Davide Anzaghi, con un suo scritto
L'eleganza dello stileHo conosciuto Anzaghi negli anni Ottanta, persona raffinta e di intelligenza sottile, colta e sempre attenta a fare della musica non un trastullo per anime belle o un gioco accademico per intellettuali narcisiti, ma un momento di partecipata comunicazione, un momento profondamente espressivo in cui la comunità (degli ascoltatori) si possa riconoscere e scambiarsi idee e sensazioni vere.
Nato a Milano nel 1936 appartiene a quella che potremmo definire la generazione di mezzo, compresa fra i maestri che si affermarono in campo internazionale negli anni Cinquanta (i compositori nati negli anni Venti, come Maderna, Nono, Berio) e quelli che furono chiamati 'i giovani compositori' (nati fra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta, da Sciarrino in poi), generazione che vede indubbiamente molti autori di grande livello, come appunto Anzaghi, ma che risente di un certo schicciamento (sarebbe l'ora di riconsiderarla come merita).
Anzaghi fu introdotto giovanissimo alla musica dal padre, dal 1968 inizia il suo percorso artistico dedicato alla composizione, regalando però molte delle sue energie anche alla didattica e all'organizzazione musicale. Negli anni Settanta vince numerosi concorsi internazionali e il suo stile è orientato verso una certa sperimentazione tecnico-formale, che abbandona dalla metà degli anni Ottanta (come dimostra lo scritto riportato più sotto). Le architetture musicali diventano più semplici e soprattutto orientate verso un'immediatezza d'ascolto.
Dal 1984, Anzaghi percorre un itinerario orientato verso una sobria rivalutazione dell'ascolto, risolvendo in efficacia acustica/espressiva struttre a volte complesse, approdando spesso a una scrittura armonica ed eufonica, nella quale trapela una componente onirica. Linguaggio poetico e vagamente dialettico quello di Anzaghi fa emergere sempre la poetica di fondo che sorregge ogni lavoro.
Ha scritto un'opera teatrale, Il luogo della Mente, un atto per soprano e orchestra (anche in versione con pianoforte), 4 sono le composizioni per voce recitante e strumenti o coro, numerosi i brani solistici (con preminenza di quelli pianistici) e di solista con orchestra, inoltre, brani orchestrali e musica sacra, ma la parte più consistente del suo catalogo riguarda la musica da camera, settore, a mio avviso, dove la sensibilità espressiva e l'eleganza del tratto meglio si manifesta.
A dimostrazione del suo impegno per la diffusione della musica, numerosi sono i suoi incarichi (ha fatto parte del CDA de I pomeriggi musicali di Milano, del CDA dell'Angelicum, di quello del Conservatorio milanese etc.).
Nel 1994 ha fondato l'associazione per l'arte contemporanea Novurgia http://www.novurgia.it/
Dal 2003 è Presidente della S.I.M.C. http://www.simc-italia.it/
Da Renzo Cresti, Enciclopedia Italiana degli Autori Contemporanei, III voll. e 10 cd, Pagano, Napoli 1999-2000.
Davide Anzaghi, Appunti per una saggio sulla comunicazione musicale: la negazione della comunicazione come comunicazione della negazione.
Fu mai scritto che le neoavanguardie musicali del secolo scorso (quelle musicali soltanto?) profusero torrentizie orge narcisistiche sostanziate d’enfasi comunicativa, ancorché negativa?
Fu mai autorevolmente scritto che il rifiuto di una musica accostabile non fu riferibile al bisogno di sottrarsi al mercimonio della musica di consumo bensì per praticare il mercimonio di una musica scaturita da inclinazioni autistiche? L’ideologia - “oppio dei popoli” - confuse le menti: primariamente quelle dei creatori di un nulla (non quello leopardiano) con il quale cullare le proprie onanistiche ambizioni: quelle per una musica a portata di qualsivoglia poetica, purché ammantata di filosofia d’accatto?
Fu mai scritto che quella musica non è più ascoltabile da chi la musica ama?
Fu mai scritto che non fu l’asperità intellettuale della nuova musica a renderla inaccostabile ad ogni tentativo di conoscenza?
Fu mai ammessa la perseguita negatività comunicativa di tanta nuova musica? Di essa si comprende, benissimo, il suo diniego dell’ascolto; il rifiuto di essere captata come “arte dei suoni”; il suo sentenzioso ergersi ad avanguardia di sprovveduti compositori e perplessi ascoltatori. La vomitò un sedicente progressismo che rivela, ora e finalmente, la sua supponenza. Pochi si sottrassero alle sterili escogitazioni ideate da un parossistico intellettualismo: i vocati alla musica e non alle sole poetiche. Soccombettero i vocati alla logorrea e all’orpellatura filosofica.
Il nuovo non abita più qui.
Tra le più disperanti assenze che l’arte recente lamenta va innanzitutto annoverata quella del Nuovo, inteso come aurea spontaneità e non già come ricerca del nuovo. Ma la stessa spontaneità è condizione attualmente assente - surrogata com’è dalla incontinenza che, lungi dall’attestare una buona condizione fisiologica, esibisce impudicamente i sintomi di collassati sfinteri - del pessimo funzionamento dei quali una frangia della società parrebbe affetta, come testimoniano, con dovizia di raccapriccianti esempi, le quotidiane cronache; e non dell’arte soltanto.
Nuovo parve quel materiale fecale che, negato a congrui luoghi di decenza, fu invece destinato al mercato dell’arte e - sigillato e suggellato in barattoli etichettati con memorabile didascalia - dato in pasto a voraci e onnivori fruitori del nuovo purchessia. Era presagio di tempi futuri nei quali, con sillogismo sghembo, ognuno, scoprendosi visitato da peristalsi, si sentì vocato all’arte e determinato a praticarla.
All’opposto, il costipato e strenuo intellettualismo di molte opere, che ad una malintesa e degradata spontaneità si oppongono, testimonia la difficoltà di trovare quelle soluzioni nuove di cui parlava Picasso quando diceva di non volerle cercare ma di saperle trovare. A parole, il processo sembrerebbe semplice: basterebbe farsi “trovatori”, con in più l’aggettivo “novelli”. Ma nell’arcaismo, come ognun sa, molto è dato trovare; ma non il nuovo.
Dove risiede allora il nominatissimo valore se ovunque lo si cerchi non se ne trovano che fuorvianti tracce? In un film di Hitchcock dal titolo Intrigo Internazionale (titolo tanto inconsapevolmente sociologico quanto sociologicamente significativo) la sceneggiatura costruisce un singolare personaggio non corrispondente ad alcuna concreta persona e la cui fittizia fisionomia è costituita dai soli segni che il passaggio dell’irreale personaggio produrrebbe, se la persona esistesse davvero.
Poche metafore sembrerebbero altrettanto emblematiche della falsificazione del nuovo nella nostra recente cultura, la quale ne addita continuamente la ubiqua presenza, fingendo d’ignorare che di presenza obliqua si tratta; fatta di soli ingannevoli attributi, in assenza di un soggetto al quale attribuirli.
Che altro dire allora di qualcosa di cui resta soltanto memoria e che non è dato esperire se non in modo simulato? I fruitori dell’arte del presente hanno le stesse probabilità d’imbattersi in un autentico Nuovo dei bambini di New York d’incontrare una gallina ruspante per le strade di Manhattan. Devono recarsi allo zoo, quei bambini, per sapere che cos’è una gallina, viva ovviamente: soltanto lì infatti possono fare esperienza della gallina stessa; ma esperienza mistificata.
Se si conviene che gli animali visti allo zoo risultano diversi dai loro simili altrove locati; se si consente che i nostri concerti, mostre, musei d’arte contemporanea altro non sono che gli zoo delle opere in cattività o peggio dei loro catturati autori, si potrà mestamente concludere che il nuovo non abita più qui. E non ha lasciato alcun recapito.
Che fine ha fatto la soggettività?
Quella soggettività che i molti slogan industriali evocano - quando affermano che il prodotto x può essere “personalizzato” - è un sosia rassicurante inviato fra la gente per impedirle di interrogarsi sulla scomparsa di un’altra soggettività, ben diversamente caratterizzata e appagante. Ma la ottundente presenza della prima addita l’assenza della seconda. Non occorre condividere le tesi sociologiche di Adorno o Marcuse per percepire la contraddizione fra la sedicente possibilità di personalizzare qualcosa e la natura spersonalizzata del qualcosa. In tale misero conto è tenuta la persona che dovrebbe bastare un ghirigoro o una sigla a soddisfarne le aspirazioni. Così si vorrebbe.
Immersi in una realtà che per replicarsi deve continuamente perseguire l’obliterazione del Soggetto, è facile perdere il contatto con la propria soggettività giungendo al punto di non sapere più che cosa essa sia, sospinta com’è a divenire quello che si vuole che sia. Tanto varrebbe opporsi alla finzione di essere soggettivamente liberi e rinchiudersi in una prigione: in tal modo si vedrebbero meglio i confini della propria libertà. Fuori non si vedono quelli della prigionia.
Da queste premesse si accede, attraverso pervio e consequenziale itinerario, ad una poetica della soggettività imprigionata. Adottarla significa eludere ogni impulso proveniente da istanze per nulla soggettive ma in tutto soggette alla logica del marketing: capace di contrabbandare condizionamento per spontaneità, scrosci di banalità per flussi ideativi, spudoratezza per urgenza espressiva, coartazione per libertà. Meglio impedire di agire a siffatta soggettività e rinchiuderla in quelle prigioni che il presago Piranesi chiamò Carceri d’Invenzione. Occorrerà tenercela - eventualmente a lungo - fintanto che non abbia ritrovato la propria autenticità. Nel buio delle segrete del Castello, sul cui ingresso è leggibile un’ingannevole epigrafe inneggiante alla libertà, possono prodursi salutari cambiamenti. Sia pure a prezzo della reclusione.
Nella concreta prassi compositiva si potrebbe operare così: ordire le prime trame della scrittura, ricorrendo ad un codice fortemente formalizzato, basato - per esempio - su vincolanti rapporti numerici istituibili fra i suoni. Una prigione volontaria e metaforica. L’adozione di un codice restrittivo potrebbe così diventare occasione preziosa per ritrovare, grazie ad esso, una vera soggettività compositiva. Come? Al numero e al suo intrusivo pervadere le trame del comporre sarebbe demandato il compito, storicamente provvisorio, di produrre forme intermedie e paradossali, tanto imprevedibili quanto gravide di virtualità immaginifiche per la propria reattività. Dalla coniugazione degli esiti di una logica aliena (tale sarebbe quella numerica) con una emotività costretta a reagire a stimoli incontaminati da qualsiasi interferenza pseudosoggettiva, un’autentica soggettività apprenderebbe a leggere le peculiarità del proprio reagire, a riconoscere la fisionomia del proprio Sé. Non schiacciata dalla pressione delle strategie consumistiche Il Soggetto si riapproprierebbe del governo dei processi compositivi senza più timore di mimare, inconsapevolmente, le “personalizzazioni” care alle tattiche del mercimonio.
Nel modo anzidetto si è orientata la mia attività compositiva: a decorrere dal 1984.
http://www.davideanzaghi.com/