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Gli anni d'oro della ricerca, Bortolotto e alcuni compositori
Gli anni d'oro della ricerca

L’apice storico della ricerca sul linguaggio musicale dura pochi anni e si situa fra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta, per la precisione dal 1948, anno della prima opera che utilizza il serialismo integrale, Three Compositions di Milton Babbitt, al 1953 uscita della rivista di Darmstadt e inzio di un processo centrifugo (tecnica dei gruppi, stereofonia, musica elettronica etc.).

In Italia, gli anni importanti per la cultura sperimentale sono spostati in avanti, e sono quelli che vanno dal 1956 al 1963: a Milano si stampa la Rivista «Il Verri» che si riallaccia all’Illuminismo lombardo, al neo-razionalismo di Geymonat e all’Esistenzialismo positivo di Abbagnano. Seguono le Riviste «Officina», impostata sul marxismo critico, e «Il Menabò», fondata da Vittorini dopo l’esperienza, conclusasi nel 1947, de «Il politecnico», che ospita molti interventi della neo-Avanguardia. A Milano ci furono molte cose: si formò un gruppo con Balestrini, Porta, Arbasino, Pagliarini, Manganelli, Eco; venne fondato il primo Studio di fonologia italiano, quello della RAI, e, sempre collegato all’attività di Maderna e Berio, vennero istituiti i concerti di musica d’avanguardia, Incontri musicali, affiancati anche, dal 1956 al 1960, dalla Rivista che porta lo stesso nome. Studi e gruppi legati alla musica elettronica si formarono anche a Roma, nel 1957 con Guaccero e Vlad, e a Firenze, nel 1960 con Grossi e Vittorio Gelmetti. Di lì a poco, a Roma, prenderà vita la Rivista «Ordini», fondata da Guaccero, Macchi ed Evangelisti, poi nascerà anche l’importante Associazione Nuova Consonanza.

A Bologna esisteva un gruppo di intellettuali di primo piano, quali Barilli, Guglielmi, Curi. Nel 1958, Gadda edita Quer pasticciaccio, nel 1961 esce l’Antologia I Nuovissimi e, l’anno seguente, Eco pubblica Opera aperta. A Palermo si forma il Gruppo 63 del quale Guglielmi, Sanguineti e Barilli incarnarono le tre tendenze principali: la prima formalistica e aideologica, la seconda ideologica e linguistica, la terza fenomenologica e neopositivista.
A Palermo era già attivo il estival dedicato alla musica contemporanea, le Settimane Internazionali di Nuova Musica fondate, nel 1960, da Antonino Titone e affiancate dalla bellissima Rivista «Collage» (1963-70), situazioni a cui parteciparono anche Paolo Emilio Carapezza e Luigi Rognoni, il musicologo più importante di quegli anni. Dallapiccola e Petrassi si erano già messi in evidenza, ora toccava a Bruno Maderna (già figura di rilievo per la presenza a Darmstadt), a Luigi Nono (che aveva già composto lavori importanti come Epitaffio a Garcia Lorca e Il canto sospeso, e stava attendendo al ciclo dei lavori corali che da La terra e la compagna arriverà a Intolleranza 60), a Luciano Berio (che stava componendo Omaggio a Joyce, Temi concertati, Allez-hop!, Visage e Circles). Se Mardena, Nono e Berio furono i primi nostri compositori ad affermarsi in ambito internazionale, anche altre figure, in questo periodo d’oro, scrissero lavori fondamentali, come Niccolò Castiglioni (Cangianti, Gymel), Togni (Helian), Franco Donatoni (For Grilly, Puppenspiel I, Per Orchestra), Aldo Clementi (Triplum e la serie degli Informel), Franco Evangelisti (Incontri di fasce sonore, Proporzioni, Aleatorio), Giorgio Gaslini (Tempo e relazione), l’allora giovane Sylvano Bussotti (il ciclo Pièce de Chair e i Sette fogli).

Contemporaneamente, l’arte figurativa compiva il suo massimo sforzo per esprimere la propria ricerca, con artisti quali Dorazio, Burri, Capogrossi, Fontana, Vedova, Viani, Mastroianni, Giacometti, Colla, Rotella, Paolazzi, Turcato, Manzoni, Santoro, Lo Savio, Perilli, Consagra e molti altri, in un accavallarsi di proposte che potremmo anche rapportare a quelle musicali (alcuni compositori hanno rapporti intensi con pittori, come Clementi con Dorazio, Nono con Vedova etc. o con intellettuali Eco, Sanguineti, Barilli etc.).

Già nella rivista «Officina», in pieno clima sperimentale, Pier Paolo Pasolini lanciò l’accusa di ‘apoliticismo e di misticismo tecnico,, riscontrando nella nuova coppia Strutturalismo e art engagé, le stesse caratteristiche di quella Ermetismo e neo-realismo. A Palermo, occasione di vivaci discussioni fu la presenza di Alberto Moravia che dà voce a quelle che saranno le critiche che faranno, progressivamente, morire lo sperimentalismo, ossia l’eccesso di teoria e di formalismo. Eugenio Montale, in una recensione su «Il Tempo», scriveva: «Questi poeti sono piccoli mostri, infarciti di citazioni: conoscono venti, trenta riviste, ma sono poveri di intelligenza. Riescono a guadagnare vendendo la propria disperazione, vera o falsa che sia». Comunque fino ai primi anni Settanta lo Strutturalismo e le varie Avanguardie riescono a elaborare tecniche dinamiche e ancora vitali, dopodiché divengono maniera, marchio di fabbrica che a molti servì per sopravvivere, per tenersi a galla (è per questo che s’è parlato di un’accademia dell’avanguardia).

Accanto alle prove d’eccezione dei musicisti che vennero definiti d’Avanguardia, ce ne furono di altrettanto valide, come le suggestive prove di Giacinto Scelsi, le vigorose Sinfonie e l’energica musica orchestrale di Bruno Bettinelli, la musica spettrale di Roberto Lupi, le surreali opere teatrali di Luciano Chailly, la delicata musica da camera di Franco Margola, i raffinati pezzi pianistici di Piero Luigi Zangelmi, la musica colorata di Carlo Prosperi, e ancora le prove di Vlad, Ferrari, Arrigo, Pennisi e molti altri che hanno saputo intendere i termini di tradizione e novità non come antitetici, ma complementari, come dice il titolo di un libro di Vlad del 1958, intitolato appunto Modernità e tradizione. Lo stesso Berio dichiarò che il musicista deve essere capace di muoversi in un’ampia prospettiva storica e di risolvere le tensioni fra la creatività di ieri e quella di oggi.[1] Sono anche gli anni della musica di Nino Rota (Il cappello di paglia di Firenze è del 1955) e della sua struggente musica per i film di Fellini, Visconti e Zeffirelli. Si afferma inoltre la musica di Ennio Morricone, per i film di Leone, Bertolucci, Bellocchio, Pontecorvo, Pasolini etc., inaugurando la moderna stagione della nuova musica da film, assai prolifica e in continua ascesa, anche qualitativamente.

Il tempo storico degli artisti sperimentali è parabolico, sale al momento dell’invenzione, poi irrimediabilmente scende, perché è impossibile prolungare l’atto inventivo che, invece, dev’essere decantato e metabolizzato. Il tempo storico degli artisti tradizionalisti è rettilineo e regolare, parte dalla tradizione e la sviluppa moderatamente. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta ci furono le condizioni storiche per l’innalzamento della parabola sperimentale che poi scese, incontrando la retta della tradizione.

A livello estetico, passati gli anni delle neo-avanguardie, il concetto cardine sta diventando quello di far con-vivere culture differenti, con linguaggi aperti e trasversali che però si presentano in modo finito, compiuto e plastico.

Vi è stato un manicheismo della critica musicale, la quale ha diviso la musica in generi, in stili e tendenze culturali, non in un positivo raffronto, ma privilegiando il clan degli avanguardistici (critica legata all’ideologia marxista) oppure stroncando in toto la musica contemporanea, in nome di una tradizionale concezione melodica (critica idealistica); si sentono ancora i sintomi di questo manicheismo, più ideologico che realmente musicale, ma è l’ora di rifondare il pensiero sull’arte, il linguaggio, l’uomo e la società, mettendo in gioco altri e differenti aspetti o recuperando, sotto altra luce, elementi tradizionali del dibattito estetico.
La critica (musicale), quella che avrebbe il compito d’introdurre al fatto d’arte, di spiegarne le ragioni e le finalità, di cercare di far capire al pubblico com’è costruito e qual è il modo migliore per ascoltarlo, è sempre stata rarissima, da qualche anno è pressoché scomparsa, sia per colpa specifica dei giornali stessi che concedono sempre meno spazio alla musica d’arte e sempre più rincorrono quella giovanilistica sia perché i tempi sono mutati e la cultura s’è ancor più banalizzata fra mass-media e mercato sia per negligenza dei critici stessi, che raramente sono dei bravi giornalisti (più spesso musicologi falliti ma supponenti), professionalmente asserviti ai padroni editoriali, poco indipendenti rispetto ai poteri forti delle Case discografiche, degli Enti lirici e delle Agenzie che organizzano i concerti, e molto focalizzati sui cosidetti “eventi”.

Nel suo famigerato libro Fase seconda, che tanto scalpore suscitò al suo apparire nel 1969, Mario Bortolotto[1] prende in esame i seguenti compositori: Luigi Nono, Luciano Berio, Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Franco Evangelisti, Sylvano Bussotti, Franco Donatoni. Il compositore che fra questi ha assunto un ruolo sempre più in sintonia con i presupposti e con le metodologie usate nella contemporaneità è Castiglioni[2], musicista fornito di doti straordinarie che stanno al di qua di ogni tecnica e che vanno al di là di ogni concetto culturale: quando Castiglioni iniziava a comporre non preparava schemi formali prestabiliti, non seguiva piani strutturali cavillosi, ma si lasciava guidare dall’estro e dall’idea formale che la sua mente sensibilissima immaginava; la sua vena poetica inesauribile riusciva a foggiare di volta in volta l’oggetto musicale, in forme sempre diverse e imprevedibili, realizzate con una mano assolutamente mirifica. Il recupero della tonalità e l’uso della citazione avviene nella musica di Castiglioni in modo del tutto naturale, scrivendo ciò che nello scrivere si profila (come avviene nelle composizioni recenti di Carlo Pedini). In fondo occorre fare come i jazzisti che studiano il brano per ore e giorni interi poi, quando è il momento dell’esecuzione, lasciano lo studio sullo sfondo e improvvisano (se hanno la musicalità che gli permette di farlo! Perfino gli studenti sanno che la creazione estemporanea è difficilissima da far bene perché non richiede solo lo studio ma anche l’inventiva).

Fra i compositori citati da Bortolotto, si può dire che avvisaglie del postmoderno si hanno in Berio ch’è stato uno dei primi e uno dei pochi a evitare classificazioni e a muoversi sempre con abilità e fantasia, con un atteggiamento onnivoro. I Folk songs sono una delle prime e rare commistioni che la musica contemporanea occidentale realizza con la canzone popolare. La sua Sinfonia  è uno dei pezzi che, fra i primi in Europa, dimostra la prensile attività di Berio. La coerenza che altri trovano nello status delle cose, egli la trova in una pratica. Potremmo riportare l’operare vigoroso e felice di Berio alla poetica dell’artigianalità, espressa più volte nella storia della musica, contro romanticismi, idealismi, teorie e speculazioni, ma precisando che si tratta di un operare stratificato che si rivolge all’eterogeneità dei materiali, una sorta di poli-artigianalità, pronta a prendere gli elementi più diversificati per metterli insieme con tecniche miste[3].

Anche Bussotti, per aver ignorato le esperienze strutturalistiche di Darmstadt, per il suo rapporto continuo con la memoria, per avere inteso l’opera come una sorta di auto-biografia, senza paura di far uscire sentimenti e umori, per gli auto-imprestiti e lo stile ibrido può ritenersi un autore che anticipa gesti in sintonia con il postmoderno. Appartiene a quei percorsi eccentrici che hanno acquisito una sempre maggior considerazione.

Un musicista che predicava musica a 360 gradi, al di là di generi e stili, già nel 1964 con la sua Musica totale, è Giorgio Gaslini[4], musicista che s’è sempre posto al confine fra i vari generi, inaugurando la strada della border music e in generale il libero atteggiamento che non ama intellettualismi e va incontro al pubblico con una proposta vissuta.

Colui che opera a contatto con la molteplicità è un artigiano che non si ferma a lavorare un solo materiale, ma è bravo a realizzare opere con materiali differenti, non con un solo modus operandi ma con la capacità positivamente eclettica d’incidere sui materiali con strumenti e tecniche varie, scelte via via a seconda della loro funzionalità all’idea di partenza. Questo avviene anche per coloro che hanno attraversato il moderno da protagonisti e che rimangono dei punti di riferimento tutt’oggi, come grandi monumenti: Nono, Clementi, Evangelisti, Donatoni, ma anche gli altri autori che Bortolotto cita quali Togni, Bertoncini, Panni, Pennisi, Vandor e altri.

Nono, Donatoni e in parte Clementi hanno mutato il loro operare durante gli anni settanta, il primo passando dalla musica politica al suono nascente, il secondo dalla musica negativa all’automatismo positivo e proliferante suoni vigorosi, il terzo dal costruire le sue linee contrappuntistiche su matrici cromatiche a realizzarle su modelli diatonici[5]. Per non cadere dentro all’omologazione di stili consolidati occorre una creatività molto forte, più potente di quella necessaria per restarvi. Difficilissimo è poi uscire da uno stile e non fermarsi a un altro, ma proseguire, incessantemente. Dal relativizzare se stesso e il proprio lavoro l’artista ricava il saper stare al passo con i tempi che mutano, contro la concezione da laboratorio dell’opera come formula chimica si scontra l’operare, forte e puro nel suo errare.

Lo studium è naturalmente importante che sia attento, sollecito, approfondito e intenso, ma se non è colpito dal punctum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, mi punge e mi prende e mi permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente diverso la quello dell’analisi razionale; è quel supplemento intrattabile dell’identità che mi permette di cogliere l’aria di un volto, la luce di uno sguardo, la scintilla dell’avventura, è quel non so che il quale anima ogni vera opera d’arte, la quale non comunica solo il come è fatta ma la pienezza dell’essere.

Platone, nel Fedro, ci lascia una stupefacente descrizione dell’ispirazione, dicendo che «Chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompleto e la poesia del saggio sarà offuscata da quella del poeta in delirio», così l’arte, quando è abitata dal delirio delle muse, diventa un inciampo con l’inaspettato, con l’inconscio, con l’inatteso, il vero e il buono[6. Va de sé che il «delirio delle muse» può essere esternato solo da chi non ha problemi tecnici e quindi può comunicare la sua ispirazione con assoluta naturalezza.
 


[1] Mario Bortolotto, Fase seconda, Einaudi, Torino 1969. Chi scrive è stato allievo di Bortolotto, Rognoni e ha scritto le prime monografie, pubblicate dalla Suvini Zerboni di Milano, su Donatoni e Clementi, ha avuto dunque modo di approfondire i meandri del moderno, specie con Rognoni di cui è stato assistente e amico per anni.
[2] Renzo Cresti, Niccolò Castiglioni, Miano, Milano 1991, pp. 47-48: «Castiglioni possiede un’indole autenticamente musicale, una musicalità nuda, una genuina inclinazione a che il suono venga inteso come bellezza naturale. L’abbandono allo slancio creativo non ha significati romantici, anzi il maestro si avvicina di più a concetti e a prassi ricavate dall’eloquenza e dalla critica stilistica come erano intese nell’umanesimo. L’assaporamento viene collegato non solo a un pensiero irrazionale, ma anche all’incessante perfezionamento degli strumenti artigianali dell’operare compositivo».
[3] La sbalorditiva serie delle Sequenze per strumento solo, oramai divenuta un classico del repertorio novecentesco, è uno dei più alti esempi dell’uso molteplice e stratificato delle tecniche strumentali le più svariate che, nel loro virtuosistico articolarsi, realizzano un «labirinto di specchi», com’ebbe a dire lo stesso Berio.
[4] Renzo Cresti, Giorgio Gaslini, Miano, Milano 1996, pp. 12-17-29: «Le vere opere, come quelle di Gaslini, sono rette da un turgido entusiasmo (e il pubblico lo percepisce subito), non dal ragionare intorno alla cosa, ma dal parteciparla. […] Gaslini ha da sempre avuto un’ottica in diagonale, denunciando come la cultura istituzionale non si sia mai posta né il problema del valore del fatto che esistono tante culture né tanto meno il problema di un’eventuale sintesi. […] L’operare non è un atto solipsistico, al contrario l’opera di Gaslini nasce con mentalità aperta, vive per gli altri».
[5] Cfr. Renzo Cresti, Il suono nascente, per una nuova lettura e(ste)tica, in L’ascolto del pensiero, scritti su Luigi Nono, Rugginenti, Milano 2002; idem, Franco Donatoni, Suvini Zerboni, Milano 1982; idem, Aldo Clementi, Suvini Zerboni, Milano 1990.
[6] Cfr. Carmelo Mezzasalma, Il suono incantato tra letteratura e musica, prefazione al libro di R. Cresti, I linguaggi della arti e della musica. L’e(ste)tica della bellezza, Il Molo, 2007.

 




Renzo Cresti - sito ufficiale