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Rocco Abate, con suoi scritti e un'intervista
Rocco Abate, elogio del pudore



Voglio bene a Rocco Abate (1950), conosciuto ai primi anni Ottanta al Festival che organizzavo a Certaldo, e da allora dolce presenza che accompagna la mia vita. Persona vera come poche, legato sinceramente alla sua terra (tutti coloro che sono figli della Terra hanno il dono che la Madre gli ha fatto, quello del femminino), affabile conversatore e musicista rigoroso: non c'è una sola sua nota che non sia umana, partorita con infinito amore. M'è dolce rifugiarmi da lui, alla fine delle giornate di lavoro a Milano, una città troppo presa a correre dietro ai compositori di questo o quel clan per soffermarsi con amore su un Autore libero nel cuore prim'ancora che nella mente, così Rocco è sostanzialmente un appartato che, come tutti gli onesti e i puri, instaura con la musica un soliloquio interiore che, al di qua di ogni apprezzamento tecnico, verrà giustamente apprezzato da tutti, nel suo intero valore, quando quei clan saranno spariti.

Nell'estate del 2005, mi parlò del tormento di una scelta che doveva fare: accettare o meno la direzione della Scuola di musica di Sesto San Giovanni, si confidò con me, mettendo sul piatto i pro e i contro, alla fine ha accettato, ma gli amministratori non gli hanno dato retta (e un po' di soldi) per farecose belle e utili, fuori dal solito andazzo clientelare e dalle banalità, s'è quindi dimesso .

A un ampliamento della sfera comunicativa, Abate preferisce andare in profondità, cogliendo, con pudore, uno dei tratti disattesi della (in)cultura di questi ultimi vent'anni di reganismo rampante e di egoismo mercificato, quello della rivalutazione della persona umana. La forza della sua musica sta nel mantenere intatta la squisita cultura e l'avvolgente tenerezza dell'intelletto. La tensione fra indole e rigore metodologico è stata, specie negli anni Ottanta, giocata su nervi, ma mitigata dall'amorevolezza del gesto, che diventa, con gli anni, più raccolto e personale.

L'oggetto musicale che Abate sceglie viene osservato, con spostamenti repentini, da più punti di vista. La forma è il finito di una progettualità compositiva che si realizza nel confronto fra intuizione, ragione e necessità. L'esperienza estetica si compie, al di là dell'oggettività che a volte Abate propugna (rifacendosi a Duchamp), quando riusciamo ad ascoltare nei suoni un quid particolare, un di più, come avviene nella produzione recente che riattiva l'intuizione poetante che non sta in antitesi al ragionamento, ma ne è complementare. Dal 1988 al 1990, Abate scrive solo Spira che costituirà una sorta di prezioso serbatoio. L'esaltazione delle virtualità del suono, inteso come emanazione di un bisogno interiore si riscontra nel R.E.Q.U.I.E.M. (1992) nel quale varie letture di micro-cellule che si aprono a raggiera, lasciano comunque spazio a un gesto emozionale. Alla musica da camera, per la sua stessa natura raccolta e meditativa, Abate è particolarmente legato, si ascolti il bel lavoro Antica (1993) dove la compattezza della forma e la severità del linguaggio si sposano con una struggente voglia di canto, realizzando un brano vigoroso e affascinante.

Negli ultimi lavori, l'intuizione prolunga le prassi rigorose, scartandone però le rigidezze, rendendo più flessibili e indulgenti le articolazioni del pensiero compositivo, più disponibili ad accogliere le movenze dell'espressività che sono troppo spesso celate per candore, mantenendo sempre vigile la razionalità, ma al servizio dell'uomo tutto, fatto di cervello e di cuore, di pulsioni vitali.



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Da Rocco Abate, Il Compositore? Mandiamogli un avviso di garanzia, Rugginenti, Milano 1994.

Il titolo curioso deriva dal clima di Tangentopoli, anche i compositori, dice Abate, hanno 
grandi responsabilità nei rapporti sociali, forse non hanno commesso ladrerie come i politici, ma si sono macchiati della colpa di presunzione, nel caso di quei compositori che si sono chiusi nella torre d'avorio, o di qualunquismo, nel caso di quelli Autori che hanno svenduto le loro operine ben fatte al mercatino del bric e brac. Scrive Abate: " i compositori intelligenti \...\ la loro attività, così scientifica e così poco umana \...\ l'avanguardia è un ciclico processo catartico \...\ un salutare stato febbrile ch'è tanto più benefico quanto più è rapido nel suo apparire, agire e dileguarsi \...\ il cosidetto neo-romanticismo (mai tanto impropriamente fu denominata una corrente artistica che meglio sarebhe chiamare neo-banalismo) \...\ non fu l'auspicato "nuovo capitolo'', ma un frutto malato, nato dall'albero della tradizione severa, un equivoco pretesto, emerso dalle ceneri di uno strutturalismo ipertrofico e agonizzante: la classica risposta sbagliata a un problema reale". 


http://www.roccoabate.it/


Dice Abate: "L'intelligenza non fa il compositore \...\ si tratta di un'intelligenza speciale e che, proprio perché tale, è, forse, più esatto definire intuito, capacità di intuizione \...\ la bellezza è fatta di cquilibri delicati, di proporzioni che non si misurano, ma si intuiscono \...\ è forse il tempo di riparlare anche di quel misterioso oggetto che è la musicalità."



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Autoanalisi

A proposito degli aspetti mediterranei della mia musica vorrei solo dire che essi sono impliciti nell'intero mio essere. Sono stato influenzato anche dalla mediterraneità di intellettuali e artisti, a Calvino devo il gusto per il semplice e il piccolo, a Fellini il predominio della fantasia e la libertà dell'invenzione.

Inizialmente (e lo testimoniano lavori come Notturno con variazioni, Le magie del sig. Niccolò, Lettera a Reiner Maria Rilke) ero animato da una necessità interiore, una sorta di gestualità spontanea i cui elementi si possono sintetizzare nella sequenza immagine-emozione-figura ovvero l'emozionalità scaturita dalla rilettura di una immagine sonora costituiva la spinta propulsiva per lo sviluppo successivo, generando figure e forma.

Tutto ciò non costituisce una presa di posizione filosofica, si tratta piuttosto di un personalissimo modo di sentire e vivere i problemi musicali.

Negli anni che vanno dal 1984 al 1986, si può notare una maggiore estensione delle varie sezioni che compongono un brano e una maggiore consapevolezza del problema delle altezze e delle strutture. Ma è soprattutto col quartetto per archi Recuperi dal silenzio che la mia attenzione viene catturata dal problema del timbro e della natura del suono, senza, tuttavia, rinunciare a nulla di ciò che faceva parte del bagaglio di esperienze accumulate: la piena acquisizione di una maggiore sensibilità timbrica è strettamente relazionata agli elementi emozionali



Da Rocco Abate, Autoanalisi, in Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, Pagano, Napoli 1992.



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Intervista a Rocco Abate

- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
La sostanziale “sordità” del mondo circostante non deve in alcun modo tradursi in “difficoltà”, inibire, cioè l’azione creativa che, invece, dovrebbe rispondere ad una “domanda” profonda e urgente, che agita il petto di chiunque si occupi d’arte. Al più si può comprendere un affievolimento delle motivazioni per patente “inutilità” dello scrivere, ma sappiamo che proprio in questa inutilità si gioca la partita di un’arte che può così non rispondere ad altre finalità che non siano la sua incontaminata purezza. Beh, sì, dopo molti anni si confermano tutte le facili previsioni circa la debolezza strutturale di quelle scelte. A proposito di neo-semplici e neo-romantici, ricordo una lapidaria considerazione di Donatoni: «Uccidono i padri per resuscitare i nonni»; oggi si può aggiungere che, però, non vi riuscirono mai, perché quei nonni, da Strawinsky a Ravel, da Bartók a Britten, esprimono ancora una tale energia da allontanare da sé, qualsiasi ipotesi di riesumazione, perché a tutt’oggi sono vivissimi! Se da un lato intercettare il cuore dell’ascoltatore – oltre che il suo cervello - dovrebbe rientrare nelle “strategie” del compositore, dall’altro, ciò, non può avvenire nell’ignoranza della storia, banalizzando il linguaggio.

- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
Parlo da un punto di osservazione, in un certo senso, privilegiato: il conservatorio di Milano. Qui mi è capitato di far parte di commissioni per la valutazione di partiture di giovani compositori. Allievi, perlopiù, di maestri provenienti, a loro volta, dalle migliori “scuole”: Donatoni, Clementi, Castiglioni, Manzoni, Corghi, Sciarrino, ecc. E tuttavia, un dato ricorrente, spalmabile sulla quasi totalità degli elaborati – peraltro destinati a programmazioni pubbliche, e non già a “compiti” d’esame - è l’assenza totale di coraggio.  Se non si è di fronte a “scorciatoie”, sulla vena rinsecchita del neo romanticismo, si è, per la maggior parte dei casi, al cospetto di un seduto accademismo sulle acquisizioni che avevano esaurito la loro spinta propulsiva già alla fine degli anni ‘70. Assunti che non presentano più caratteristiche dirompenti, ma si attardano su stilemi consunti. Parto dai giovani poiché è da loro che ci si aspetta il gesto iconoclasta, il taglio della tela di Fontana, ma niente di ciò,  sembra all’orizzonte. Né la totale, o quasi, assenza di mercato intorno all’esistere della musica contemporanea, sembra ispirare un “tanto peggio, tanto meglio” cioè assoluta libertà creativa, anzi, al contrario, l’attuale situazione suggerisce un “gioco in difesa” – di cosa? - o rinunciatario.  Donatoni, qualche anno fa mi diceva, riferendosi ad un compositore di nostra conoscenza «Vedi? Quello lì non si sveglierà mai scarafaggio!», alludendo in tal modo alla drammatica crisi d’identità che sconvolge l’ordinaria esistenza di Gregor Samsa, nella Metamorfosi di Kafka. Ecco: la verità è che nessuno sembra più capace di mettersi in discussione. Né, negli altri ambiti linguistici contenuti nella domanda pare accada qualcosa di meglio e di più, anche perché, questi ultimi, più della musica colta, “sul” mercato ci devono stare. Mi pare che la situazione generale mostri una coazione a ripetere che sembra trovare una motivazione “politica”. Nell’ultimo trentennio, cioè a partire dagli gli anni ottanta, l’edonismo reaganiano, il thatcherismo, il craxismo, di cui li berlusconismo è figlio naturale, sono insieme causa ed effetto di un declino culturale planetario, ancora in corso, purtroppo.

- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Qui, poi, siamo al paradosso: quando un ente si vede programmati autori tutelati da “diritto d’autore”, chiede semplicemente di cassarli. Se si considera che la SIAE quella tutela l’ha estesa fino a settant’anni dalla morte, si comprende che l’ostracismo verso gli autori contemporanei è lungo a morire, appunto. Ecco come una difficoltà economica, alla fine, gioca un ruolo determinante nella “politica” culturale di una società.

- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
La partita non può giocarsi a spese della qualità del lavoro compositivo. Mi piace ricordare che tu, con felice intuizione, contrai la parole estetica in etica e cioè e(ste)tica, sottolineando una fusione inscindibile dei due concetti, che io condivido totalmente. La sfida per una “semplificazione” del linguaggio, per essere eticamente corretta, dovrebbe avvenire nel solco della migliore tradizione della civiltà della musica, traducendosi, probabilmente, in un’elaborazione ancora più complessa; stretta tra la necessità di levigare la pelle per rendere più fluido il linguaggio e increspare gli strati sotterranei, substrato strutturante, indispensabile a quella pelle. Personalmente, quella sfida, l’ho affrontata in un mio recente concerto per flauto e orchestra, mi dicono, con esiti felici.

- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio ecc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
La grande montagna di esperienze speculative sulla materia sonora che ci sta alle spalle, dai maestri fiamminghi (Ockeghem, Josquin) ad oggi, è una fonte inesauribile di stimoli e di modelli di organizzazione “pensata” dei processi e delle forme compositive. Non c’è che l’imbarazzo della scelta in un mare tanto vasto. Non vorrei apparirti sbrigativo, ma ritengo che i riferimenti siano ancora i maestri da te citati. E non perché dopo non ci siano stati altri fenomeni interessanti. Si pensi per fare un solo esempio agli spettrali francesi a Grisey, Dusapin e altri. No, alle generazioni dei maestri più recenti, con l’irrompere degli anni ‘80, come dicevo prima, intorno ai fenomeni della ricerca artistica, a poco a poco, si è sviluppato  il deserto dell’indifferenza. Forse un’eccezione è ancora Darmstadt oppure l’IRCAM di Parigi, dove là, effettivamente, più che altrove, si respira un clima di rispetto che va oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Ma, in generale, sembra essere venuto meno il terreno di coltura.

- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Ho la fortuna di non insegnare composizione. Se mi fosse toccato di farlo, avrei sottoposto gli allievi a sedute forzate di analisi, analisi e ancora analisi. Di regole è fatta la buona educazione, di eccezioni i capolavori… e come assimilarle se non attraverso le geniali trasgressioni dei grandi maestri? Un metodo di lavoro insegnato, da iniziale strumento di libertà, può facilmente tradursi in una vera e propria galera.

- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Alla fine, in un certo senso, si è tutti autodidatti. E paradossalmente, lo si è tanto più, quanto più i maestri che si incrociano sono bravi. E sono bravi quando sono capaci di intuire il talento, di rivelarlo ai propri allievi, di aiutarli ad esprimerlo, senza coercizioni, senza imporre metodi, appunto.

- Sulle difficoltà nel rapporto fra la cultura (musicale) locale e quella nazionale (e internazionale). Pensi di aver risentito della cultura della zona in cui vivi? Hai avuto influenze dirette o indirette a livello di zone geografico-culturali nazionali? E le esperienze internazionali come le poni?
Non c’è dubbio che il luogo della formazione prenda il sopravvento sulla cultura respirata in quelli della nascita. Credo che nell’ambito della musica colta, i tratti distintivi delle scuole nazionali – ma anche locali - siano da tempo smarriti. La globalizzazione nella musica colta è storia antica ormai. Un esempio clamoroso è quello di Takemitsu che, è vero, manifesta da subito la distanza dalla musica popolare giapponese, sposando senza riserve il mondo sonoro occidentale. É tanto più vero se si considera che la vena carsica del suo DNA musicale, nonostante la forte connotazione geografica, non affiora che attraverso l’uso di strumenti della tradizione, come biwa o shakuhachi, tutto qui, in fondo, anche nella musica siamo ciò che mangiamo.

- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
Penso che tutto ciò che, con naturale fecondarsi fra generi diversi, nasce di nuovo e di interessante in un linguaggio artistico, vada accolto con serenità. Siamo di fronte, in tal caso ad una mutazione genetica di darwiniana intuizione. Ben altro, cioè, rispetto agli organismi geneticamente modificati. Rimango fermamente convinto che debba essere il pubblico a cercare ad intercettare la sensibilità dell’artista e non, viceversa, l’artista ad irretire il pubblico, rompendo in modo forzato le barriere fra i generi. Pena la condanna per falsa testimonianza! L’artista, però, dal canto suo, ha il dovere di capire se la sua cultura, la sua formazione, le sue conoscenze, non siano così ingombranti da annichilire le sue “urgenze” espressive più profonde. Ma se nelle tenaglie delle necessità, è sicuro di aver trovato un buon equilibrio fra le due, non ha che da esprimersi libero e con la massima autenticità di cui è capace. La verità, in fondo, è che neppure il pubblico è libero, condizionato com’è da ciò che gli viene ammannito dal supermercato del consumismo facile…ecco che rientra la questione “politica”, ma l’abbiamo già detto.

- Fai uno sguardo auto-critico sulla tua attività recente, come la giudichi?
Beh, per lungo tempo, dopo un esordio nebuloso, muovo i primi passi compositivi scimmiottando autori come Hindemith, Bartók, Ibert, poi ho pensato che la radicalità della ricerca fosse un dovere storico irrinunciabile. Avevo necessità di ordine. Incontro Donatoni. Da lì è stato un procedere a testa bassa, non voltandosi indietro, un sentiero diritto, in salita, non panoramico,  all’inseguimento di un obiettivo assoluto, come un moscerino che vola rapido verso una lampada incandescente, fino a bruciarsi. Ultimamente le cose son cambiate: l’ordine perde la sua rigidità per stemperarsi in un più consapevole rigore. E quel sentiero, oggi esiste ancora, davanti a me e alle mie spalle, ma mi piace immaginarlo obliquo, sempre in salita e adagiato lungo la fiancata di un monte. E da questa posizione voltarmi verso qualsiasi orizzonte, in qualsiasi momento, indietro per non smarrire il punto dal quale si proviene, di lato per orientarsi e intuire meglio in che direzione si procede, pur con meta sconosciuta, sempre! per fortuna.  

- Progetti
Progetti e speranze. A parte alcune commissioni di grandi musicisti come Pierre-Yves Artaud e di Mario Marzi alle quali sto lavorando, il mio desiderio più prepotente è di dedicarmi quanto prima alla realizzazione di un sogno: la composizione di una serie di operine di teatro musicale, realizzate da bambini per altri bambini. La deriva culturale e morale dell’Italia di oggi sarà la croce che gli adulti di domani si troveranno a trascinare in salita. Bisogna avvicinarli questi bambini, trasferirgli in modo semplice e giocoso i  contenuti educativi dei nostri padri, i valori di sempre,  che distinguono la civiltà dalla barbarie che oggi gli stiamo cinicamente ammannendo. A loro, liberi dalle inibizioni degli adulti, portare quei valori, sulle ali di  suoni nuovi, anche perché scoprano prima possibile, che la vera ricchezza sta nella molteplicità, la libertà, nella scelta, la scelta, nella conoscenza.



Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.



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Sul silenzio, scritto di Rocco Abate (2005)

Com’è difficile stanare il nucleo generativo del fare poetico dalla regione remota in cui esso s’invera. Difficile ma, fors’anche per questo,  affascinante,  al tempo stesso, che quella regione remota occupi zone inaccessibili, misteriose, sottraendosi allo scandaglio dell’azione codificatrice e notarile della ragione. “…Si disilluda subito chi suppone che si intenda chiarire ciò che per sua natura non può essere chiarito…”. Questo, Franco Donatoni, uno dei massimi compositori del secondo ‘900, faceva scrivere, in una pubblicazione Adelphi, a proposito del suo ANTECEDENTE X, così interpretando quel luogo-momento che precede l’atto creativo, nell’attesa che la parola, il suono, il segno denudino la visione.

Al pari di alcune creature abitatrici degli abissi –tanto straordinariamente belle nel loro vestito di tenebra, quanto fragili, fino a morirne, se soltanto lambite dalla luce-, il germe ispiratore della creatività non ama i riflettori. Non conosce i clamori. Simile ad un puro trasudar di pelle, col furore silente ma inesorabile di un lichene che disegna la sua presenza, morfologicamente impermanente, sulla roccia, o –sotto apparente fissità- la celata mutevolezza delle nuvole, l’impulso creativo agisce, imperscrutato e sotterraneo, e guida il gesto di chi (Nadia) sa “auscultarlo” con precisione assoluta.

Una recente silloge del poeta dialettale Giacinto Luzzi porta il seguente titolo: “E’ l’ore ‘i sta’ citte”, la cui traduzione letterale in “E’ l’ora di tacere” ne sottace quella filosofica, di gran lunga più significativa di: “E’ l’ora del silenzio”. Un silenzio dovuto, di fronte agli angosciosi interrogativi dell’attualità, che impongono  un “Che fare?” non oltre procrastinabile. Eccolo, dunque il silenzio (o l’ammutolimento) sgomento a cui l’uomo contemporaneo viene richiamato dalla sua stessa vertigine che gli deriva dalla perdita di senso gravitazionale (si direbbe smarrito per sempre) della sua esistenza, o dall’imperiosa violenza di una natura, oggi più che mai, esausta.

Smarrimento, Solitudine, Silenzio…Di cos’altro parlano allora le “Sedie” bianche e vuote, “scolpite” nel buio di un fondale infinito sulle quali Nadia mette a sedere, senza acclararlo ma suggerendone il senso nascosto, le tre S S S ?... ma forse parlano anche di attesa –dal momento che “The show must go on”- …dell’attesa del pubblico che prenda posto, ora assente, forse:
(a)  per aver “già visto”.
(b)  per avere comunque immaginato…” tanto si sa come va il mondo… non c’è niente da vedere”.
(c)   per il fondato terrore di vederlo quel baratro (per quanto “spettacolare”) sul cui crinale pericolosamente  oscilla (quella sedia che l’attende?) il residuale equilibrio della società contemporanea.
E’ da queste tre S, da tale privilegiato punto di osservazione, che promana la visione “fotoradiopsicoesistenzialstereografica” dello Smarrimento dell’umanità che, con minuziosa  precisione, Nadia riconduce sulla pelle fin porosa delle sue rappresentazioni e sotto lo sguardo stupefatto di tutti noi; da  una imprescindibile condizione di Solitudine riflessiva (“Le opere d’arte sono di indicibile solitudine”; R. M. Rilke), dal quel “sovrumano” Silenzio (fecondo con chi sa percepirne il segreto pulsare) che si fa Suono solo nell’orecchio del musicista, Significato nel cuore del poeta, Segno nella mano del pittore. Da ciò e da una versatilità fervida nella capacità di interrogare i materiali (carta, tela, acetato, tessuto, pietra e…altro e oltre) affiorano le fantastiche creature/creazioni di Nadia Nava.

“Parlate! Comunicate fra di voi! Non ascoltate!”, urlava Erik Satie al pubblico presente ai suoi concerti quando, nel 1919, teorizzava la musica d’ameublement (ammobiliamento, “tappezzeria”), quale dichiarazione dell’assoluta inutilità dell’arte…”ma il pubblico ascoltò, senza parlare”. Così, analogamente, al “Concerto” di Nadia Nava, dove il Silenzio si “ascolta” provenire da una visionarietà immaginifica di stupefacente ricchezza la cui rappresentazione iconografica lascia senza parole e il Suono si  “vede”, raggelato e sospeso…nella distanza che passa fra la mano e un tasto, fra la mano, lo spartito e la bocca di un corista fuori scena…

Il tutto, in un incantamento che, prima o poi, le vedrà quelle mani muoversi e vorticosamente scivolare sulle tastiere (del pianoforte o del liuto), agitare gli archetti e sfregare le corde (dei violini); le vedrà quelle mani pulsare impercettibilmente e ondeggiare con lo spartito che sorreggono, a seguire un proprio ritmo, un canto interiore. E, a chiudere, l’”Applauso”, fragoroso nella visione e silenzioso nel suono, al quale vorremmo prestare anche le nostre mani, sicuri che una possibilità di salvezza per l’umanità risieda proprio nella sua capacità di “ascoltare” il  Silenzio e di applaudire all’incommensurabile bellezza dell’inutilità, non solo dell’arte.
 
 

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