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Fase prima, quasi un dizionario (in ordine cronologico): Fuga, Contilli, Nielsen, Lupi, Gavazzeni, Dionisi, Peragallo, Bartolozzi, Viozzi, Malipiero, Bucchi,Turchi, Vlad, Marinuzzi e altri
La rinascita della musica strumentale italiana

Fase prima: la rinascita della musica strumentale e il primo interloquire con le tematiche europee
Gettando un rapido sguardo alla situazione italiana si può accennare al fatto che nel Ventennio fascista, l’Italia ha mantenuto una posizione autarchica, cioè isolata, che ha nuociuto al naturale sviluppo della cultura. Negli anni Trenta iniziano la loro produzione numerosi compositori che diverranno decisivi per la cultura musicale italiana: Petrassi, Dallapiccola, Scelsi, Bettinelli, Lupi e altri. Dallapiccola fu il primo compositore italiano a far ricorso alla dodecafonia (Canti di prigionia, 1941), adottata più tardi anche da Gino Contilli (Otto stuffietti dodecafonici, 1948); Scelsi la studiò ma non l’adottò, mentre fra i compositori della generazione successiva il primo a scrivere dodecafonico fu Togni (Serenata, 1942), seguito da Vlad (Studi, 1943).

Se Dallapiccola portò in Italia lo stile di Schönberg e Berg, Petrassi filtrò in modo inquieto il para Classicismo di Casella, mediato attraverso la lezione della polifonia di Hindemith, Bartòk e Stravinskij, lezione ripresa, anche in senso ritmico-motorio da Bettinelli. In diversi musicisti italiani permase un evidente gusto per la manipolazione di masse sonore e per i chiaroscuri che avvicinarono i lori stili a un modus operandi tipico del periodo Barocco, ma questo modo nasce da una necessità interiore, come scrisse Casella ne I segreti della giara, il quale affermò che il cosiddetto ‘ritorno’ al periodo aureo della nostra musica strumentale non era un fine, ma un mezzo per ritrovare con risorse attuali l’antica e libera discorsività della musica.

Scelsi e Lupi posero l’accento sulla spiritualità del suono, il primo recuperò concezioni orientali, mentre il secondo fu il primo compositore italiano a proporre un metodo di lavoro basato sullo spettro sonoro, metodo che tanta fortuna avrà, anche se con modalità diverse (più strutturate), sui futuri musicisti francesi, cosiddetti spettrali.

Agli inizi degli anni Quaranta si assistete alla produzione di opere dal forte impegno etico-sociale (come il Coro dei morti di Petrassi e Il pigioniero di Dallapiccola) e a una sempre più matura consapevolezza dell’atto artistico, così la nostra musica recuperò, a poco a poco, il tempo perduto per il fatto che le Avanguardie storiche, quelle dal carattere più sperimentale, in Italia, a differenza di altri Paesi europei, erano venute a mancare, a causa di una situazione sociale e culturale arretrata, a cui si deve aggiungere lo strapotere del melodramma, che continuò la sua immensa fortuna anche nella prima parte del Novecento (e nella seconda, con autori come Rota, Menotti e soprattutto Chailly).

Si formarono le prime grandi scuole di composizione e, nel 1955, il primo Centro di musica elettronica a Milano venne fondato da Maderna e Berio, che furono i primi compositori, insieme a Nono, a mettersi in luce in ambito internazionale. A Milano gli Incontri musicali, affiancati dalla Rivista omonima; a Palermo le Settimane Internazionali di Nuova Musica (affiancate dalla Rivista «Collage») insieme alla Biennale di Venezia e alle Rassegne di Vita Musicale Contemporanea a Firenze e al Festival di Nuova Consonanza a Roma, costituirono i primi appuntamenti importanti della musica dei giovani compositori. Nel dopoguerra, anche il jazz italiano venne alla ribalta, così come le prime donne compositrici e i compositori/interpreti, dando vita a un panorama molteplice e interessantissimo.

La musica italiana, dopo la tradizione melodrammatica, tentò il faticoso aggancio con le tematiche e i linguaggi europei con la Generazione dell’Ottanta (soprattutto con Casella e Malipiero), ma il vero interloquire si realizzò con Petrassi e Dallapiccola. Le due personalità rappresentano due strade diverse, il compositore romano delinea un contrappunto para-classico ben sagomato (assimilabile a quello di Hindemith) che poi saprà volgere a narrazioni personali e sempre linguisticamente aggiornate; il maestro istriano, invece, raccolse l’esperienza dodecafonica ed espressionistica, legandola a significati sociali.

Sandro Fuga (Treviso 1906-Torino 1994) fu dotato di una naturale predisposizione al colore e al fraseggio vocale, qualità espresse in forme classicheggianti spesso d’ispirazione religiosa, come nella lauda drammatica La croce deserta (1950); compose diversa musica da camera.  Igino (Mogliano Veneto 1909-Torino 1961), fratello di Sandro fu critico musicale.
Gino Contilli (Roma 1907-Genova 1978), la ragione per cui va citato con rilievo questo allievo di Respighi e Pizzetti è che fu uno dei primi compositori italiani a far ricorso alla dodecafonia (Studi dodecafonici, 1949), dopo la conoscenza di Dallapiccola. Compose l’opera teatrale Saul (1941) vicina al clima espressionistico, inoltre, In Lunam (1957), Espressioni sinfoniche (1959), Variazioni e notturni (1976) e altro, brani impostati secondo una tonalità allargata, ben sorretta da un forte disegno formale, dai tratti levigati ed eleganti. Fu direttore del Conservatorio di Genova.
Riccardo Nielsen (Bologna 1908-1982), la sua musica degli esordi risente dell’influenza di Casella (Musica, 1939) e di Stravinskij (XCIX Salmo, 1941), negli anni Quaranta, pur mantenendo saldi i principi formali classicheggianti, aderì al metodo dodecafonica, come nell’opera teatrale L’incubo (1948), dal titolo esplicitamente espressionista. In un personale processo di aggiornamento, Nielsen adottò anche processi strutturalistici, come in Fasce sonore (6+5) del 1968.
Roberto Lupi (Milano 1908-Basilea1971) milanese di nascita, ma fiorentino di adozione, in quanto insegnò Composizione al Conservatorio Cherubni, dalla sua classe uscirono alcuni dei protagonisti della musica a Firenze del secondo dopoguerra. Nel 1936 intuì un nuovo sistema armonico, da lui chiamato “armonia di gravitazione”, sistema basato sullo studio dello spettro sonoro; blocchi sonori vengono attratti in un unico punto focale, come in Orpheus; questa metodologia venne pubblicata nel 1946, nel libro Armonia di gravitazione, molto apprezzato da Casella che ne curò la Prefazione. Poche le composizioni del suo scarno catalogo, fra cui le opere teatrali La stanza di Salomè (1952), La nuova Euridice (1957), 12 immagini sceniche (1969) e Persefone (1970); Lupi vide nel suo lavoro un profondo valore etico-spirituale, indirizzato verso sensi cosmogonici, cioè il suono viene inteso non in senso astratto speculativo, ma come viatico di forze cosmiche.[1]
Gianandrea Gavazzeni (Bergamo 1909-1996) fu grande direttore d’orchestra, saggista e musicologo (studioso di Donizetti e Pizzetti); il suo stile si caratterizza per un’espressività romanticheggiante ben inquadrata in salde cornici formali. Ha composto l’opera teatrale Paolo e Virginia (1935) e il balletto Il furioso nell’isola di santo Domingo (1940), 6 concerti, un oratorio (Canti per santo Alessandro) e diversa musica da camera. Dopo la Babele linguistica degli anni dello sperimentalismo, oggi, in questo scorcio di terzo millennio, si è tornati a un recupero del senso dell’opera d’arte, fattivamente intesa, senza cerebralismi e radicalismi, un oggetto musicale che getti ponti verso il pubblico, ovvero un oggetto rigorosamente costruito in sé, senza facili concessioni ai gusti o alle mode, ma che sappia e voglia instaurare un rapporto con l’ascoltatore. La musica di Gavazzeni vive, dunque, in sintonia con il presente. I ponti a cui Gavazzeni affidò il suo viaggio verso il pubblico, sono ponti solidi, ponti costruiti con abilità: è la forma il ponte che permette al maestro di arrivare, senza cedimenti o fraintendimenti, alla gente. Il sano senso comune, così bistrattato nei decenni passati, garantisce le modalità di comprensione, permette all’opera di raccontarsi, di non essere un mero dirsi, un dire dicente, ma di parlare oltreché del suo come è fatta anche del perché, dei motivi e degli scopi che l’autore s’è prefisso, instaurando un contatto reale con le esperienze del pubblico. Da un direttore d’orchestra così eccelso, per il quale il contatto con il pubblico deve essere cosa naturale, non ci si può aspettare altro che una musica che dal pubblico prende linfa vitale e la incanala in solide forme artistiche.
Renato Dionisi (Rovigno, Istria 1910-Verona 2000) fu autore prevalentemente di musica da camera, formalmente neoclassica. Si cita la giovanile Passacaglia (1938), quindi il brano per voce recitante e orchestra Luctus in ludis (1970) e Aldebaran (1981). La cantabilità, l’aura dolce, l’emotività vibrante, che pressoché in ogni pezzo si ascoltano, vengono sempre decantate in forme nette e precise, cementate in una concezione formale stringente, omogenea e unitaria, in una purezza di immagini e di scrittura che sa, con garbo, recuperare stilemi del passato per collegarli agli aspetti del presente. È anche autore di saggi di analisi musicale.
Mario Peragallo (Roma 1910-1996) iniziò dal teatro verista, con opere quali Ginevra degli Almieri (1937) e Lo stendardo di san Giorgio (1941), scritte in uno stile che ricorda quello di Zandonai. Successivamente, dal madrigale rappresentativo La collina, del 1947, si avvicinò a una progressiva adozione della tecnica dodecafonica, intesa liberamente e con toni morbidi e cantabili. Si ascoltino l’opera in un atto La gita in campagna (su libretto di Moravia), il Concerto per violino e orchestra (entrambi i lavori risalgono al 1954), In memoriam (1955) e Forme sovrapposte (1959). Infine, dopo un ventennio di silenzio creativo, Peragallo tornò alla scrittura con Emircal, brano per orchestra in memoria di Dallapiccola.
Bruno Bartolozzi (Firenze 1911-1980), dopo essersi dedicato alla ricerca sui nuovi suoni per gli strumenti a fiato, pubblicò l’importante libro New Sounds for Woodwing (1967), al quale molti compositori e interpreti furono debitori. Negli anni Sessanta compose brani che fanno ricorso ai suoni multipli per i legni, tecniche che non sono mai fine a se stesse ma vengono usate per creare nuove situazioni timbrico/espressive, inoltre, i suoni multipli non sono utilizzati snaturando lo strumento, ma rispettandone la natura, senza sforzare l’esecuzione. Va citato il ciclo strumentale Concertazione (1963-68) e l’opera teatrale Tutto ciò che accade ti riguarda (1972).
Giulio Viozzi (Trieste 1912-Verona 1984) fu anche critico musicale, insegnante al Conservatorio di Trieste, città dove ebbe modo di studiare musica mitteleuropea, slava e italiana, un trittico di culture che influenzarono il suo stile, rapsodico e ricco di una tavolozza timbrica policroma e a volte sfarzoso di risorse foniche; linguaggio sostanzialmente post-romantico, con influssi bartókiani e strawinskiani, ma che sa innovarsi all’interno delle coordinate rappresentate dal sistema tonale, utilizzate per entrare meglio addentro alla sensibilità dell’uomo, come nelle opere teatrali Allamistakeo (1954) e Un intervento notturno (1957), dove si nota una predisposizione al rapporto della musica col palcoscenico e un certo fiuto teatrale. Di un certo interesse sono anche il poema sinfonico Il Castello di Duino e il Concerto per violino e orchestra (1956).
Riccardo Malipiero jr. (Milano 1914-2003) è figlio del violoncellista Riccardo sr. (1886-1975) e nipote di Gian Francesco, la sua peculiarità sta nel fatto di aver ben presto adottato, fra i primi in Italia, il metodo dodecafonico, nel 1945, con il Piccolo concerto per pianoforte e orchestra. Nel 1949, Malipiero organizzò, a Milano, il Primo congresso di musica dodecafonica in Italia. Come per gli altri compositori italiani dodecafonici, il metodo viene volto a fluide forme espressive, seguendo l’esempio di Dallapiccola, al quale Malipiero dedicherà il Requiem alla sua morte. Ha composto l’opera Minnie la candida (1942), di stampo pantonale, e l’opera buffa La donna è mobile (1957), nella quale è evidente il saper volgere la dodecafonia a situazioni variegate; inoltre, l’opera televisiva Battono alla porta (1962); a partire dagli anni Sessanta il suo stile si aggiorna, utilizzando anche soluzioni sonore di tipo materico, mantenendosi però fedele alla concezione della musica intesa come discorso; in Veglia notturna (1962) sottili sfumature evocano momenti lirici avvolti da una luce crepuscolare, uno stile che venne definito ‘impressionismo notturno’: diversi lavori orchestrali, fra cui Dalla prigione un suono (1992), e da camera, fra cui quartetti e Winterquintet del 1976.
Valentino Bucchi (Firenze 1916-Roma 1976). L’ascoltatore, quando gli si presenta una testimonianza vera, di un’arte vissuta che si manifesta con semplicità, sa apprezzarla e sa collegarsi con l’opera, allora avviene quel miracolo, così raro ai tempi nostri, dello scambio emozionale dei flussi di energie. L’artista deve concedersi tutto, e non solo con la testa, l’opera non deve parlare solo sul come su come è realizzata, ma anche del cosa, del suo motivo, della sua finalità espressiva. Un’opera ben strutturata, ma senza motivazioni interiori, risulta essere solo un esercizio calligrafico.
Guido Turchi (Roma 1916-Venezia 2010), fu anche critico musicale e direttore dei Conservatori di Parma e Firenze; musicista dal linguaggio sostanzialmente polifonico, derivato da Hindemith e da Petrassi, e dalla ritmica vigorosa di derivazione bartókiana, riferimenti che nel suo stile appaiono sullo sfondo, mai ripresi pedissequamente ma sempre con atteggiamento libero. Dal 1962 fece ricorso al metodo dodecafonico e, anche in questo caso, in modo asistematico. I primi lavori hanno un sapore aspro senza alcuna concessione all’emotività, come Inventiva per coro misto e due pianoforti (1946), Trio per flauto, clarinetto e viola (1945) e Concerto per archi, alla memoria di Bartók (1948). Il Piccolo concerto notturno del 1950 segna l’apice del suo percorso artistico, dove le tendenze precedenti vengono filtrate attraverso un gusto timbrico sfumato e dove fa capolino una certa attenzione all’espressività psicologica, confermata poi nei lavori successivi, fra cui Parabola (1983-94) ed Exil (1996). Per il teatro ha scritto Il buon soldato Švejk (1962) e Dedalo (1972), inoltre, varie musiche di scena.
Roman Vlad (Bocovina, Romania, 1919-Roma 2013), critico musicale, pianista e operatore culturale (è stato, fra l’altro, presidente della SIAE e direttore artistico della Scala); nel 1938 si trasferì in Italia e partecipò ai corsi di perfezionamento di Csella, presso l’Accademia di Santa Cecilia (Sinfonietta, 1942); fra i primi in Italia, si avvicinò alla dodecafonia (Otto stuffietti dodecafonici, 1948) e alla serialità allargata a tutti i parametri (Meloritmi), ma riuscì a piegarla a un’espressività latina (Musica degli haiku), fra ‘modernità e tradizione’, come dice il titolo di un suo libro, frutto della sua nutrita attività saggistica. La dodecafonia verrà superata in favore di un ricorso organico ai quarti di tono e a una discorsività plasmata sui fonemi del testo (Tre poesie di Montale) Nel frattempo aveva composto diverse colonne sonore, fra cui quella per il film di Clair La bellezza del diavolo (1949); negli anni Sessanta compose musica elettronica e fu tra i primi a pubblicarne le partuture diagrammatiche. Fu autore di balletti, fra cui Il gabbiano (1968), di musica per radio e televisione, fra cui l’opera radiofonica Il dottore di vetro (1960), di musica orchestrale (Sinfonietta, 1941) e vocale (varie cantate). Suo figlio, Alessio, è direttore d’orchestra e compositore.
Gino Marinuzzi junior (New York 1920- Roma 1996), figlio di Gino senior (1882-1945), nel 1960 ideò il “fonosynth elettronico”, per la manipolazione della musica concreta e per l’elaborazione di quella elettronica; fu apprezzato autore di musica di scena e per il cinema oltre che per quella orchestrale (Concertante, 1987). [2]


[1] Roberto Lupi, Armonia di gravitazione, in «1985 La musica», Roma 1985, pp. 25 e seg., con prefazione di Alfredo Casella che scrive: «Alto interesse della teoria esposta da Roberto Lupi che rappresenta – unitamente ai lavori teorici di Hindemith – uno fra i pochissimi contributi attuali veramente validi». Gaetano Giani Luporini, che studiò con Lupi dal 1956 al 1962, lascia questa testimonianza, pag. 49: «Il suo sofferto rapporto col suono come elemento morale-qualitativo; il suono cioè fruito non come oggetto di astratte speculazioni quantitative, ma come viatico di forze cosmiche alla coscienza dell’uomo. La tensione intervallare della sua musica, purificata dall’angoscia espressionistica, si incarna in trasparentissime filigrane timbriche e in essenziali proporzioni dei tre parametri melodico-armonico-ritmico che scaturiscono da profonde esperienze spirituali corrispettive alle forze umane del pensare, sentire e volere». Non sfuggirà il riferimento a Steiner. Si potrebbe fare anche un riferimento a Scelsi, ma solo nel reciproco intendere la musica in senso spiritualistico e non formalistico, in un rapporto stretto fra musica e cosmo.
[2] Sono almeno da citare, per aver un quadro di riferimento migliore:
Antonio Veretti (Verona 1900-Roma 1978), fu anche critico musicale e musicologo; gli esordi come compositore avvennero con lo sguardo rivolto al recupero della musica italiana pre-romantica, sotto il segno della lezione di Casella, come nella Sinfonia italiana (1929); poi adottò il metodo dodecafonico, come nei 7 canti penitenziali (1954); da ricordare la farsa teatrale Il medico volante (1924).
Federico Ghisi (Shanghai 1901-Leserna san Giovanni 1975) è più noto come studioso del periodo compreso fra l’Ars Nova e il Rinascimento che come compositore, autore di opere teatrali (Piramo e Tisbe, 1942, Il passatempo, 1952) e di musica orchestrale, fra cui la Sinfonia italiana, 1939.
Lino Liviabella (Macerata 1902-Bologna 1964) fu un esponente del tardo romanticismo, ancora presente nella prima parte del Novecento, di tendenza descrittivista (fu allievo di Respighi); ottimo orchestratore, fece ricorso alla politonalità e le sue ultime partiture ricorrono cautamente al metodo dodecafonico (Sinfonia quadripartita, 1964). Notevoli i suoi pezzi pianistici.
Renato Fasano (Napoli 1902-Roma 1979) fu direttore artistico e presidente dell’Accademia Nazionale di santa Cecilia di Roma, fondò, nel 1948, il complesso strumentale Collegium Musicum Italicum, nel 1952, i Virtuosi di Roma e, nel 1956, il Teatro dell’Opera da Camera; fu pure direttore di diversi Conservatori e presidente dell’Association Européenne des Conservatoires affiliata all’UNESCO; fu studioso di musica antica (specialmente della musica sacra di Vivaldi) e in particolare della tematica degli abbellimenti, alla quale dedicò un libro (1949); come compositore si mantenne nell’alveo della tradizione classica (come il giovanile Concerto, 1927) con aperture liriche (Pusilleco, 1942).
Dante D’Ambrosi (Zagarolo 1902-Roma 1965), anche direttore d’orchestra e di coro, consulente presso il Ministero degli Affari Esteri; fu pure saggista; si perfezionò in pianoforte con Dallapiccola; fu vicedirettore i Zandonai al Conservatorio di Pesaro e quindi lui stesso direttore; fu docente al Pontificio di Musica Sacra a Roma. Come compositore ebbe una scrittura di tipo classicheggiante, due le opere teatrali e un balletto, molti i lavori orchestrali di buona fattura, fra i quali alcuni d’ispirazione religiosa, come Il Transito del Signore (1952).
Giulio Razzi (Firenze 1904-Roma 1976), nipote per via materna di Puccini, fu direttore d’orchestra e particolarmente importante quale direttore centrale dei programmi della radio, dal 1928 al 1965; compose musica nella quale s’intravede l’influenza di Pizzetti, con il quale Razzi studiò.
Pino Donati (Verona 1907- Roma 1975) studiò con Zandonai di cui completò il balletto Biancaneve; fu direttore artistico di svariati Enti lirico-sinfonici; come compositore si caratterizza da un’esuberanza orchestrale spesso drammatica; di rilievo le musiche di scena Corradino lo Svevo (1931) e Lancillotto del Lago (1938).
Lázló Spezzaferri (Lecce 1912-Verona 1989), studiò col padre Giovanni (1888-1963), fu autore di musica di vari generi sempre d’impostazione romantica e formalmente legati alla tradizione, fra cui i poemi sinfonici Giulietta e Romeo (1959) e Il Cavaliere romantico (1962); fu pure autore di saggi didattici e di revisioni.
Vito Musso (Palermo 1913-California 1982), lo citiamo a esemplificazione di quanta importanza ebbero i musicisti siciliani che emigrano negli Stati Uniti e che portarono, fin dalla fine dell’Ottocento, grossi contributi allo sviluppo del jazz; Musso fu un eccellente sax tenore e suonò perfino con Benny Goodman e con Stan Kenton.
Giuseppe Pastore (Napoli 1915-2014) figlio di Alfredo, fu autore di musica da camera e revisore; sua figlia Gabriella (1963) è violinista e musicologa.
Andrea Mascagni (San Miniato 1917-Trento 2004) ha studiato col padre Mario (direttore del Liceo musicale di Bolzano), cugino e allievo del noto Pietro (1956); fece parte del Partito Comunista e della Resistenza; fu senatore della Repubblica e sindacalista della CGIL. Compose musica sinfonica e da camera.
Clemente Terni (Arcidosso 1918-Firenze 2004) fu organista, compositore, studioso delle espressioni musicali del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, fondò nel 1950 il «Quartetto polifonico italiano» (successivamente rifondato come «Quintetto polifonico italiano»). Come compositore ha elaborò uno stile incentrato sulla ripresa di tecniche compositive e forme dal passato medievale e rinascimentale ma riproposte attraverso una sapiente e delicata rielaborazione. Nelle ultime composizioni, il suo interesse si è rivolse alla musica sacra, dando vita a grandi affreschi di musica e parole, denominati retablos. www.istitutoclementeterni.it
 




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