Bruno Bettinelli, con intervista
Il signore del contrappuntoHo avuto l'onore di essere amico di Bruno Bettinelli (Milano 1913 - 2004), un vero signore, non solo della musica, ma come uomo. Accudito con infinito amore da Silvia Bianchera, a me così cara (anche come compositrice), Bettinelli è un esempio di onestà intellettuale, di sapienza artigianale, a stargli vicino ho imparato la serietà nell'affrontare le cose e l'impegno nel realizzarle, con profonda consapevolezza. La sua stima mi ha riempito di gioia e, a volte, mi è stata utile per trovare la forza nelle lunghe ore, giorni, settimane, mesi, di studio. Negli ultimi tempi ha composto solo per coro, ma sono state pagine già sufficienti a regalarci ore di musica purissima. Con lui scompare uno stile di vita, oltre a un grandissimo compositore e didatta. Di lui conserverò sempre un rispettoso senso di amicizia.
L’importante Collana Linguaggi della musica contemporanea, sostanziosa e ricca di nomi prestigiosi, che Guido Miano ha realizzato, e che ho avuto l'onore di dirigere, iniziò nel 1989 con un libro giustamente dedicato a Bruno Bettinelli, giustamente in quanto il Maestro era, insieme a Petrassi, il decano dei nostri compositori e uno dei più apprezzati in campo internazionale. Quell’edizione riportava un’introduzione di Gianandrea Gavazzeni e lusinghieri giudizi critici di illustri musicisti e musicologi che dicevano quanto la figura di Bettinelli sia importante e amata.
Nato nel 1913, il giovane Bettinelli ha compiuto gli studi al Conservatorio di Milano, in un’epoca d’oro, come lui stesso ricorda: "la situazione musicale del Conservatorio di Milano durante gli anni Trenta era orientata sulla base di studi seri / …/ si avevano molti concerti di musica da camera, pressoché ogni sera, e sinfonici / …/ mi ricordo di aver ascoltato Horowitz, Milstein, Casals, Mainardi, Rachmaninoff e fra gli autori eseguiti c’erano, Stravinskij, Hindemith, Ravel, Honneger, Prokof’ev, Schoenberg etc.". Nel Conservatorio milanese Bettinelli ha poi insegnato composizione per vari decenni. Ha vinto numerosi concorsi nazionali e internazionali.
E’ stato membro dell’Accademia nazionale di santa Cecilia a Roma e dell’Accademia Cherubini a Firenze. E’ stato anche critico musicale e revisore di musica (Corelli, Nardini, Bomporti, Sammartini etc.). Bruno Bettinelli appartiene a quelle che si chiamano "generazioni di mezzo", quelle cioè che stanno fra avvenimenti di primaria importanza: nato nel 1913 è di poco più giovane della prima generazione che ha dato alla musica italiana una svolta internazionale, quella di Petrassi e Dallapiccola (entrambi nati nel 1904), e precede di poco la generazione degli anni Venti (quella dei Maderna, Nono, Berio, Donatoni, Clementi, Togni etc.) che ha consolidato l’importanza primaria della nostra musica.
La sua figura però non né ha sofferto, anzi la sua produzione musicale è riconosciuta unanimemente tra le più interessanti dell’intero panorama nazionale, grazie sia alla sua dote di robusto costruttore, sia alla straordinaria padronanza tecnica, sia alla severità e umanità con il quale ha sempre affrontato il lavoro. Ma c’è anche un altro aspetto che rende la figura di Bettinelli straordinaria e forse unica, quello didattico, infatti dalla sua prestigiosa scuola sono usciti musicisti del calibro di Muti, Pollini, Canino e moltissimi compositori. Bettinelli ha dato alle stampe un sunto delle sue convinzioni didattiche nel libro La composizione musicale, si tratta di preziosi suggerimenti e considerazioni alla giuda dello studio della composizione, con una bibliografia ragionata.
Bettinelli è autore di tre Opere teatrali (Il pozzo e il pendolo del 1957, La smorfia del 1959 e Count Down del 1969), di molte composizioni per sola orchestra, fra cui sette Sinfonie (che dalla Quarta in poi non hanno nulla a che vedere con la forma tradizionale), e di composizioni per solisti o orchestra. Da segnalare anche la produzione per coro, sia da solo, sia con l’orchestra, sia con organo e pianoforte. Ovviamente nutrito è il catalogo della musica da camera, con una particolare sezione per le musiche vocali. Proprio composizioni corali sono fra le ultime fatiche del Maestro (edite da Carrara o da Suvini Zerboni), come Missa Brevis, Tre lamenti e Aurora (tutte del 1997).
Le opere teatrali sono nate dal desiderio di cimentarsi con questo genere così importante per la tradizione musicale italiana e il fatto di aver svolto, in gioventù, il ruolo di maestro sostituto in teatro (nelle stagioni pre-Scala e al Teatro Dal Verme) ha spinto Bettinelli ha cercare dei libretti adatti al proprio temperamento portato alle tensioni drammatiche (fa eccezione l’operina buffa La smorfia). La musica per coro, sacra o profana, lo affascina per il colore delle voci, le sonorità morbide o potenti, gli impasti derivati dalle infinite varietà di trattamento. Le strade maestre della sua produzione sono però le Sinfonie, i Concerti e le Cantate per coro e orchestra (su liriche di Ungaretti e di Tommaso Campanella).
"Ho sempre sentito una grande attrazione per le infinite possibilità timbriche dell’orchestra e del coro" – dice Bettinelli – "mi ha aiutato la fortuna di sentire dentro di me, senza che nessuno me lo abbia mai spiegato, il colore, gli impasti sonori, il peso, il timbro degli strumenti, le proporzioni e gli equilibri nella distribuzione delle varie sezioni. Da tale sensibilità timbrica deriva la mia predilezione per i sinfonico e per l’ampiezza del respiro, per l’infinita gamma di colori che offre la possibilità di concepire alla grande e in piena libertà formale" I lavori orchestrali sono davvero dei capolavori, dalle lontane Sinfonie n. 5 (1976), n. 6 (1976) e n. 7 (1978) ai più recenti Quarto Concerto (1988) e Salmo IV per coro e orchestra (1992), opere dove si riscontra un’accesa e vigorosa articolazione del linguaggio, basato su un libero atonalismo volto a fini comunicativi.
La concezione compositiva di Bettinelli discende dalla ricerca di uno spazio musicale puramente strumentale, una ricerca che porta a termine i fervori innovativi della generazione dell’Ottanta, soprattutto di un Malipiero e di un Casella in Italia, ma che trova in Stravinskij, Bartòk e Hindemith i grandi Maestri europei, ai quali il giovane Bettinelli guarda con profitto, percorrendo una strada simile eppur diversissima a quella di Petrassi. Per esempio, in lavori come la Sinfonia da camera del 1938 (il cui finale è il noto ed eseguitissimo Coro ostinato) e le Due invenzioni per orchestra del 1939, sono riscontrabili alcune movenze neo-classiche alla Hindemith.
Il linguaggio di Bettinelli si estrinseca tramite il totale cromatico, inteso come libero e fantasioso atonalismo, non vincolato a schemi fissi o a formule pre-costituite. Ne consegue un discorso basato su strutture e cellule tematiche in continuo movimento, che si sviluppano per germinazione spontanea, secondo il principio della variazione continua e delle formule speculative della tecnica contrappuntistica, germinazione che fa derivare anche degli agglomerati accordali complessi, fino a raggiungere il totale cromatico. In certe partiture, quando il colore degli impasti strumentali lo richiede, Bettinelli ha pure adoperato un’ aleatorietà controllata, nella quale si fondono parti ritmicamente casuali (scaturite però da suggerimenti seriali) con altre sezioni assolutamente controllate.
La musica di Bettinelli mantiene una concezione dialogica, un criterio costruttivo chiaro e dialettico, di profonda partecipazione emotiva. Il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica sono altre due caratteristiche personali. "La mia musica ha sempre un’articolazione discorsiva" – dichiara il Maestro – "il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica sono i fattori costanti che, da sempre, caratterizzano la mia produzione. Costituiscono un’ossatura che consente di portare avanti un discorso coerente, strutturato sulla base di un continuo variare degli elementi proposti all’inizio e, successivamente, scomposti, rielaborati per germinazione spontanea, rovesciati, riesposti nelle figurazioni cellulari più svariate che, derivate dalla speculazione contrappuntistica dei fiamminghi, costituiscono anche la complessa elaborazione della tecnica seriale ortodossa. Una tecnica che io, dopo alcuni esperimenti, ho abbandonato, perché troppo vincolante. Ho preferito quindi attenermi al solo totale cromatico, più libero e ricco di risultati altrettanto coerenti, ma, al tempo stesso, più spontanei" .
Bettinelli ha sempre avuto una particolare predilezione per le sonorità degli archi, come si può notare da una serie molto bella di brani quali Due invenzioni, Introduzione, Fantasia e Fuga su temi gregoriani, Sinfonia n. 3, Musica per 12, Tre studi d'interpretazione, Monologo per violino solo e i due Quartetti d'archi di cui il secondo, a mio avviso, è un piccolo capolavoro basato sul totale cromatico non seriale e su momenti politonali, senza perdere il procedere discorsivo. La libera atonalità, non vincolata da formule precostituite permette a Bettinelli di costruire il brano seguendo la sua straordinaria fantasia creativa e di arivare così direttamente all'ascoltatore (si ascolti il Trio per pianoforte, violino e violoncello).
Dell'allora attuale situazione in cui versava la composizione, Bettinelli non era contento (ma la situazione è peggiorata), perché vedeva un disorientamento, causato dall’esaurirsi dello sperimentalismo, un esaurimento per altro positivo, ma che ha lasciato campo libero a un certo qualunquismo, ma "ciò che conta" – dice Bettinelli – "è il saper rendersi conto nel dovuto modo che in musica tutto è permesso, niente è permesso. Ai velleitari si addice il silenzio". E certo che di Bettinelli tutto si può dire fuorché sia un velleitario, anzi lui è veramente un signore, il signore del contrappunto.
Vi è un brano del 1985 il cui titolo potrebbe trarre in inganno, Strutture, in quanto potrebbe riferirsi a procedimenti di tipo strutturalistico (anche Boulez ha scritto un pezzo dallo stesso titolo) ovviamente non è così, infatti, la composizione per piccola orchestra si basa su episodi sonori che si susseguono senza soluzione di continuità in continua trasformazione, come succede anche in Musica per 12, per clavicembalo e 11 archi, brano che si articola in vari episodi tutti derivati da alcune cellule iniziali (anche in questi brani il totale cromatico viene trattato liberamente).
La classicità del costrutto, la chiara profilatura del fraseggio, la nettezza delle linee contrappuntistiche e verticali, l’energia ritmica e la fantasia strumentale fanno della produzione di Bettinelli un punto di riferimento per tutti quei giovani compositori che vogliono muoversi su un terreno che mantiene salde le radici con la storia, senza banalizzarle in schematismi, intendendo la tradizione in maniera sempre rinnovata, proprio come ha insegnato Bettinelli, esprimendo una poetica artigianale, fatta di lavoro su elementi concreti e poco propensa ad avventurarsi sui terreni minati delle teorie e delle ideologie, senza rincorrere i fuochi fatui delle ricerche radicali o delle modi luccicanti.
Bettinelli ha percorso, con coerenza e rigore, una strada di confine fra modernità e tradizione, fra classicismo della forma e romanticismo dell’espressività, fra artigianato e introspezione, realizzando un’articolata produzione che rimarrà nella storia della musica del Novecento come una delle più salde e vibranti.
Bruno Bettinelli, Il signore del contrappunto, in Rivista "Angeli e Poeti" n. 4, Miano, Milano 2000.
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Intervista
R. C. Certe movenze neo classiche, un certo Stravinskij e un certo Hindemith (penso alle Due invenzioni per orchestra del 1939), insieme a certi influssi bartokiani (come in Musica per archi del 1958) sono presenti nella tua musica: quali consideri i tuoi punti di riferimento a livello compositivo?
B. B. Prima delle Due invenzioni per orchestra nasce la Sinfonia da camera (1938), il cui finale è il noto Coro ostinato, a tuttoggi molto eseguito nella versione per grande orchestra. Questa sinfonia ha alcune movenze neo classiche, alla Hindemith, che si possono riscontrare anche nelle Due invenzioni, ma è assai più duttile. In un tempo successivo mi orienterò, come la maggior parte dei giovani compositori di queli anni, vero Bartok, per arrivare in seguito al totale cromatico, atonale, libero non seriale.
R. C. La tua musica ha sempre un'articolazione discorsiva, un critierio costruttivo chiaro e potente, di profonda partecipazione emotiva: hai sempre avuto fiducia nelle possibilità comunicative dell'arte?
B. B. Come dici giustamente la mia musica ha sempre un'articolazione discorsiva e un criterio costruttivo chiaro, anche se assolutamente libero da vincoli formali tradizionali. Il fatto di dover analizzare e insegnare agli allievi, per tanti anni, le forme classiche fa sì che quando scrivo rifiuto qualsiasi riferimento a queste forme, gloriose ma ormai lontane da noi e irripetibili. Agli allievi dico di fare la stessa cosa. La mia partecipazione emotiva, sempre rigorosamente controllata, mi ha continuamente indotto a comunicare con chi ascolta la mia musica. Una musica che non sappia comunicare un'emozione, una tensione (non sciocchi sentimentalismi e descrittivismi dilettanteschi) è solo arida speculazione, forse interessante ma alla lunga ripetitiva e noiosa, e la noia e la grande nemica dell'arte.
R. C. Il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica sono due caratteristiche fondamentali della tua produzione musicali, sono delle costanti o hai modificato le tue concezioni ritmiche e armoniche con l'andar del tempo?
B. B. Il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica, a cui giustamente alludi, sono i fattori costanti che, da sempre, caratterizzano la mia musica. Costituiscono un'ossatua che consente di portare avanti un discorso coerente, soprattutto sulla base di un continuo variare degli elementi proposti all'inizio e, successivamente, scomposti, rielaborati per germinazione spontanea, rovesciati, riesposti nelle figurazioni cellullari più svariate che, derivate dalla speculazione contrappuntistica dei fiamminghi, costituiscono anche la complessa eleaborazione della tecnica seriale ortodossa. Una tecnica che io, dopo alcuni esperimenti, ho abbandonato perché troppo vincolante. Ho preferito quindi attenermi al solo totale cromatico, più libero e ricco di risultati altrettanto coerenti, ma, al tempo stesso, più spontanei.
R. C. Due sono le strade maestre all'interno del tuo percorso artistico: le sinfonie e i concerti, da che cosa deriva la predilezione per queste forme?
B. B. Le strade maestre sono effettivamente le sinfonie e i concerti ma anche le cantate per coro e corchestra (su testi di Ungaretti e su un sonetto di Michele Campanella). Ho sempre sentito, fin da ragazzo, una grande attrazione per le infinite possibilità timbriche dell'orchestra e del coro. In questo mi ha aiutato la fortuna di poter percepire dentro di me, senza che nessuno me lo abbia mai spiegato, il colore, gli impasti sonori, il peso, il timbro degli strumenti, le proporzioni e gli equilibri nella distribuzione delle varie sezioni, il senso della forma che può derivare da una giusta impostazione di tutto questo. Così dicasi per quanto riguarda la voce singola o nell'insieme corale. Da tale sensibilità timbrica deriva la mia predilezione per il sinfonico e per l'ampiezza di respiro, per l'infinita gamma di colori che offre la possibilità di concepire alla grande e in piena libertà formale. Infatti, le mie 7 sinfonie, specialmente dalla quarta in poi non hanno nulla a che vedere con l'omonima forma tradizonale.
R. C. La tua produzione tocca anche il teatro (tre opere: Il pozzo e il pendolo del 1957, La smorfia del 1959 e Count Down del 1969) e la musica sacra ovvero due generi che, almeno fino ad anni recenti, sono stati trascurati nel panoramna della musica contemporanea: quale importanza attribuisci a questi aspetti del tuo percorso artistico?
B. B. Le mie opere teatrali sono nate dal desiderio di cimentarmi anche in questo campo. Il fatto di aver svolto, da giovane, un'attività come maestro sostituto in teatro (nelle stagioni pre Scala e al teatro Del Verme), mi ha spinto a cercare dei libretti adatti al mio temperamento portato alle tensioni drammatiche (fa eccezione l'operina buffa La smorfia che, infatti, ho chiuso per sempre nel cassetto). Oggi non mi sento di affrontare il teatro lirico, per troppe ragioni. Per ciò che riguarda la musica sacra o profana per coro, ciò che mi affascina è il colore delle voci, le sonorità morbide o potenti, gli impasti, le varietà di trattamento, anche il fascino del latino, in più c'è la bella tradizione del canto corale italiano.
R. C. Quali sono i tuoi ultimi lavori, su quali elementi concentri l'attenzione?
B. B. I miei lavori recenti sono il Quarto concerto per orchestra, la Sonata per violino e pianoforte, lo Studio per orchestra e i Tre pezzi per pianoforte. Il Quarto concerto, che potrebbe essere, come mole, una sinfonia, è condotto con meno rigore del solito, formalmente più libero, quasi rapsodico. Lo Studio per orchestra è ancora più 'spregiudicato' e si avvale di alcuni episodi di aleatorietà controllata, usata come sfondo, sul quale si articola un discorso condotto con coerenza, che imbriglia l'episodio aleatorio. La Sonata per violino e pianoforte, totalmente atonale, ha tre tempi che possono ricordare, alla lontana, le strutture della forma classica, senza cadere però negli stilemi tradizionali. I Tre pezzi per pianoforte sfruttano le molte possibilità che può offrire ancora oggi questo strumento, senza tuttavia cadere in certe sofisticazioni di moda, oramai obsolete e ripetitive di una certa avanguardia che, per reaazione, ha provocato quello strano neo romanticismo che non si capisce bene dove voglia andare a parare. Dopo i Tre studi d'interpretazione per archi e due Trii per vari strumenti, fra gli ultimi lavori c'è il Trio per violino, violoncello e pianoforte.
Da Intervista di Renzo Cresti a Bruno Bettinelli, in "Piano time", n. 97, Roma Aprile 1992.
A Silvia Bianchera
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