Firenze e i suoi compositori (in ordine cronologico) Prosperi, Benvenuti, Zangelmi, Bussotti, Renosto, De Angelis, Giani Luporini, Gottardo, Deri, Boncompagni, Anichini
Firenze e i suoi compositoriFirenze è la mia città, le devo il senso della bellezza e delle proporzioni, il carattere petroso e un po' irascibile, le devo un amore sconfinato per sue pietre e per le colline mirifiche che la circondano (e dove ho abitato per anni, prima di trasferirmi su altre colline, quelle che guardano Lucca). Non le devo gli studi, se si eccettua un periodo di studi giovanili di chitarra classica e di contrabbasso (al "Cherubini"), studi realizzati a Bologna, né le devo il lavoro, svolto, da quando avevo 28 anni a oggi, al "Boccherini" di Lucca (del quale, il 1 giugno 2006, ne sono diventato il Direttore). Firenze ha una discreta attività relativa alla cultura tradizionale, grandi Mostre, una buona stagione teatrale e concerti di qualità, molto meno è Città interessante per la musica contemporanea. Negli anni Settanta il "Musicus Concentus" basava la sua programmazione sulla musica d'oggi, poi è rimasto solo il "G.A.M.O.", di cui ho fatto parte per diversi anni, tenendo anche il Corso sull'Estetica della musica contemporanea. Il resto è poca cosa e soprattutto estemporanea, ossia manca nel capoluogo toscano una vera progettualità sulla musica contemporanea (non che esita nelle altre città toscane, ma che non vi sia in un centro internazionale come Firenze mi pare cosa grave).
Dai 12 anni ai 20 ho seguito tutto quello che si poteva seguire, dai concerti e le opere al Teatro Comunale ai recital della Pergola etc., assimilando tanta musica classica. Non avendo il gusto della ripetizione (anzi la solita musica mi innervosisce), non ho poi continuato ad ascoltare la ennesima Opera di Verdi o Puccini o Sinfonia di Beethoven o pezzo pianistico, da alcuni anni ascolto il repertorio solo in casi rari, quando un'interpretazione veramente particolare può illuminare il pezzo sotto una luce un po' diversa. A Bologna (con Rognoni, Bortolotto, Donatoni e Clementi), a Milano (con i musicisti della scuderia Suvini Zerboni e Rugginenti), a Roma (con i musicisti che ruotavano attorno alle Edizioni Edipan), a Venezia (con la Biennale) e Torino (con "Antidogma musica"), poi a Napoli (con le Edizoni di Flavio Pagano) e in altre città (la Macerata di Nuova Musica, per esempio, con Mencherini e Scodanibbio) mi sono fatto le ossa, ma alcuni musicisti fiorentini o che a Firenze hanno lavorato devo molto: ai chitarristi, io che ho studiato chitarra, Alvaro Company e Vincenzo Saldarelli su tutti, quindi i compositori, come quelli citati in questa scheda critica: l'allora giovane Sylvano Bussotti che ho visto suonare, relazionare in conferenze personalissime e del quale molta musica ho ascoltato; Arrigo Benvenuti al quale ero legato da una virile amicizia; Carlo Prosperi troppo precocemente scomparso; i più giovani e miei coetani. Nel 2003 ho lavorato, assieme a Eleonora Negri, al volume, edito da Gherardo Lazzeri, che ricostruisce, con molte testimonianze, il mondo della musica contemporanea fiorentina dal dopoguerra a oggi (vedi file Firenze città del Moderno), un'esperienza felice da cui è uscita un'opera importante che costituisce la base di ogni futuro lavoro sulla musica a Firenze (un bel lavoro grazie agli amici e collaboratori Chiara Calabrese, Monica Cioci, Carlo Deri, Angelica Ditaranto e Carmelo Mezzasalma).
Uno sguardo storico
Nel 1954 si costituisce un'Associazione di musicisti, un gruppo che si forma con l'unico intento di conoscere e approfondire la musica contemporanea, di coltivare gli interessi e cementare l'amicizia tramite un reciproco e franco scambio di idee, sotto l'egida morale oltreché musicale di Luigi Dallapiccola, insegnante al Conservatorio fiorentino e punto di riferimento di tutti i giovani compositori: tale congrega artistica prende nome di "Schola fiorentina", anche se della scuola, intesa come disciplina didattica, non ha nulla, il termine va inteso come aggregazione di musicisti che vogliono praticare un libero esercizio culturale, peripatetico. Questo sodalizio artistico si compone da Carlo Prosperi, Arrigo Benvenuti, Bruno Bartolozzi, Alvaro Company, Reginald Smith Brindle e dall'allora giovane Silvano Bussotti (si firmava ancora con la "i").
Lo stare insieme, il frequentarsi, permette una maggiore informazione, per esempio a Firenze, durante gli anni Cinquanta, della musica che si compone nel resto del mondo arriva solo una pallida eco e dei Corsi di Darmstadt non si sa nulla (il primo fiorentino a recarsi nella cittadina tedesca è Bussotti). Spesso i musicisti, qualche volta anche Dallapiccola, si riuniscono in casa Company, perché è l'unico del gruppo a possedere un registratore e quindi a poter registrare quei pochi brani di musica contemporanea che la radio manda in onda. In questo contesto è evidente il bisogno, avvertito dai giovani culturalmente più svegli, di una maggiore informazione. Ancora negli anni Sessanta, il critico de "La Nazione", seguito da molti insegnanti del Conservatorio, chiamava la musica di Schoenberg "cacofonia" (sic!), ricordiamocelo per evitare comodi trasformismi.
La scuola chitarristica di Alvaro Company produce molti ottimi allievi, fra cui Frosali, Borghese e Saldarelli (e il più giovane Nuccio D'Angelo, fra i tanti), quesi tutti gli interpreti sono anche compositori, realizzando non solo novità tecniche ma delle vere opere di qualità musicale. La chitarra e il pianoforte sono due strumenti particolarmente frequentati a Firenze.
Un settore stilistico particolare, d'impronta post-cageana, è particolarmente presente a Firenze, dove lavora Giuseppe Chiari, esponente del Fluxus europeo, ma anche Sylvano Bussotti, Giancarlo Cardini e Daniele Lombardi, pur nelle loro specifiche produzioni, hanno aderito a una musica gestuale, aleatoria e comportamentale, realizzando performance e happening inusuali. Scrivendo anche libri di arte concettuale, come nel caso di Chiari.
Anche la musica elettronica vede a Firenze uno sviluppo in anticipo con i tempi, grazie all'attività di Pietro Grossi che apre la prima cattedra di Musica elettronica al Conservatorio "Cherubini", lavorando altresì al CNR di Pisa.
Gli anni Sessanta si presentano un po' più ricchi di attività rispetto al decennio precedente, nel 1961 si costituisce la Casa Editrice Bruzzichelli, diretta da Arrigo Benvenuti, edizioni che svolgono un lavoro di promozione stampando molta musica degli Autori fiorentini e romani, collaborando con la neo nata Associazione Nuova Consonanza. Si costituisce anche la Rassegna musicale di Pietro Grossi, Vita musicale contemporanea, che programma piccole ma sostanziose manifestazioni, dove vengono eseguiti brani di importanti compositori, come Cage, Stockhausen, Carter, Boulez e molti altri, fra cui tanti italiani come Maderna, Nono, Berio, Donatoni, Clementi, Chiari, Giani Luporini etc., allora pressoché sconosciuti nell'ambito cittadino.
Il 1964 è l'anno del Maggio dedicato all'Espressionismo, un vero e proprio evento, tant'è che, ancora oggi, lo si cita come un fatto eccezionale. Comunque la monografia sugli Autori espressionistici, non impedisce a Dallapiccola e ad altri musicisti, di scendere giustamente in polemica con la gestione del Teatro Comunale e delle altre Istituzioni cittadine che continuano a ignorare la musica contemporanea, ignorando anche il fatto che a Firenze vivono compositori di prim'ordine.
La figura di Roberto Lupi, insegnante di composizione al Cherubini, è un altro punto di riferimento tecnico e culturale. Lupi aveva messo a punto, fin dal 1946, la sua Armonia gravitazionale, un lavoro che specula sui suoni armonici e che Casella aveva considerato "veramente valido", lavoro che costituirà uno spunto di riflessione, anche spiritualistica, per musicisti come Zangelmi, Bussotti, Giani Luporini e altri. Lupi morirà nel 1971, alla cattedra di alta composizione gli succederà Prosperi.
I compositori (in ordine cronologico)
Carlo Prosperi
Diatonismo e pluriserialità
Ho conosciuto il Maestro (Firenze 1921-1990) purtroppo solo poco prima che morisse, anche se la sua musica, ovviamente, l'avevo ascoltata in molte occasioni. Lo incontrai per discutere sul libro che avevo in mente di realizzare su di lui e che poi uscì postumo. L'aspetto che più mi colpì in quegli incontri fu la dedizione alla musica, la sincerità d'animo e la modestia di questo uomo semplice e di questo grande musicista, doti rare nel sussiegoso panorama della musica contemporanea. Prosperi instaurava un suo personale dialogo con i suoni, quel dialogo che ricercava anche col pubblico, con tenera naturalezza.
Il recupero di stilemi e forme classicheggianti, le predilezioni bartokiane, la grande attenzione alla timbrica e la disciplina seriale/diatonica, vanno a confluire in un costrutto singolare, realizzando una dialettica fra romanticismo e classicismo, la stessa serialità, prassi fondamentale di molte partiture, viene utilizzata in maniera originale, utilizzata appunto, come mezzo e non come fine, ridotta a tecnica e non intesa come sistema. Il suono di Prosperi non si pone in una dimensione acustica, neanche viene inteso come Urton, la sua musica è sempre discorso, per cui l'immedesimarsi dell'esigenza interiore nell'attimo sonoro si dipana in una continuità discorsiva. Si tratta dunque più che di un puntillismo di tipo weberniano, di un divisionismo di stile narrativo. Prosperi riprende da Webern la grande attenzione al timbro e alla dinamica, ma se Webern è stato paragonato a Mondrian, Prosperi può essere raffrontato a un pointillisme alla Seurat e alla Signac, dove la scomposizione del colore o della linea nn fa mai perdere di vista il segno plastico.
La musica delle 12 note viene intesa come amplificatio dello spazio diatonico. L'utilizzazione di più serie contemporaneamente è una via di uscita alle strettoie dell'idea unificatrice, in quanto permette di poter scegliere i suoni necessari al dispiegarsi del fraseggio, che deve svolgersi in totale libertà. L'incanto del suono è pienamente realizzato In nocte secunda, in Costellazioni e nel bellissimo Concerto dell'arcobaleno.
Da Renzo Cresti, Carlo Prosperi, GIMC, Firenze 1993.
Indice del libro
Introduzione di Piero Bellugi
Carlo Prosperi e l'ambiente musicale fiorentino
Poesia e impegno civile
Prosperi e l'estetica del De Sanctis
Il linguaggio compositivo
Le opere giovanili
Maturità artistica
L'incanto del suono
L'ultima produzione
Catalogo delle opere
Discorafia
Scritti di e su Prosperi
http://www.carloprosperi.it/
http://www.musica.san.beniculturali.it/web/musica/protagonisti/scheda-protagonista?p_p_id=56_INSTANCE_5yY0&articleId=13850&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&groupId=10206&viewMode=normal&tag=tag_personaggio
**************************************************************************************************************************
Arrigo Benvenuti
Vena scapigliata
Benvenuti (Pistoia 1925 - Firenze 1992) aveva una vena scapigliata che lo rendeva vivo e autentico, una vena che trasportava anche in musica. L'ho frequentato per molti anni - gli anni Ottanta quando ci vedevamo spesso a Firenze, a casa mia e a casa sua, con Liliana Poli, sua moglie - ho studiato insieme a lui la sua musica, in occasione della realizzazione della realizzazione della sua opera Night Club e del conseguente Cd, con le mie note di copertina (da cui sono tratti queste righe). Aveva quello che Nietzsche chiama "tre dosi di intelligenza e una di lasciar perdere" ovvero possedeva un'ironia allegra e perfino un po' scanzonata che rendeva l'uomo molto simpatico e la musica originale.
Benvenuti riprende da Luigi Dallapiccola il gusto per l'elaborazione contrappuntistica, il modus componendi basato sull'indagine e sulla ricerca, rigoroso ma disposto ad aprirsi a momenti lirici o a coagularsi in aspetti drammatici, sempre con una clarté di scrittura che proviene a Benvenuti dalla cultura francese assimilata in gioventù. La concezione della musica come ricerca non significa per Benvenuti chiusura strutturalistica, ma regola formante che ha la funzione di disciplina intellettuale, purificatrice, equilibratrice, tante che l'adozione del metodo seriale è un'accoglienza travagliata e, dal 1955, messa in discussione.
Nel 1959 compone l'opera multimediale In-contro. Mentre per tutti gli anni Sessanta è impegnato in un'azione scenica La bottega delle idee e in pezzi cameristici, dove la complementarietà o conflittualità (a secondo dei casi) di alea e di progetto razionalmente compiuto, tendono ad articolare plasticamente lo specifico linguistico, realizzando una drammatizzazione di pensieri. La ricerca di Benvenuti s'incentra sul trovare modalità coagulanti che ordinino la molteplicità. L'amore per la vocalità è determinato dalla presenza di una cantante del calibro di Liliana Poli, sua moglie. Night club è stata scritta fra il 1979 e l'81, andata in scena nell'86, si tratta di un'opera "socchiusa" come dice il sottotitolo, evidenziando la dialettica fra chiusura umanistica e apertura anarcoide: unità, totalità, omogeneità da una parte e pluralità, frazionamento, eterogeneità dall'altra. L'opera è suddivisa in 7 Azioni che, attraverso metafore varie, alludono al pensiero e alla vita di Benvenuti.
La produzione di Benvenuti è percorsa da eventi fonici disparati e da aspetti libertari, da una vena anarcoide e scapigliata, da un'ironia corrosiva, ma tutto questo non intralcia né la compattezza dell'opera né il suo valore comunicativo, a volte affermato con tenerezza commovente. Movenze svagate e disinvolte sono un tratto tipico della personalità di Benvenuti, una dote caratteriale che consente spigliatezza e naturalezza, come appunto dice Nietzsche: "tre dosi di intelligenza e una di lasciar perdere!"
Dalle note di copertina di Renzo Cresti al Compact-disc con musica di Arrigo Benvenuti Nigth Club, GAMO- Diapason, Firenze 1986.
http://www.youtube.com/watch?v=v5MqkmeC-Kc
**************************************************************************************************************************
Piero Luigi Zangelmi
Eleganza sonora
Con il Maestro (Torino 1927 - Ameglia 2004) ho collaborato per molti anni, prima con l'Associazione spezzina "Musica Futura", poi con la Federazione Italiana Compositori (di cui è stato Presidente), avendo anche l'opportunità di studiare a fondo la sua musica e la sua originale poetica, stilando la presentazione a un suo libro. La raffinatezza del tratto gli derivava senz'altro da una squisita educazione sentimentale, che tanto ricorda gli ambienti descritti da Flaubert o da Proust, quel mondo francese fra Otto e Novecento che entrerà anche nella sua musica (con influenze da Fauré a Ravel). I suoi eleganti e psicologicamente aggrovigliati accordi sonori sono lo specchio diretto della sua anima, lo ringrazio per avermeli dissipati. La sua recente morte è stata una grave perdita per chi crede che la musica debba essere un fatto umano e non solo formale.
Gli anni Novanta hanno riscoperto un nuovo incanto del Suono, l'estro e l'inventiva, la musicalità, mentre i decenni passati sono stati gli anni del disincanto, dell'in-canto tradito. Oggi molti compositori scrivono bene, mettono giù le note con tratto impeccabile, that works, che funziona, un tratto insegnato nei vari corsi di creative writing. Manca però, troppo spesso, quella stranezza che introduce ai temi dell'arte, manca un tocco di bizzarria e di magia, di exultatio. Cosa grave è che spesso sono assenti pure i bisogni interiori, quelli sentiti come necessità interna del vissuto, la sola che può vivificare lo stile musicale.
Occorre, come fa Zangelmi, andare al di là del professionismo, darlo per scontato, per approdare nelle terre dell'arte, che sono particolari e di confine, dove per doti naturali, per grazia ricevuta, si respira musica!
Zangelmi, torinese, mantiene con la sua città un legame stretto attraverso la concezione del suono francesizzante, ma ha anche contatti con l'ambiente fiorentino, ha infatti insegnato per molti anni al Conservatorio "Cherubini". Il modo di comporre di Zangelmi ha un'origine lontana, già all'età di dodici anni scriveva, per esempio, accordi che si dilatano e si racchiudono, seguendo figurazioni paraboliche, accordi che diverranno tipici della scrittura del Maestro.
Zangelmi ha compiuto l'evoluzione tipica dei compositori della sua generazione, ha iniziato facendo apprendistato tonale, avvicinandosi poi a uno stile di tipo bartokiano, per approdare alla dodecafonia che non ha mai applicato in maniera rigida. L'istinto, come lui stesso dice, gli ha indicato stilemi cadenzali essenzialmente basati su successioni cromatiche discendenti, inquadrati in una forma ritrovata, fatta di limpidi contorni, di nettezza delle linee e di disposizioni simmetriche, questa forma, fatta di raffinati equilibri, si fa viatico verso la comunicazione diretta col pubblico. Zangelmi si richiama a sapori tonaleggianti, ma non rigidamente inquadrati nell'impalcatura tradizionale.
L'ascoltatore, quando gli si presenta una testimonianza vera, di un'arte vissuta che si manifesta con semplicità, sa apprezzarla e sa collegarsi con l'opera, allora avviene quel miracolo, così raro ai tempi nostri, dello scambio emozionale dei flussi di energie. L'artista deve concedersi tutto, e non solo con la testa, l'opera non deve parlare solo sul come su com'è realizzata, ma anche del cosa del suo motivo, della sua finalità espressiva. Un'opera ben strutturata, ma senza motivazioni interiori, risulta essere solo un esercizio calligrafico.
Il Maestro torinese, come la sua città, guarda alla cultura francese, in un certa misura la signorilità del fare, la raffinatezza della scrittura, la chiarezza del linguaggio derivano dall'elegante clarté degli artisti di Francia, così come il trepido allontanarsi del tempo, le storie interiorizzate, il senso di stupore, a volte velatamene melanconico, provengono dal Crepuscolarismo e costituiscono delle costanti espressive. La memoria e l'inconscio sono le fonti d'ispirazione dalle quali prende vita un embrione sonoro, un suono intuito – ciò che Zangelmi chiamo "il suono blu", dal colore onirico – che costituisce una sorta di DNA della composizione che quel suono fa lievitare e sviluppandosi da' la forma al brano. Gli atteggiamenti espressivi tratti da epoche storiche costituiscono - proustianamente – un modus vivendi, e vengono assimilati e attualizzati attraverso la coscienza vigile del proprio tempo.
Le caratteristiche salienti del linguaggio del Maestro quali l'accordo allargato e sospeso, gli incisi interni, i sapori tonali e i richiami al passato, le progressioni variate e i ritorni a specchio, vengono esaltate dalla metà degli anni Settanta in avanti. Il pianoforte è lo strumento prediletto da Zangelmi, nel quale riscontra la possibilità di realizzare quelle sensazione di spazialità sonora ch'è tipica delle sue risonanze, specialmente quando derivano da agglomerazioni dilatate, infatti l'accordo spaziato è un tratto tipicissimo della scrittura di Zangelmi: l'accordo viene spazializzato per meglio coprire l'ambito sonoro, però assolvere anche a una funzione timbrica, creando quella tipica atmosfera lacustre, dai toni perlacei, che esprime la tenue elegia del mondo sonoro di Zangelmi. Si ascolti il cilco delle sette Sonate o i brani Souvenances de ma vie e Il quaderno di Chiara (entrambi del 1999).
Zangelmi ha continuato a scrivere anche in questi ultimi anni, realizzando composizioni da camera come Tre liriche da "neppure l'arena" (1996) e Verso il silenzio per pianoforte e quartetto d'archi (1996), molta musica con voce e le opere teatrali Dammi la luna (1995) e Imitazione di una vita (1985-1999) che proseguono con sapienza e delicata partecipazione la linea teatrale inaugurata nel 1971 con I vestiti nuovi dell'imperatore e proseguita poi con Favola (1983), Il castello nero nero (1987) e La soffitta incantata (1991), lavori dove la calibratura delle sonorità si accoppia a un sentimento nostalgico del passato, facendo convivere uno stile asciutto con una profonda allusività. L'orchestrazione è generalmente sottile, ma sa accendersi a momenti di fuoco. L'armonia tonaleggiante crea tensioni agro-dolci che sorreggono un canto intenso a palpitante.
Da segnalare che la pianista Angelica Ditaranto, nel febbraio del 2005, ha sostenuto una tesi di laurea, presso l'Università di Pisa, relatore Francesco Giuntini, co-relatore Renzo Cresti, sulla poetica e sulla musica di Piero Luigi Zangelmi, con particolare riguardo alla produzione pianistica.
Da Inconscio, memoria e forma istintuale, Prefazione di Renzo Cresti al libro di Piero Luigi Zangelmi, Il mio 'suono blu', nella Collana "Linguaggi della musica contemporanea" diretta da Renzo Cresti, Miano, Milano 1993.
http://www.orfeonellarete.it/recensioni/cd.php/idcd=00189
***************************************************************************************************************************
Sylvano Bussotti
Un mistero per l'occhio
Ricordo una volta, era il 1991, che avevo organizzato una cena a casa mia con il Maestro (Firenze 1931) e gli esecutori dell'opera Nympheo (c'erano Ben Omar, Castellano, Fabbriciani, Vismara, Scodanibbio e altri) che era stata appena registrata a Firenze (uscì un Cd della Ricordi): avevo mandato un invito agli amici con un'immagine buffa di Topolino, Bussotti, senza saper niente di questa immagine, si presentò con una maglietta con Topolino! E' un piccolo episodio che, al di là del modo di vestire, mi è tornato alcune volte alla mente perché sottolinea la stravaganza di Bussotti, un'estrosità che non è fine a se stessa, ma rimanda a un modo eccentrico che pone questa originale figura decisamente al di fuori di ogni pensiero/fare comune e centro istituzionalizzato. Per i suoi 70 anni ho scritto un saggio che è stato pubblicato dagli amici di Brunnenburg, quella è stata un'occasione per continuare una bella collaborazione (ho invitato il Maestro a Lucca, a Pisa e ho presentato un suo concerto a Milano).
Ogni tipo di scrittura presuppone un suo spazio, in cui l'idea del suono viene cifrata. In partenza si tratta di una riduzione rispetto all'idea originale, per ovviarla si ricorre a un accumulo di segni per ogni parametro, nel tentativo di precisare. Dal Romanticismo allo Strutturalismo si tenta di delimitare sempre più ogni possibile arbitrio, per precisare sempre meglio i dettagli. Il grafismo musicale pone uno stop all'idealismo del concetto di causalità fra l'Ego del compositore, l ante grafico e il post sonoro. Il simbolo grafico non percorre l'itinerario classico della semiotica, il veicolo segnico viene non eseguito, ma interpretato, ricevendo impulsi e dando vita a letture del tutto nuove. Le varie tipologie di scritture grafiche hanno in sé una forte gestualità teatrale e un senso ludico che viaggia dal segno al suono.
E' difficile scindere la produzione di Bussotti in opere grafiche e in opere che utilizzano la notazione tradizionale, anche perché queste ultime conservano delle prime la gestualità e la scrittura a china personalissima, comunque da un punto di vista strettamente grafico le prime esperienze si riscontrano nella raccolta Piece de chair II, fra i pezzi assai audace e premonitore di situazioni successive il celebre Piano piece for David Tudor n. 3 del 1959, costituito da un tracciato di linee orizzontali sulle quali si incrociano piccoli agglomerati di figurazioni geometriche o rare zone sfumate di pointellé. La superficie della pagina diventa un volume sferico, come fosse un teatro: le opere di Bussotti sono già, in fieri, opere totali. Il grafismo non è solo una guida di percorso, ma porta con sé tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico. Il lavoro più meditato, da un punto di vista squisitamente grafico, è Autotono, iniziato nel 1956 e terminato solo nel 1976: l'aspetto tecnico di questi 7 fogli è assai larvato, sono immagini stravaganti, inafferrabili, surreali e ludiche, pagine prima abbozzate da Bussotti poi rielaborate dallo zio Tono Zancanaro e quindi di nuovo ridisegnate da Bussotti, sono pittografie bifronti, in quanto a ogni pagina ne viene accoppiata un'altra più complessa e figurale, in cui l'astrattismo precedente si ricompone in immagini erotiche.
Da Renzo Cresti, Un mistero per l'occhio, Rivista "1984 La Musica", Roma 1985.
Dall'inizio del Novecento, con i Futuristi, si sono cercate nuove modalità di scrittura, ma è soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso, in corrispondenza con le altre forme di aperture linguistiche e con l'arte gestuale (performance, happening, poesia visiva etc.) che si passa da una iperdeterminazione della musica in pentagramma (post webernismo) a una liberazione del rapporto fra segno e suono, creando uno spostamento da una concezione alfabetica della scrittura a una geroglifica, dove il gesto diventa una parte sostanziale. I grafismi, le immagini e i colori creano una sorta di pagina scenica, spetta all'interprete fornirla di un senso sonoro complessivo.
Alcuni degli stessi protagonisti di Darmstadt ricorreranno a una scrittura fatta di tracce (disegni, riquadri, punti, frecce, diagrammi, indicazioni verabli etc.), come Stockhausen e Maderna, ma sarà da Cage che verrà il maggior stimolo verso una musica improvvisativa, con musicisti come Kagel, Schnebel, Kayn e i nostri Guaccero, Pennisi, Castaldi e soprattutto Bussotti, il primo in Italia, grazie a una felice situazione famigliare che vedeva presenti lo zio Tono Zancanaro e il fratello Renzo pittore.
I 7 fogli sono del 1959 ed è l'opera iniziale, a cui segue la mitologia danzante di Oggetto amato e il lavoro a quattro mani , con Zanacanaro, Autotono, solo per citare alcuni esempi di grande invenzione grafica (tanto da essere esposti in Gallerie) che devono diventare suono.
Da Renzo Cresti, Musica da Vedere, "Il grandevetro n. 166, Santa Croce sull'Arno giugno 2003. Questo numero è arricchito di una sostanziosa parte iconografica tratta da partiture di autori citati nel testo soprariportato.
http://www.sylvanobussotti.org/
http://it.wikipedia.org/wiki/Sylvano_Bussotti
***************************************************************************************************************************
Paolo Renosto
Gestualità
Ho conosciuto Renosto (1935 - 1988) ai primi anni Ottanta, a Torino, insieme a Enrico Correggia, al Festival Antidogma, ci siamo in seguito visti diverse volte, ad Arezzo con Carlo Alberto Neri, a Firenze al G.A.M.O. e da altre parti e in altre situazioni. Purtroppo la morte prematura non ci ha consentito una lunga frequentazione, come mi sarebbe piaciuto.
Allievo di Fragapane e di Lupi (col quale si diploma nel 1962), frequenta anche i Corsi di Direttore d'orchestra di Maderna a Salisburgo. Nelle prime composizioni, quelle fino al 1958, la scrittura è di stampo dodecafonico, con evidenti influenze da Berg e Dallapiccola. Con i brani degli anni Sessanta, Renosto abbandona la dodecafonia e si orienta su una concezione più materica e attenta alle peculiarità foniche. Dal 1971 inizia a lavorare allo Studio di fonologia della RAI di Milano. Fitto è il catalogo della musica strumentale, ma è importante il teatro musicale, a cui Renosto si dedica con sempre più attenzione: dalla Camera degli sposi (1972) a L'Ombra di Banquo (1976), fino a Le Campanule (1981), con questo lavoro Renosto perviene ad una individuazione stilistica di forte efficacia teatrale, dove si condensano le esperienze precedenti, realizzando uno spazio/tempo musicale scarno e tagliente.
http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Renosto
**************************************************************************************************************************
Ugalberto De Angelis
Libertà strutturale e volontà espressiva
Un altro musicista che a Firenze ha abitato (era nato a Milano nel 1932 e si era stabilito nel capoluogo toscano nel 1943) è stato Ugalberto De Angelis (fratello del critico musicale Marcello), allievo di Lupi. Muore giovane nel 1982, dopo aver appena terminato la Sequenza dei tre Re e lasciando incompiuta la Passione secondo uomini per ogni uomo. Non ho avuto mai l'occasione per conoscerlo, anche se il fratello Marcello più volte mi ha parlato di lui.
Da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III voll. e 10 cd, Pagano, Napoli 1999-2000.
http://www.sonzogno.it/it/compositore?id=680&lang=it&epoca=0
**************************************************************************************************************************
Gaetano Giani Luporini
Musica che secerne il gesto
Nacqui pittore.
In me soggiornò un poeta
e a lungo
dimorò un musicista.
Ora
in ogni giorno
cresce il mio silenzio
che il cuore affonda
nel solco dell'eternità.
(G. Giani Luporini)
Gaetano Giani Luporini (tutti lo chiamano con il cognome materno, Lucca 1936) è stato il mio Direttore all'Istituto musicale "Luigi Boccherini" di Lucca, dove io insegno dal 1982 e dove lui, qualche anno dopo (1986), entrò come vincitore del concorso per Direttore, lasciando l'insegnamento al Conservatorio di Firenze (è andato in pensione nell'ottobre del 2003). Lo conoscevo anche prima e avevo ascoltato molte sue composizioni, la successiva frequentazione settimanale mi ha concesso l'opportunità di avvicinarlo in modo più diretto e profondo, ne ho apprezzato così l'onestà intellettuale e la delicatezza d'animo (messa a dura prova dalla burocrazia scolastica e dai falchi politici saliti arrogantemente al "potere" nel 1998), la straordinaria musicalità e le doti immaginifiche che fanno della sua produzione uno degli esempi di altissima musica fra i tanti scarti e piccolezze di cui siamo circondati. Dispiace solo che non sia adeguatamente eseguita e conosciuta, evidentemente le doti artistiche non sono quelle richieste dal "mercato", e la profonda consapevolezza intellettuale e la genuinità dell'essere sembrano appartenere a un mondo lontano. Per me sono valori imprescindibili e sono infinitamente grato al mio amato Direttore perché mi sono di esempio. Dispiace anche che Gaetano, negli ultimi anni, abbia deciso di scrivere poesie e non musica: diciamolo francamente è stato un ottimo pittore, si sta dimostrando un buon poeta ma la sua dote maggiore è senz'altro quella del musicista ed è un peccato che il nuovo secolo non abbia visto sue composizioni.
Gaetano Giani Luporini è nipote da parte di madre di Luporini senior (vedi numero monografico dell'Istituto storico lucchese dedicato al Maestro, Lucca 2001), un musicista di razza della generazione di Puccini (che, invidioso, ne ostacolò la carriera), eccellente soprattutto nella vena elegiaca espressa nella sua musica da camera (da inserire criticamente all'interno della generale rivalutazione strumentale operata dalla Generazione dell'Ottanta); anche lui fu direttore dell'Istituto musicale lucchese.
Giani Luporini è il più significativo rappresentante della grande tradizione musicale lucchese, conservando di questa, pur filtrati, alcuni atteggiamenti espressivi come l'elegia e alcuni stilemi stilistici come la vocazione alla teatralità, la padronanza strumentale e un certo eclettismo. Luporini ha (avuto) molti contatti anche con l'ambiente musicale fiorentino, non solo perché ha insegnato al Conservatorio "Cherubini", ma perché ha appreso molto da Roberto Lupi, eppoi ha mantenuto contatti con molti altri musicisti, fra cui Bussotti.
Il periodo formativo arriva fino al 1967, nel quale il giovane Luporini ricorre a tecniche seriali e paraseriali, con un'intervallistica espressionistica. Passato il tempo dell'apprendistato, lo stesso Luporini divide la sua produzione in tre fasi: la prima è caratterizzata da tecniche miste, da organizzazioni sonore con parti aleatorie, cluster, sovrapposizioni timbriche, iterazioni etc., questa prima fase è caratterizzata anche da un misticismo laico che poi permarrà come tensione etica. Nel secondo periodo, che va dal 1972 al 1977, si realizza una dialettica compositiva fra elementi proliferanti da organizzazioni pre-costituite ed elementi formanti fissi, sovrapposti allo svolgersi temporale delle cellule, con una costante compiacenza timbrico-gestuale, spesso ironica; il suono è sentito più nel suo valore individuale-polifonico che in quello stocastico, una rivalutazione dell'intervallo come forza comunicante. Gli interventi strumentali sono oculatamente dosati, raffinati nella linearità contrappuntistica e da un'accortezza coloristica particolare. La vivacità dell'intuizione si risolve in un'elaborazione drammatica e si può affermare che, in tutta la produzione, sia maggiormente significante l'impostazione drammaturgico-musicale che la ricerca strutturalistica. Lo stile si accosta, per affinità interiore, alla Scuola polacca, ricorrendo spesso anche alla forza semantica dei testi letterati. La terza fase ha inizio proprio con una lunga serie di esperienze teatrali, dove la florida fantasia musicale di Luporini ha modo di essere suggestionata, folgorata da immagini visivi (non va dimenticata l'intensa attività pittorica svolta durante gli anni Sessanta).
Luporini fa spesso ricorso a divertite o ironiche citazioni di stili storici, un ammiccamento della musica del passato che vengono trasfigurati dal contesto e resi funzionali al linguaggio di Luporini. L'intervallistica è di stampo diatonico, se pur con motivi pancromatici, la timbrica è sfavillante e ricca di atmosfere coloristiche, il ritmo incalzante e vivace.
La musica di Luporini, per un fatto costituzionale, secerne il gesto, la gestualità è intimamente connessa alla specificità del suono che visualizza situazioni sceniche, anche quando è strumentale. La musica di Luporini si presenta nella sua magnifica corposità, come risultato dei tre elementi del pensare, volere e sentire, negli ultimi tempi basandosi anche su speculazioni numerologiche e ammiccando a dimensioni rituali, stuzzicando elementi magici e spiritualistici, trasmessi all'ascolto con leggerezza e humor. La naturalezza della musicalità di Luporini gli permette anche di produrre degli incantevoli falsi storici, in stile settecentesco, divertissement non solo gradevolissimi, ma di sapiente fattura dalla quale c'è molto da imparare.
Da Renzo Cresti, Gaetano Giani Luporini, musica fra utopia e tradizione, LIM Antiqua, Lucca 2005. Cfr. anche Il suono, il gesto e l'immaginazione nella produzione di Gaetano Giani Luporini, Teatro del Giglio, Lucca 1987.
Indice del libro
Premessa
Contesto culturale e biografia artistica
Una bella storia: considerazioni sul percorso artistico di Giani Luporini, in relazione all'articolazione della cultura e della musica contemporanea
Riferimenti e(ste)tici, culturali e stilistici
Il percorso musicale
Catalogo delle opere
Il volume riporta, per la prima volta, alcune poesie di Giani Luporini ed è arricchito di riproduzione di alcuni suoi quadri.
http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Storie/GAETANO-GIANI-LUPORINI-Tra-colori-musica-e-poesia
**************************************************************************************************************************
Arduino Gottardo
Ironia gagliarda
Il suo impegno e(ste)tico è sempre stato fuori discussione, così come certi risultati artistici, soprattutto quelli in cui la sua vena gagliarda e ironica vinceva sul rigore del costrutto. Avevamo anche progettato un'Opera teatrale, di cui io stesi il libretto e lui buona parte della musica, poi saltò la possibilità di realizzarla e altre possibilità non si concretizzarono (vedremo, la speranza è l'ultima a morire). Ho condiviso con lui l'esperienza della Federazione Italiana Compositori, che, malgrado il fallimento, rimane un bell'esempio di volontà costruttiva per far migliorare le cose (fallimento dovuto agli interessi dei padroni della musica e all'egocentrismo della stragrande maggioranza dei compositori). Arduino (Schio 1950) ha adottato due bambini extra-comunitari e questo gesto dice della sua nobiltà d'animo, vorrei che la nobiltà continuasse a sposarsi con la lotta e l'impegno, perché ce n'è tanto bisogno e Arduino è uno dei pochi che può farlo con quel disinteresse al profitto personale che la nobiltà d'animo garantisce.
Gottardo manifesta il bisogno di mediare le esigenze di stampo post-strutturalistico con le novità tecnico-espressive apprese in anni recenti, meditando sul processo storico che ha rivisitato i presupposti della costruzione formale, adottando una sorta di linea mediana fra il rigore architettonico e l'eufonia, con un'intatta curiosità rivolta alle tecniche strumentali. L'ironia esorcizza il tratto serioso e quando la scrittura è corroborata dalla gestualità ironica, prendono forma le opere migliori.
La scrittura di Gottardo è agile e flessuosa, l'humus è divertito e gagliardo, a volte teso e inquieto. Usa anche la tecnica delle citazioni, ma in maniera straniante (come nella "favola in musica" Il cappello del commendatore). La curiosità rivolta a tecniche diverse da quelle usuali e agli approcci formali che da tali tecniche possono derivare, si riscontra in molte composizioni, come in Bizzarre per contrabbasso (1983) che prende forma attraverso vari interventi gestuali/sonori che si susseguono con cipiglio, brillantezza, aggressività e ironia. Un carattere analogo ha pure Se tu vorrai fare (1988), dalla scrittura rapida, fugace, ricca di momenti diversificati, piacevole e divertita, come pure quella di Mi suonava Ricordi (1990), pezzo dedicato "ai critici novelli salottieri": si tratta di una serie di 15 sezioni, sorridenti e leggere, con una punta di sarcasmo contro gli azzeccagarbugli che fanno capo alla tristemente famosa Casa editrice milanese (tristemente per quello che non ha fatto per la musica contemporanea, agendo spudoratamente solo per coloro che condividevano l'ideologia del clan, com'era prevedibile tutto è fallito!)
Di Gottardo è da ricordare anche la musica per nastro magnetico, in generale funzionale all'allestimento di mostre, una sorta di raffinata musica d'ambiente basata sull'articolazione di strutture di micro-intervalli. Di recente si sta impegnando in curiosi falsi storici e in orchestrazioni di pezzi didattici scritti da Francesco Cipriano.
E' almeno da segnalare l'attività teatrale didattica e il fatto che Gottardo ha fondato la Federazione Italiana Compositori (della quale lui è stato Segretario e Piero Luigi Zangelmi Presidente, svolgendo un'attività para-sindacale).
Da R. Cresti, Il suono curioso e ironico di Arduino Gottardo, in Rivista "Musica Attuale" n. 6, Bologna 1994. Cfr. Renzo Cresti, Verso il 2000, Rivista "Il grandevetro", Pisa 2000.
http://www.arduinogottardo.com/musica.htm
**************************************************************************************************************************
Carlo Deri
Un grande comunicatore
Non è da molti anni che ho conosciuto Carlo Deri (1956), ma da quando abbiamo iniziato a frequentarci è nata una bella amicizia. Apprezzando la sua capacità analitica gli ho chiesto di scrivere le analisi musicali nel mio libro Ipertesto di Storia della musica, insieme abbiamo organizzato diverse cose (abbiamo fatto parte anche dell'Associzione "Musica Contemporanea" di Pisa) e il dialogo musicale e fra noi continuo, così come quello personale, scaldato da robusti bicchieri di vino che esaltano la sua convivialità e la nostra fratellanza.
Carlo Deri è un musicista completo e già questa è una bella qualità da sottolineare, in un momento dove, anche nel mondo della musica, si assiste al frazionamento dei saperi e alla professionalità svolta in un solo settore particolare. Deri è compositore, allievo di Carlo Prosperi al Conservatorio di Firenze; è pianista di buona lettura; è musicologo e analista, ha infatti scritto approfonditi saggi (come quello su Giuseppe Bonamici pubblicato sulla Rivista "Tetraktys") e analisi puntuali (di recente quelle per il Nostro libro Ipertesto di Storia della musica, La Vita della Musica); conferenziere convincente e didatta appassionato; animatore infaticabile della vita musicale toscana, quale Direttore artistico o Presidente di varie Associazioni (spesso collaborando col pianista e compositore Paolo De Felice). Dal 1983 è insegnante alla Scuola "Bonamici" e nel 1986 ne assume la direzione. Ha collaborato con il Conservatorio dell'Università di Cincinnati che gli ha realizzato uno dei brani più impegnativi che Deri ha scritto negli ultimi anni, Italy, sei liriche per canto e pianoforte su testo tratto dall'omonimo poemetto di Giovanni Pascoli.
Lo studio con Prosperi a Firenze ha fortemente segnato la scrittura e la poetica di Deri che si è, da subito, legato all'Umanesimo fiorentino, riprendendone l'attenzione alla forma e all'asciutta espressività. Deri ha capito che l'annoso problema del rapporto fra forma e contenuto è mal posto, infatti i due termini non sono antagonistici ma complementari, l'uno rafforza l'altro e, nei casi migliori, sono tutt'uno.
Deri è livornese e trasmette alla sua musica un enthusiasmus che deriva dal carattere esuberante e sagace, declinato però spesso, e soprattutto nei brani con testo, a un'accorata espressività, melanconica e fin drammatica (come in Italy). Deri possiede comunque la capacità di immettere nella musica un'onda di commozione autentica, fra intimismo e partecipazione civica (la stessa concezione del lavoro si basa sulla responsabilità etica). "Il miglior sistema è lo studio e solo da studi seri nasce la grandezza", questa affermazione di De Sanctis viene condivisa da Deri, che sa bene qual'è l'importanza del lavoro artigianale, ma viene affiancata dall'estro e dalla necessità interiore della comunicazione, infatti la forma, specie nei brani con testo, non è pre-ordinata, ma intuita; non ci sono complessi e cervellotici piani preparatori, ma la scrittura procede seguendo l'ascolto del suono interiore. Disciplina e rapimento espressivo convivono con reciproco vantaggio.
L'interesse prevalente di Deri è la musica da camera e in particolare quella con la voce: "la voce umana ha sempre destato in me molto interesse, per la duttilità dello strumento-voce, che offre una tavolozza di sfumature letteralmente esaltanti, ma anche perché mi dà la possibilità di sposare la musica con la poesia" - dice lo stesso Deri sulla Rivista "Continuum" della Scuola Bonamici - "mi lascio guidare dalla liricità del testo e quindi, dal punto di vista formale, la struttura si modella da sé. Invece nelle composizioni strumentali, dove sento maggiore l'impegno di scelte formali, mi diverto a cercare impasti timbrici e soluzioni armoniche". Negli anni Ottanta il percorso di Deri inizia con lavori di un certo impegno tecnico-formale, come Passacaglia (1984) per due flauti e come la contrappuntistica Sonata (1986) per due flauti e pianoforte, composizioni di ricerca linguistica e dal suono un po' duro, le quali, se paragonate a quelle scritte un decennio più tardi, paiono ancora preoccupate di ricercare la novità sonora e legate a un disegno intellettuale che lascerà il posto a un procedere più immediato ed evidente nel suo disporsi, come nel fortunato pezzo Dromos (1998) che ha giustamente conosciuto molte esecuzioni, per voce recitante su testi di Giuseppe Bonamici e sette strumenti; Dromos è un pezzo assai esemplificativo della flessibilità metodologica, qui infatti Deri usa, come di rado gli capita, la dodecafonia, ma nelle sue mani questo sistema inesorabile perde la sua rigidezza per piegarsi alle esigenze espressive dei versi poetici. Belli i pezzi pianistici, dove si equilibrano ricerca (specie in Improvviso n. 2) e soliloquio espressivo (come in Notturno n. 2 e in Incanto, nei quali la forma libera si struttura prevalentemente seguendo modalità timbriche).
Anche per i pezzi con testo si può notare un'articolazione diversa fra i lavori degli anni Ottanta, come le Due liriche di Pavese, un brano importante per canto e pianoforte, e quelli recenti, come appunto Italy, dove si ascoltano momenti tonali, lirici, evocativi o descrittivi (come pure nel pianistico Distanze del 2003), pezzi dunque che si dipanano come un processo espressivo e non solo come progetto compositivo. Dal lungo poemetto che Pascoli scrisse nel 1904, Deri assembla sei parti che sono: 1) A Caprona, una sera di febbraio 2) E i figli la rividero alla fiamma del focolare 3) La bambina bionda 4) Tra il rumore dei licci e della cassa 5) Non piangere, poor Molly! 6) Prima di andare vieni al camposanto. La storia è quella di due fratelli che tornano dall'America, "da Cincinnati, Ohio", portando la nipotina Maria (detta Molly), malata di tisi, a guarire in Italia. Il tema dell'emigrazione, che in Garfagnana inizia nell'Ottocento, prosegue fino al secondo dopoguerra del Novecento, è tema assai attuale anche se rovesciato, oggi non sono più gli italiani ad andare a cercare lavoro all'estero ma è la povera gente dell'Est europeo, dell'Asia e dell'Africa, a tentare la fortuna nel nostro Paese. La scelta di questo tema è allora anche un monito alla memoria e all'accoglienza.
La voce è spesso declamata e al pianoforte si affidano i mutamenti espressivi, straordinaria è la simpatia che si crea fra la musica e i versi di Pascoli, come se Deri avesse trovato l'humus privilegiato che gli consente di toccare le corde dell'afflato intimista, che va dall'elegiaco alla tristezza, dal nostalgico al dolente. Quartine ostinate e marcate, che cedono il posto a sestine discendenti, introducono la voce in recto tono; spesso la voce declama su una sorta di immaginario tono di recita. Il tempo muta rapidissimamente dal 7/4 al 2/4, dal 2/8 al 3/8, fornendo quell'andamento un po' claudicante ch'è tipico di tutto il pezzo, una flessibilità (e un rubato) che è anche tentennamento esistenziale ("esitante" si legge nello spartito), simbolo dell'insicurezza dei protagonisti, un'incertezza di vita che viene accentuata anche dalla particolare armonia (molte le sezioni in cui gli accordi pianistici vengono in evidenza) che ricorre pure al cluster.
La seconda sezione, "E i figli la rividero alla fiamma del focolare", inizia in tempo libero, senza battute, con un tessuto sonoro rarefatto sulla parola "mamma". Interessante la commistione linguistica che Pascoli realizza, fra l'italiano, il dialetto, l'inglese e lo slang, commistioni che Deri ben individua e sottolinea con arguzia e intelligenza (bella, anche graficamente, con parole piccole e grandi a seconda del loro modo di essere pronunciate e con le macchie del cluster , la pagina in cui si grida "bad country, Ioe, your Italy!"). Momenti drammatici descrivono il rapporto della bimba malata con la nonna, qui Deri dimostra di possedere un pathos romantico, avvolgente e commovente. "Non piangere, poor Molly", la nonna è morta: struggenti accordi diventano poi note lunghe e quindi di nuovo accordi che si dispongono come un tappeto sonoro o come un sudario. Anche il finale è affidato ad accordi sospesi, come a indicare che la storia non si chiede, ma che la triste storia di questi emigranti si ripeterà.
Da Renzo Cresti, in Rivista della Scuola "Bonamici" di Pisa, "Continuum", 2006-2007.
http://www.scuolabonamici.it/docenti/carlo-deri/
**************************************************************************************************************************
Claudio José Boncompagni
Vagabondaggio esistenziale
Adoro lo zuccotto che Claudio (Buenos Aires 1961) e Astrid mi portavano ogni volta che venivano a trovarmi, nella casa sui colli fiorentini (prima che mi trasferissi a Lucca) parlo al passato non già perché la nostra amicizia si sia interrotta, ma perché, negli ultimi anni, ci siamo visti meno di frequente: l'ho invitato a presentare la sua musica in un concerto a Lucca, quando ero Consulente del Teatro del Giglio, lui mi ha invitato a Firenze, però lo zuccotto non c'era! E lo zuccotto è, evidentemente, un simbolo di affabilità e di buona compagnia, e speriamo che questa si riconcretizzi al più presto, anche perché, al di là dell'interesse che ho per il Boncompagni musicista, la sua dolcezza mi manca.
La formazione culturale di Boncompagni si completa, oltre agli interessi musicali, con quelli per la letteratura e per il teatro, un teatro dove la musica non è un elemento aggiunto alla scena, ma composta sulle problematiche interne al testo, legata alle dinamiche gestuali e all'ambientazione. Dopo i corsi di musica elettronica con Pietro Grossi (Trough voices è il primo pezzo che include suoni registrati e in movimento), Boncompagni collabora con l'artista multimediale Bresaola e con l'attore di ricerca Carotti, unendosi poi allo "Zauberteatro": l'esperienza risulta fondamentale, tanto che i lavori recenti di Boncompagni interagiscono quasi sempre con materiali audio-video, con testi antichi e/o contemporanei, toccando vari campi linguistici ed espressivi. Vedono così la luce vari cicli di composizioni su tematiche formali e spirituali, come il Ciclo Attraverso un Mandala, il Ciclo Quodlibet e diversi lavori per il teatro, fra cui, importanti, sono Apocalisse (1990), Incontri e Krapp (entrambi del 1991).
La voce (quale portatrice del testo) è l'elemento sostanziale della musica di Boncompagni. Strumenti a lui cari sono i fiati, particolarmente gli ottoni, il pianoforte (anche preparato) e il tape computer: queste costanti strumentali danno alla sua produzione una caratteristica timbrica specifica e riconoscibile, una timbrica cangiante e preziosa che ammicca all'immaginifico (personale e collettivo) e al simbolico (arcaico o futuribile), con una naturale inclinazione al gesto ch'è l'elemento che unifica il tutto.
Nella moltitudine (1997) è un brano per 10 strumenti, ben articolato, con un intreccio strumentale dal quale escono frammenti di canto, sottili, allusivi, a volte spigolosi altre soffici, sempre partecipati. Creazione (2001) è un pezzo per voce e composizione vocale con strumenti, eseguita da Sandro Carotti e dallo Zauberensemble, con i quali Boncompagni lavora da tempo, la composizione conferma la sua predisposizione a scrivere per voce, qui segmentata e ri-composta in vari modi, riverberata e retoricamente amplificata, oppure prosciugata dagli aloni o dalle sottolineature taglianti degli strumenti.
Fanfara per il Nuovo Museo (2001) è per tromba solista, con esclamazioni vocali, certe movenze tipiche della tromba della Fanfara vengono riprese e trasfigurate, in un fraseggio rotondo e scorrevole. Nuances (2003) è per ottavino e pianoforte, il titolo stesso allude alle sottili corrispondenze sonore fra i due strumenti e all'espressività affettuosa.
Nota a margine ma importante: oltre a insegnare Strumentazione per Banda, Boncompagni è anche uno dei pochi - in Italia - ha comporre musica originale per Banda musicale e con risultati assai interessanti. I pezzi Proportio (1986) e Moltitudini (1997) sono entrati stabilmente nel repertorio delle Bande che eseguono muica originale.
Da Renzo Cresti, Il gesto poetico che si fa suono, in "Linguaggi della musica contemporanea I", Miano, Milano 1995.
http://www.conservatorio.firenze.it/index.php?id=1342
***************************************************************************************************************************
Antonio Anichini
Requiem
Conoscevo di Antonio Anichini (Firenze 1962) la sua straordinaria capacità analitica, confermata dalle ottime trascrizioni, e la sua serietà nell’affrontare il lavoro compositivo, sempre rigoroso e strutturato nei minimi particolari. Ho apprezzato da tempo la sapienza contrappuntistica e l’abilità nel dosaggio dei parametri musicali, ma ascoltando il suo eccezionale Requiem per soprano, mezzosoprano, tenore, coro e orchestra, realizzato in prima esecuzione assoluta in Ungheria nel 2001, la mia stima è ancor più aumentata, perché Anichini sa qui cogliere alcuni degli indirizzi poetico-espressivi e stilistici che la contemporaneità sta suggerendo. Potremmo dire superando il Moderno, nel quale la sua produzione era (e in parte è) decisamente collocata, per aderire, nel modo più inflessibile e intelligente possibile, ad alcune sollecitazioni della post-modernità. Il Requiem è eccezionale in senso etimologico, fa eccezione nella produzione di Anichini come si è svolta fino ad ora, ed è un’anomalia del tutto positiva e, mi auguro, foriera, di sviluppi futuri.
Il messaggio di Anichini è quanto mai opportuno, in tempi così drammatici di orrori e di guerre, egli vuole trasmettere, come dice bene Elisabetta Braschi, nelle note di copertina al Cd (Planet Sound di Firenze) “non la discesa nella tomba, la caduta degli ideali, il dolore, la fine, ma la salita all’Assoluto, la gioia della perfezione, il riassorbimento nella vita cosmica verso sempre rinnovate esistenze, un possibile abbraccio con l’infinito”. E’ un messaggio di conciliazione che Anichini, tecnicamente, mette in pratica con-fondendo canti di tradizioni culturali, storiche e geografiche differenti, riccorendo a citazioni da repertori antichi, da canti popolari, orientali, non attuando una sorta di collage o di fusion, ma inserendole rispettosamente in uno spazio-tempo dell’accoglienza che, musicalmente, significa ospitarle in una casa comune data dai modi latini pre-tonali.
Anche i testi hanno una provenienza disomogenea, ma sono tutti orientati da un comune intento espressivo, testi e musica, proprio in quanto diversi, vanno a costituire delle profondità prospettiche, creando dei giochi fra punti di fuga, oggetti musicali in primo piano o sullo sfondo. A volte il trattamento è melodrammatico, ma è proprio il mutare delle intonazioni, che abbracciano tutto il campo espressivo, che da’ movimento e rende plastico il canto, creando una comunicazione diretta, collegandosi alla grande tradizione umanistica della musica italiana (certi passaggi della Sequentia-Canticum II sarebbero piaciuti all’ultimo Verdi). Il che non vuol dire rinunciare alle problematiche tipiche del Moderno novecentesco, come avviene nel furbesco appropriarsi degli stili del passato di un certo postmodern, anzi sembra che il forte costrutto e che i momenti più vicini allo strutturalismo ne siano esaltati, in una complementarietà, e non in una contrapposizione, dei diversi gesti e delle differenti modalità di scrittura. Così l’opera ribadisce il suo intento di essere un incontro di civiltà, di pensieri, di religioni, di culture.
E’ nel riconoscere la diversità che l’uomo contemporaneo dovrebbe attuare la sua etica. Ogni cultura dovrebbe essere consapevole di avere delle mancanze e di completarsi nell’altra, abitando un luogo comune di fratellanza.
Tutto il lavoro è di una compattezza esemplare, note perno, corrisponde dei modi liturgici, equilibri contrappuintistici, proporzioni fra solisti e coro, fra voci e orchestra (alcuni passi d’orchestrazione sono davvero originali), ombreggiature strumentali che richiamano aloni vocali e viceversa, bilanciamento tra inserimenti monodici o polifonici, questa precisione e amore di simmetria si