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Roberto Beccaceci, con analisi
(E)stasi antica e pellegrinaggio nella contemporaneità
 
 

Roberto Beccaceci (Ancona 1958) è persona tenera, rispettosa, educata, ricca di qualità umane, così rare nel nevrotico ed egocentrico mondo della musica (contemporanea), umanità che sostiene anche la sua musica. E' importante conoscere personalmente l'Autore e vivere, insieme a lui, la sua opera, solo così si può testimoniare: la testimonianza è solo diretta, non può esistere da lontano, ed è legata alla contemporaneità, non è possibile testimoniare se non si è presenti. Il volto, gli sguardi, i gesti e le parole dell'uomo sono, per qualsiasi cosa, il vero a priori, questo non vuol dire sottovalutare il cosiddetto professionismo, l'abilità tecnica, né professare poetiche romantiche o legate all'analisi psicologica, ma ribadire come l'arte se non nasce da esigenze interiori è mero calligrafismo e le opere vanno a incrementare l'enorme e inutile settore dell'accademia. L'opera di Beccaceci è una conferma all'imprescindibile rapporto fra uomo e arte (una relazione che, in maniera naturale, metabolizza anche il contesto culturale e sociale).
 
L'opera aspetta se stessa su una soglia enigmatica dove sta chiusa nel proprio testo e, al contempo, è tesa verso un altro luogo. L'arte è un essere-possibile, un essere in viaggio, un viaggio particolare, riflessivo, nel quale più si cammina e più ci si addentra all'interno, un esodo dal noi per ritornarci costantemente, un aspettarsi, un attendere il proprio sé al ritorno dal viaggio.
 
La musica di Beccaceci ha una progettualità forte, ma sa aprirsi a possibilità ulteriori, verso la poesia, verso la cultura, verso l'uomo, verso radici profonde. La musica di Beccaceci è un gestus arcaico dal quale precipita la musica, un fare segreto, un culto riservato, di cui la bellezza ne è la traccia. Nasce da un'urgenza interiore: basterebbe dire, ascoltate!
 
Le opere di Beccaceci sono spazi psichici, una specie di tappeto di preghiera, dove l'uomo si situa a meditare e a raccogliere spiriti lontani. E' una musica che riconsidera il pensiero mitico, dove si instaura un rapporto fra ethos e fatum.
 
La pace = pactum è un ponte che collega l'uomo all'uomo, creando l'ethos della solidarietà.
 
Alla co-operazione fra gli uomini l'e(ste)tica di Beccaceci aspira e questo nella sua musica si respira.
 
 Beccaceci ha una visone ampia dell'arte, dove il musicale e l'extra-musicale rimandano a una simbologia di elementi contrapposti, elementi che si scoprono complementari e vengono fusi in un soggetto unico.
 
Veicolo principale della poetica di Beccaceci è la parola: cantata, recitata, evocata. Una parola che sempre ci parla dell'intolleranza, della sopraffazione dell'uomo sull'uomo. Esemplare è il brano Il tramonto della luna (1998).
 
La struttura compositiva parte da un semplice elemento musicale preesistente, come in Spiritual Suite del 1997, elemento ch'è una sorta di DNA dell'intera composizione che si articola sul principio della trasfigurazione dell'elemento formante, per mezzo di una tecnica di elaborazione melodico-armonica basata sui modi alterni (sui quali Beccaceci ha scritto, nel 1992, anche un trattato), e sul principio della complementarietà che determina fasi "positive" e "negative", di avvicinamento o di allontanamento dell'elemento iniziale.
 
La scrittura è sempre scorrevole e ne risulta un linguaggio flessibile, come in Quid feci tibi del 2000. Il gesto è forte è il suono scava in profondità, come ne La leggenda del vecchio marinaio (1995), un lavoro di teatro minimale, in 29 episodi, basato su una simbologia numerico-spirituale, incentrata sul numero 5.
 
La struttura dei brani di Beccaceci si configura come una sorta di ordine sub-razionale o meta-razionale che si esprime in un percorso di linee sinusoidali, fatte da creste positive o negative, complementari, che evocano gli archetipi e le energie primordiali (espansive e contrattive).
 
Beccaceci ha recentemente concluso un impegnativo brano per coro misto a cappella, Amen, si tratta di un'Invenzione che parte dal frammento incompiuto dell'Amen del Requiem di Mozart. Il pezzo è stato eseguito a Monopoli, nell'ambito di un concerto dedicato agli opera omnia sacri per coro a cappella e basso continuo di Mozart, dentro la cornice delle iniziative del Meeting della Scuola di didattica della musica del Conservatorio. Inoltre, a riconoscimento della sua serietà e della qualità del lavoro svolto finora, è stato assegnato a Beccaceci il Premio "Beniamino Gigli" 2000.
 
La "Missa pro Pace", per coro misto a cappella, da poco ultimata. È un lavoro in cui Beccaceci si è posto l'obiettivo (non facile) di trovare un punto d'equilibrio tra il suo abituale linguaggio e le tecniche applicate, il risultato è un brano "da concerto" che può essere ben utilizzato anche in un certo tipo di liturgia. La composizione (auto)cita materiale tratto (per via di analogie simboliche) dal poemetto Il tramonto della luna. Si tratta di una particolare successione di accordi, suddivisa in 4 frasi, in cui il "basso" è disposto in maniera retrograda: per meglio dire, 4 serie diatoniche facenti capo al tono di Re minore, speculari ciascuna rispetto alle altre, utilizzate in modo che le note rimangano le stesse anche se lette a ritroso. Questo materiale è esposto nel Kyrie; le altre parti (manca il Credo) realizzano successive trasfigurazioni dello stesso.
 


Da Renzo Cresti, (e)stasi antica e pellegrinaggio nella modernità, Miano, Milano 1997.



Ad Olivia Fagnani



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Prefazione di Roberto Beccaceci alla partitura della Seconda Sinfonia

 
«- È OIN, È OIN, LAMED SAMEK TAU! -
            I più vicini alla croce erano i soldati romani.
            Essi non conoscevano l’ebraico, se non qualche parola indispensabile per farsi intendere, e in un discorso riuscivano ad afferrare qualcosa solo se le parole erano pronunciate molto lentamente.
            Ma in quel momento Gesù non parlava per farsi capire dai soldati e non aveva bisogno di sillabare le parole.
            Chi conosceva Gesù sapeva che abitualmente parlava in dialetto aramaico, come tutti gli ebrei del tempo, così, per assonanza di parole, venne fuori la frase:
            - Eloì Eloì, lemà sabactani = Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? -
            È OIN fu scambiato per Eloì,
            LAMED per lemà
            SAMEK TAU per Sabactani.
            - Dio mio, perché mi hai abbandonato? -
            Parole di disperazione che infangavano la sua parte divina e tutta la sua vita passata, concludendola in una sconfitta.
            Altri capirono invece che era ebraico, e pensarono che citasse la Bibbia, ma non intesero il significato perché troppo lontani dalla Croce.
            Fu così che il più perfetto degli uomini che aveva accolto dentro di sé lo Spirito di Dio e con Lui aveva convissuto dal momento che era stato scelto come il recipiente più idoneo per accogliere il Pensiero, perché ormai aveva raggiunto il massimo nella scala dei valori umani, passò al futuro come un uomo qualsiasi che non potendo più sopportare le atroci sofferenze, grida al Padre, che tutto può: - Pietà! - rimproverandolo di averlo abbandonato.
            Chiuso nei limiti della sua umanità dolorante, dall’abisso del suo niente, qualsiasi uomo avrebbe potuto pronunciare quella frase. Tutti, tranne l’uomo di Nazareth, il figlio di Dio. Dopo la sua vita gloriosa e piena di amore, una morte vergognosa e impotente a conclusione della sua missione, è assolutamente da escludere.
            Molti cercarono tra i salmi della Bibbia le parole che Gesù intendeva veramente dire. Ne fu trovata qualcuna simile, forse le più vicine uditivamente erano la conclusione di un inno di lode a Dio che certamente avevano cantato dopo l’Ultima Cena… e volevano significare che sempre Dio era nel loro cuore.
            
            Quelle strane parole pronunciate da Lui erano una sequenza di archetipi.
            - Chi conosce gli archetipi, i segni del Dio vivente, non assaggerà le morti - aveva detto lui stesso.
            LA VITA CORRISPONDA, LA VITA CORRISPONDA, NEL SUO PERFETTO EQUILIBRIO ALLA OPPRESSIONE DOLOROSA E ALLA MORTE.
            È = vita, OIN = corrispondenza, LAMED = equilibrio, SAMEK = oppressione dolorosa, TAU = morte. È OIN = la vita corrisponda, LAMED = nel suo perfetto equilibrio, SAMEK = all’oppressione dolorosa (sofferenze), TAU = e alla morte.

             Il più perfetto fra gli uomini, grazie proprio alla sua raggiunta PERFEZIONE, diede ordine a se stesso di ritornare in vita.
            Per una causa conosciuta e accettata si può morire, per una causa conosciuta universalmente grande si può morire e, di nuovo, rinascere.»[*]
 
             Nonostante i tanti anni trascorsi, è con la stessa, potente emozione provata alla prima lettura che cito queste parole, tratte da uno dei più coinvolgenti scritti della Prof.ssa Maria Matti, ex insegnante di Disegno e Storia dell’Arte, pittrice nota per i suoi straordinari Mandala che ella stessa definisce forma d’arte sacra, dipinti secondo un’antica tradizione tibetana e appassionata ricercatrice in ambito archeologico. Ricordo che l’impressione suscitata dalla lettura si trasformò, ben presto, nell’intima decisione di tradurre l’ondata emotiva in musica, così come era già capitato in altri casi. Ma ci volle tutto questo tempo perché quella prima, embrionale idea, rimasta a vagare in una sorta di “limbo” tra la mente e il cuore, trovasse un’altrettanto forte urgenza interiore di manifestarsi. Alla fine è accaduto, in un istante, forse perché il dedicarmi, recentemente, ad alcuni lavori di ispirazione sacra ha creato le condizioni affinché ciò avvenisse, costringendomi - di fatto - a tornare su quelle composizioni, spinto dalla precisa consapevolezza che il loro potenziale espressivo e significativo non si era esaurito.
              È il caso, soprattutto, di Choral, brano pianistico concepito come una serie di elaborazioni del Corale “O Haupt voll Blut und Wunden”, usato da Bach in varie opere e più volte nella “Passione secondo Matteo”. Pur essendo intenzionato a pensare in termini di “musica assoluta”, non potei evitare il formarsi di immagini direttamente collegate al clima emotivo cui il Corale bachiano rimanda. Proprio tali immagini hanno costituito la base del programma della presente opera, esplicitato in partitura da passi tratti dalle Scritture e posti in apertura delle quattro parti di cui è composta.
              Dal punto di vista formale, la materia musicale di Choral - ripresa e ripensata sia in termini di funzionalità rispetto al mezzo orchestrale, sia, soprattutto, in quelli di rielaborazione ed espansione del materiale stesso - struttura le prime tre parti della sinfonia, mentre l’ultima parte, cui è affidato il ruolo di catarsi del dramma che si è appena consumato, attinge la sua sostanza ad elementi che - sia espressivamente, sia tecnicamente - si pongono in termini di complementarità e analogia con quanto li precede.
              Complementarità, in quanto  il Verso Alleluiatico “Surrexit Dominus”, tratto - questa volta - dal repertorio gregoriano della liturgia pasquale, avvia la IV parte proponendosi in un’elaborazione che ne amplifica le caratteristiche di sobria e composta letizia, in deciso contrasto con l’austero e mesto incedere del Corale di tradizione luterana, intriso com’è di tutta la sofferenza che fa da triste cornice all’estremo sacrificio di Cristo. Ancora complementarità e - vorrei dire - continuità, perché il finale della sinfonia “chiude il cerchio” riprendendo il Regina caeli”, brano conclusivo del mio Maria Mater - ciclo di quattro mottetti per coro misto a cappella - ispirato, appunto, al ruolo materno di Maria. Il miracolo della Resurrezione è, quindi, contemplato con gli occhi della Madre, figura assente, fino a questo momento, dalle Scritture menzionate e che, proprio in virtù di ciò, prorompe, ora, in tutta la sua vitalità, nell’incomparabile gioia di sentirsi “madre per la seconda volta”, per riprendere il bellissimo concetto espresso a conclusione del brano sopra citato. L’analogia, infine, è ravvisabile in un dato tecnico che accomuna la struttura armonica dell’Antifona mariana al Corale: l’incipit di quest’ultimo, infatti, espone tre accordi che torneranno, poi - al di là del modo ora divenuto maggiore - a sostenere, quale nucleo generatore, l’intero sviluppo del “Regina caeli” e, di conseguenza, del finale della sinfonia.
             Un’opera che definirei composita, quindi, la cui unitarietà stilistica e musicale va cercata, in primo luogo, nell’unicità della forte motivazione spirituale che - da un’esperienza all’altra, da un lavoro all’altro - persegue, costantemente, lo stesso fine: l’assoluta, irreprimibile necessità di esprimere una verità interiore.
 

 

[*] Maria Matti, Il 13° apostolo, Editrice Il Cardo, Viareggio (1990).



 http://www.robertobeccaceci.it/
  
 
 




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