tende allo stato di silenzio. Mi pare di aver capito che questa è la questione di fondo a cui ha alluso Evangelisti. Francamente non riesco a ravvisare questo destino della musica verso il silenzio, anzi, se volgo lo sguardo al panorama della produzione musicale è quanto di meno indiziario si possa avere agli effetti di questo presunto destino. Semmai forse è più esatto parlare di musica che tende alla non-musica (e qui, ancora una volta, torna a galla la citatissima previsione hegeliana)". Molte le analogie con quello che si potrebbe dire dell'ultima composizione di Pernaiachi che com-pone elementi di non-musica, senz'altro in una personalissima riduzione del concetto di musica, (f)atto che riguarda il cosmo espressivo di Pernaiachi e non l'ambiente della composizione che, come negli anni Sessanta (quando al silenzio totale approdò Evangelisti) continua e interessarsi al silenzio, ma in tutt'altra direzione, con altri intendimenti e con differenti finalità. In fondo è da Webern (per non parlare dei molti precedenti romantici) che il mondo della composizione metabolizza il silenzio, ma sempre inserito in un universo di suoni (spesso funzionale alle disposizioni dei suoni).
Anche in esperienze al limite, come quella filosofica di Nono e quella cosmogonica di Scelsi, è il suono nascente e il suono del cosmo che tiene il tutto, che esce dal silenzio per porgersi a un ascolto minimale, ma pur sempre musicale (nell'accezione più ampia e profonda del termine). Ed è così anche per i silenzi di Cage e di Feldman. Il silenzio di Ora è diverso, non è l'involucro esistenziale da cui sporge il suono, è suono esso stesso, ovvero il suono/rumore/silenzio sono la stessa cosa, perché il silenzio è l'anima stessa della vibrazione, ne è il suo fondamento e la sua entità, quindi nel suono/rumore va ascoltato il silenzio.
Pernaiachi abbandona perfino il suono singolo non strutturato, perché entità semplice ma complessa a un tempo, sulla quale, negli ultimi decenni, si sono concentrate teorie e prassi, il sacrificio del suono avviene in nome di un qualcosa di primordiale che sta ancora prima, il Rumore: si vuole allora fare a meno di ogni riferimento teoretico, tecnico di scrittura e di estetica, in Ora vale solo la poetica. Il valore poietico del fare è legato e guidato unicamente dalla pulsione interiore. Il rumore e solo il rumore, insieme al silenzio, può condurre l'operare ai suoi minimi termini, oltre i quali è dato solo il tacere definitivo, che va però evitato perché è atto etico di grande forza, ma "solo" inerente all'uomo-in-quanto-uomo e non all'uomo-in-quanto-artista, è un'azione che riguarda ovviamente l'operare, però non interagisce con l'arte e la poetica che hanno, comunque, bisogno di un gesto intenzionale al loro essere per manifestarsi.
Si rimane al di qua della tecnica, anche nelle sue forme più elementari, e scompare la figura dell'esecutore, non si tratta tanto di realizzare l'unione delle due funzioni relative alla composizione e all'esecuzione, quanto di un oltrepassamento del concetto stesso di interpretazione, perché è l'Opera che interpreta se stessa attraverso l'azione del "compositore" ch'è solo un medium, Scelsi direbbe un "postino", fra il fatum è la cristallizzazione di una particella che (ac)ccade. In tal senso il "compositore" non è più il centro propulsivo, ma l'asse è l'Opera stessa che fa apparire il "compositore" come Altro: egli è l'Ombra, è l'Ospite dell'Opera.
L'azione di Pernaiachi è passiva, si lascia permeare da una volontà inconscia, senza essere rinunciataria nel senso di un totale abbandono agli avvenimenti, c'è, infatti, non un progetto forte ma un'idea generale dell'Opera che indirizza, prepara gli elementi, inserisce il lievito per far fermentare il rumore/suono nel silenzio: La stessa taciturnità non è né astratta né ideale né metafisica, è la silenziosità di un'anima in raccoglimento, un silenzio umano. Con Ora ci si avvicina a quei misteriosi momenti a noi non conosciuti che l'Io rifiuta e che costituiscono il substrato del Sé. Con gestualità lieve si evoca dal silenzio l'Ospite nascosto in noi. Il gesto di Pernaiachi è sospeso in stille.
Nessuno avrebbe realizzato un lavoro come questo se non spinto da un'incontenibile necessità interiore. Beati i poveri di spirito, sono persone che vivono nella verità, non in quella assoluta e cosmica, non in quella rivelata, ma in quella piccolissima però autentica dell'uomo inquieto, sempre in viaggio, sospeso fra esodo e avvento. Esodo dall'io per porsi in attesa dell'avvento del suono. Più l'io si riduce e più fa spazio all'(ac)cadere del suono. E', quella di Pernaiachi, una disposizione di spirito francescana che si purifica riducendo, togliendosi da ogni mondanità per distendersi sul pavimento, quale luogo più basso possibile. Ogni grande fiume è grande perché sta più sotto rispetto ai ruscelli.
E' davvero un (f)atto coraggioso quello di realizzare il doppio Cd di Ora, sta al di qua di ogni dibattito sull'attuale stato della musica contemporanea, italiana e internazionale, si pone su un piano profondamente diverso, perché Pernaiachi riesce a raggiungere una purezza originaria, intimamente sofferta, che rimpicciolisce le cose e le porta verso la loro nascita, verso l'incontaminato esserci, è per questo che il rumore prende il posto del suono. Nel contesto del puro esistere è inutile distinguere il suono dal rumore, tutto è vibrazione, come l'energia nervosa, tutto scorre come sangue nelle vene, tutto batte come cuore in petto: lo scricchiolare di legnetti o i fremiti dell'elettronica portano verso un primitivismo che non ha nulla di naif, ma scaturisce da una consapevole liberazione da ogni condizionamento estetico, teoretico, formale, linguistico e tecnico, una presa di distanza non solo da ciò che interessa alla contemporanea colta, ma dall'intera storia (della musica) occidentale.
E' lontano da tutto, dal troppo della nostra (in)civiltà, dal pieno di presenze frettolose, va verso il vuoto, vuoto come un vaso che raccoglie lo sciacquio di una pioggia che pulisce dentro. E' arte povera, poverissima, dove il suono/rumore è il saio che riveste un spaurito corpo che si muove a piccoli gesti, la tonaca sonora è anche tappeto da preghiera e diverrà sudario in ultimo. Non sgomenti il rapporto con la morte, ognuno di noi sa che deve incontrarla: noi l'aspettiamo e lei aspetta noi, in un ingresso al quale non si può accedere, insuperabile, ma che pure dovremmo oltrepassare. Pernaiachi aspetta, e nell'attesa si concede ai suoni/rumori che lo conducono alla soglia insuperabile sulla quale si trova la verità e in fine la morte, forse dio (la parola verità - aletheia - indica il vagabondare di dio). Sono, forse, questi rumori, che casualmente ascoltiamo in scoppiettii e ronzii, le parole di un dio minore che tenta di dirci il senso della vita?
Ora come attimo, come momento esistenziale, come resoconto di ciò ch'è adesso e oggi quest'uomo. Essere qui e ora, ma anche cosa può succedere da ora in poi. Cosa ci mostrerà, fra breve, o cosa potrà rivelare ulteriormente quest'uomo? Nessuno lo sa, solo il suono conosce il destino. Con lentezza indugiamo, sostiamo sulla soglia, fermandoci ai limiti delle terre fertili, per sopravvivere, fra Terra e Cielo accogliendo ciò che il Fatum ci regala. Abbandonarsi fra le braccia del Caso o del Caos significa due cose: assumere su di sé la coscienza tragica del Mondo disponendosi all'impermanenza e accingersi, con remissività, a ritornare a Casa, perché il viaggio si svolge intorno a una spirale che ha come centro la sua propria dimora, è un viaggio esperiente che si arricchisce di pulsazioni e turbamenti, di mormorii e fruscii, di fremiti e commozioni; è un errare che va e più va e più (ri)entra in Sé. Dove, dunque, ci porta Ora? A Casa, in quel pozzo senza fine e imperscrutabile che neanche l'Ospite conosce bene. Pernaiachi è solo un Ospite di questa Casa, vi vive come un'Ombra. E' il suono/rumore la Casa, qui e ora abitiamo anche noi che ascoltiamo, adagiandoci all'ascolto di una vibrante verità.
Nel volume L'arte innocente, Pierluigi Basso (che inizia cone questa dedica: "A Renzo / ai suoi manti sereni / che rivestono / l'ascolto / d'altri noi") scrive che in Pernaischi c'è una costante "tensione verso una purificazione. L'essenzialità richiesta alle forme è il terreno su cui può meglio crescere l'interrogazione di un'alterità irriducibile, di un incontro con l'ombra". Fiorella Sassanelli svolge questa riflessione: "Se la globalizzazione altro non è che un'intensificazione del dominio della velocità /.../ la musica di Pernaiachi valorizza la sosta, il lento costruirsi di una sua intimità, mette la punteggiatura ai giorni, fa assaggiare l'aria con il naso e con la pelle". Paola Ciarlantini scrive un sentito e quasi commosso resoconto del suo incontro umano e musicale con Pernaiachi, anche in forma epistolare: "Autore e ascoltatore s'incontrano in itinere. Lui lo permette e lo desidera, la sua musica è un invito, un abbraccio. Ma non ruffiano. Non ti chiede consenso. Ti chiede, per ascoltarlo, di fermarti. /.../ La sua musica è innegabilmente il risultato di un progressivo processo di sottrazione. /.../ C'è in essa una valenza psicanalitica latente: è come se liberasse il rimosso nascosto in ognuno di noi, ci costringesse a buttare lo specchio e a toccarci il viso, finalmente vivi e presenti a noi stessi, in totale Verità e pacificati". La Ciarlantini conclude il suo toccante scritto con l'invito rivolto a Pernaiachi di non lasciarsi troppo risucchiare nel guscio del suo mondo, è un mondo infinito per cui ci si può star larghi ma è un mondo a parte, molto autoprotettivo: "Sarei felice se volesse tornare al clamore del Mondo, raccontandosi e aiutando gli altri musicisti a essere consapevoli di Sé, in un momento così difficle per l'Arte", ma questo Gianfranco non potrà mai farlo, neanche se facesse uno sforzo per farlo (cosa che comunque non farà) perché è la sua stessa natura, la sua psiche malata di solipsismo che glielo impedisce, bisogna, noi del Mondo che sta fuori al suo infinito interiore, accontentarsi di cogliere i frutti di quell'albero, rari frutti agrodolci, di quel solo e isolato albero che si chiama Gianfranco Pernaiachi.
Da Renzo Cresti, L'arte innocente, con Cdrom, Rugginenti, Milano 2004 e da Linguaggio musicale di Gianfranco Pernaiachi, Miano, Milano 1995.
Indice del libro Linguaggio musicale di Gianfranco Pernaiachi
Prefazione
L'esigenza poetica ricercata nella metafora dell'infanzia
Figure di un pensiero musicale
Spiritualità dell'opera alle soglie del Duemila
Note biografiche
Catalogo delle opere
Scritti di e su Pernaiachi
Bibliografia
Da un Colloquio
La solitudine è immensa,
che pace illumina le cose!
Come si respira liberamente!
Quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi.
/.../ Ricerca di tutto ciò che l'esistenza
ha di estraneo e problematico.
che pace illumina le cose!
Come si respira liberamente!
Quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi.
/.../ Ricerca di tutto ciò che l'esistenza
ha di estraneo e problematico.
(F. Nietzsche, Ecce Homo)
La solitudine ha il potere di rompere il tempo, di liberare l'unità primigenia. Solo sulle rovine di un'opera dalla quale si è distolta l'attenzione, sulla solitudine di quest'opera, si costruisce davvero l'opera. La solitudine di Pernaiachi è estrema, come se ci fosse una solitudine più sola, rinserrata nel cuore stesso della solitudine. Solitudine della parola prima della parola. Solitudine del suono prima del suono. Solutudine del silenzio prima del silenzio. La solitudine crea. La solitudine è sovversiva.
Nella purezza del suono grezzo v'è una solitudine profonda, nulla vi è di attuale, il presente è inabissato, è l'ora dell'eterno passato e dell'eterno futuro. Il futuro altro non è che il ripresentarsi delle medesime cose in vesti differenti. Il suono poetico c'insegna la grande lezione dell'eterno ritorno.
L'ora del suono petico è la mezzanotte, quando si gettano i dadi e il caso regna sovrano. Il suono non va a caso, nè lo combatte, abita l'intimità del caso o della necessità, ch'è lo stesso. Abitare il fato significa rispettare la trascendenza, restando fedele alla morte. Il suono poetico è in grado di rovesciare l'invisibile del caso e della morte nel visibile dell'esserci, un essere che cammina a ritroso verso se stesso.
Pernaiachi s'impone il silenzio che crea un mondo senza tempo, dove lo spazio è la vertigine delle lontananze. E' l'ambiente indeterminato della fascinazione. Un ambiente attraente e assoluto. Chi è affascinato non vede propriamente ciò che vede ma ne è toccato in una vicinanza immediata, afferrato e conquistato.
Quale sguardo ha Pernaiachi? Quello della sua opera. Quale morte lo attende? Quella che lo spia dall'ultima pagina del suo ultimo libro, quella che si nasconde nell'ultimo grappolo di note scritte.
Si crede di sognare l'opera invece si è sognati da lei. E il sogno che cos'è se non la scrittura cancellata, di un'opera che si va scrivendo proprio nel suo cancellarsi? Il sogno è l'assente dell'opera, questo sa bene Pernaiachi che scrive lungo i confini dell'essere.
Renzo Cresti, Da un colloquio, in "Aperto", rivista supplemento del Qui, Ravenna, gennaio 1997.
A Paola Ciarlantini
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