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Fase seconda, quasi un dizionario: Rigacci, Zafred, Testi, Ferrari, Chiari, De Grandis, Fellegara, Liberovici, Castaldi, Hozon, Company, Bellisario, Manzoni, Correggia, Renosto, Furgeri, Oppo, Sulpizi, Anzaghi, Facchinetti, De Incontrera, Ravinale, Rotondi, Pezzati, Gentilucci
Fase seconda: alcuni compositori nati fra gli anni Venti e Trenta

Bruno Rigacci (Firenze 1921), fu importante direttore d’orchestra, pianista; la sua attività di compositore, si rivolse prima all’orchestra, fra l’altro, Concerto per pianoforte (1951, al piano lo stesso autore) e Due tempi di concerto doppio per tenore, tromba e orchestra (1952), per poi rivolgersi a brani per voce, con numerose liriche per piano o con strumenti, contemporaneamente affrontando l’opera teatrale, Ecuba (1950) e Prof. King (1967) e musica per balletto, Balletto per A. Millos (1957) e Musica per un balletto (1958). Nel 1992, dopo 50 anni, completa l’opera Loredana e nel 1994, insieme al figlio Pietro, scrive il Concerto in mi, basato su incisi tematici tratti da Verdi. Fra le sue ultime fatiche sono da citare l’atto unico La giacca di Astrakan, per soli e orchestra da camera, la cantata scenica Die Umwandlung e il bizzarro Dodici personaggi in cerca di voce. Sua figlia Susanna è eccellente cantante e il figlio Pietro è ottimo pianista e compositore (vedi).
Carlo Prosperi (Firenze 1921-1990) fu docente di Composizione al Cherubini, dalla cui classe uscirono quasi tutti i compositori toscani degli anni Settanta-Ottanta. Come compositore realizzò un personale metodo seriale-diatonico, libero e molto espressivo, timbricamente trasparente e luminoso. Dallapiccola, Frazzi e Lupi sono i maestri da cui parte la musica di Prosperi, personalità schiva, come quella di molti altri musicisti fiorentini, dove l’incanto del soliloquio e la dimensione etica del fatto sonoro vengono vissute sotto l’egida del classicismo. Prosperi instaurava un suo personale dialogo con i suoni, quel dialogo che ricercava anche col pubblico, con tenera naturalezza. Il recupero di stilemi e forme classicheggianti, le predilezioni bartókiane, la grande attenzione alla timbrica e la disciplina seriale/diatonica, vanno a confluire in un costrutto singolare, realizzando una dialettica fra romanticismo e classicismo, la stessa serialità, prassi fondamentale di molte partiture, viene utilizzata in maniera originale, utilizzata appunto, come mezzo e non come fine, ridotta a tecnica e non intesa come sistema. Il suono di Prosperi non si pone in una dimensione acustica, neanche viene inteso come Urton, la sua musica è sempre discorso, per cui l’immedesimarsi dell’esigenza interiore nell’attimo sonoro si dipana in una continuità discorsiva. Si tratta dunque più che di un puntillismo di tipo weberniano, di un divisionismo di stile narrativo. Prosperi riprende da Webern la grande attenzione al timbro e alla dinamica, ma se Webern è stato paragonato a Mondrian, Prosperi può essere raffrontato a un pointillisme alla Seurat e alla Signac, dove la scomposizione del colore o della linea non fa mai perdere di vista il segno plastico. La musica delle 12 note viene intesa come amplificatio dello spazio diatonico. L’utilizzazione di più serie contemporaneamente è una via di uscita alle strettoie dell’idea unificatrice, in quanto permette di poter scegliere i suoni necessari al dispiegarsi del fraseggio, che deve svolgersi in totale libertà. La magia del suono è pienamente realizzato Incanti (1963), In nocte secunda (1968), in Costellazioni (1971) e nel bellissimo Concerto dell’arcobaleno (1973).[1]
Mario Zafred (Trieste 1922-Roma 1987), fu direttore di teatri e accademico di Santa Cecilia; attivo per lungo tempo come critico musicale e attaccò spesso e volentieri i compositori legati alle varie avanguardie, da un punto di vista che fu quello del socialismo reale, infatti, all’inizio aderì alla musica engagée con la sinfonia In onore della resistenza (1950). La sua musica è scevra da ogni intellettualismo, chiara e melodica, sostanzialmente tonale ma con inflessioni modali, dal contrappunto semplice che potrebbe ricordare quello del suo maestro Pizzetti; anche nelle sue due opere, Amleto del 1961, e Wallenstein del 1965, si possono notare delle influenze pizzettiane. In generale, il ritmo è gagliardo e con andamenti che ricordano le danze popolari. Compose 7 sinfonie (1943-1969, di rilievo la Sesta), vari concerti (interessante soprattutto quello per pianoforte, intitolato Metamorfosi) e musica da camera, nella quale Fedele D’Amico, volle vedere una sorta di continuazione di quella di Giovanni Salviucci.
Flavio Testi (Firenze 1923-2014) fu attivo per molto tempo a Milano dove apprese il metodo dodecafonico che riuscì a vivificare attraverso una forza ritmica di derivazione stravinskiana. Il suo primo lavoro importante fu Crocifissione (1953), un perentorio affresco sinfonico- corale. Successivamente iniziò una serie che intitolò Musica da concerto, con vari solisti nn. 1 – 7 (1957-83); da segnalare il pezzo per due pianoforti, due orchestre da camera, ottoni e timpani, intitolato Opus 23 (1972); in questi lavori la scrittura è tesa ma essenziale, a volte ricorda quella di Ghedini. Ha composto la pantomima Le chat (1982) e 5 opere teatrali, fra cui Riccardo III (1987), dove vengono affrontate anche tematiche sociali, il canto è sempre intellegibile e anche l’orchestra sottolinea il valore semantico della parola. La produzione più interessante di Testi è però quella religiosa, qui il maestro trova il terreno a lui più congeniale, fatto di momenti drammatici e di distensioni lirico-meditative, come nel ciclo delle 4 Cantate con voce sola (1972-74), nei Cori di Santiago (1975), nelle Sacræ Symphonie (1987). Testi fu bravo nella dialettica fra innovazione e tradizione si rese conto che per una corretta comunicazione occorre mantenere salde le norme che garantiscono la comprensibilità della Langue, pena la perdita di contatto col pubblico, il vaniloquio, magari interessante, ma che non può rivolgersi alla gente. Contemporaneamente però Testi intuì che la lingua va continuamente ripensata e rimodellata, vivificata con la tensione che viene dalle necessità interiori, meditata e mediata attraverso un pensiero sulle forme che sia aggiornato, reimpostata per ottenere nuovi percorsi e nuove soluzioni, in una dialettica fra innovazione e tradizione. In fondo capì un concetto elementare, eppur disatteso dalla maggior parte delle estetiche del nostro secolo, che i termini di tradizione e di innovazione non sono contrapposti, ma complementari, che il presente non si può basare solo sul passato, altrimenti l’arte diventa mera rimembranza (crepuscolare), ma deve avere anche la spinta dello sguardo verso il futuro che, al contrario, non può che concretizzarsi attraverso i fili che lo collegano al passato, altrimenti diviene pura speculazione, astrazione (la musica sperimentale è stata enormemente importante nel momento in cui c'era un'evidente bisogno di rinnovare il linguaggio, ma è poi diventata maniera quando ha continuato a perpetuare il suo tipico modus operandi e, soprattutto, non ha saputo integrare le scoperte in un contesto più ampio che sapesse riproporle al pubblico).
Giorgio Ferrari (Genova 1925-Torino 2010), anche violinista e direttore d’orchestra, fu direttore artistico del Regio di Torino, dell’Autunno Musicale Trevigiano; e del Premio Paganini; come compositore si espresse con una costante vitalità ritmica e una polifonia che oscilla fra toni solenni, commossi o ironici, sostanzialmente di stampo neo-classico. Lui stesso individua tre momenti del suo atto creativo, il primo è legato all’intuizione espressiva (ispirazione), il secondo a sistemare questa intuizione in una logica costruttiva, infine, la realizzazione della forma che deve tener conto dell’ascoltabilità.
Giuseppe Chiari (Firenze 1926-2007) appartenne al gruppo Fluxus, che riprese esperienze provenienti da Cage; s’interessò alla musica d’azione, all’arte concettuale, partecipando a importanti mostre di pittura, organizzò happening, mise a punto un modo di suonare il pianoforte assolutamente libero e casuale. L’evidente influenza cageana è volta in positivo, verso un neo-dadaismo personalizzato e volto a far pensare. Occorre ri-considerare i concetti di alternativa e di marginalità, la buona musica e i messaggi intelligenti, troveranno comunque posto, all’interno di questa società, perché la funzione critica è indispensabile; musiche e gesti particolari avranno sempre un ruolo funzionale a destabilizzare l’omologato e il convenzionale; proporre esperienze di confine continuerà ad avere un valore critico e propulsivo, perché si porranno negli interstizi del mercato, della nomenclatura politica, dell’arte conformistica, trovando i punti deboli su cui agire, per far esplodere il già acquisito e riflettere su nuove forme e messaggi  (anche sociali). La gestualità, il rapporto con l’oggetto sonoro (ogni oggetto può diventare suono) e il contesto in cui questo si trova, l’interdisciplinarietà, sono alcuni degli aspetti su cui si concentra Chiari, negando ogni formalismo, ogni tecnicismo, ogni concezione alta e idealistica dell’arte. Da ricordare, oltre alle sue numerose performance, alcuni libri[2] dov’è espressa, spesso attraverso segni grafici, la poetica di Chiari e i videotape.
Renato De Grandis (Venezia 1927-2008), discendente di un’antica famiglia di musicisti,[3] nel 1959 si trasferì in Germania; gli esordi avvennero sotto il segno della dodecafonia e di tecniche seriali e aleatorie. Dal 1959 al 1985 ha vissuto in Germania, dove la maggior parte della sua produzione è stata rappresentata, come le opere teatrali, dove lo spirito dell’opera buffa si sposa con procedimenti strutturali complessi: Il cieco di Hyuga (1959), Glora al re (1967), La vera fine di Don Giovanni (1973).
Vittorio Fellegara (Milano 1927-2011) all’inizio si rifece alle correnti post-weberniane, modellando il linguaggio su un vigoroso costruttivismo, volto a fondere il polifonismo alla Hindemith e la dodecafonia (come in Concerto per orchestra, 1952, Ottetto, 1953, Sinfonia 1957), successivamente si orientò verso uno stile basato sul cromatismo integrale e su un forte impegno sociale, come nelle Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana (1954), in Dies Irae (1959) e in Requiem di Madrid (1958), drammaticamente ispirato dalla guerra civile spagnola, basato su stratificazioni armoniche. Sono questi gli anni in cui il percorso artistico di Fellegara assume un notevole rilievo, vedono la luce composizioni quali Variazioni (1961, basate liberamente sulla serie di 12 suoni del Don Giovanni), il materico balletto Mutazioni (1962, dove la scrittura tende a estendere lo spazio sonoro), Epitaphe (1964, nel quale inizia a profilarsi una meno tormentata vocalità), Cantata (1966, che descrive in maniera interiorizzata il pessimismo dell’Infinito di Leopardi) e Madrigale (1968, costruito su sonorità preziose). Dagli anni Settanta, Fellegara si volse a una concezione di Hausmusik, più intimista e basata su ricerche sonore raffinate (Omaggio a Bach, 1975), anche con recuperi di stilemi tradizionali, come in Herbsmusik (1986), Primo Vere (1988) e Nuit d’été (1994).
Sergio Liberovici (Torino 1930-1991) fu un musicista assai particolare che raccolse i canti della Resistenza e della Liberazione, oltre a quelli popolari del Piemonte, scrivendo oltre 100 musiche di scena e opere teatrali, fra cui il balletto Chagalliana (1954) e l’opera La panchina (1956, nata dalla collaborazione con Calvino). Fu tra i promotori di Cantacronache un movimento nato per la diffusione dei canti socialmente impegnati e si dedicò anche allo studio della musica per l’infanzia (Fogli d’album, 1982, Per filo e per segno, 1985, etc.), fondando lo Stabile Ragazzi di Torino e un Laboratorio di metodologia didattica. Fu pure autore di severa e ironica musica religiosa, come gli Otto canti in ebraico e la cantata De origine musicae.
Paolo Castaldi (Milano 1930) malgrado abbia frequentato i Ferienkurse sta fuori dalla tendenza costruttivista, anzi la irride, riprende materiali tratti da opere del passato e li sottopone a un ironico collage che de-soggettivizza l’opera; attraverso la fissità ciclica delle iterazioni di questi materiali, si svuota il senso originario. Molta importanza ha la parte grafica, giocata su immagini dadaistiche, scritte non-sense, ritagli di giornali etc. Dai suggerimenti grafici nasce il gesto, elemento fondamentale per fornire di significato i lavori aleatori, come Facsimile (1962), Simile (4 versioni dal 1976 al 1982), Ultima romanza, per pianista con strumenti e oggetti quotidianamente eterogenei (1976), Battente, per chitarrista con eventuali altri interventi diversi, 6 sezioni indipendenti o componibili a incastro, secondo differenti percorsi determinati (1977). «In ogni momento, per irruzioni, trasgressioni, salti di codice, inattese mutazioni, immotivate emergenze, sfaldamenti improvvisi e dimorfismi, digressioni, incoerenze, interferenze, insomma per dissonanze di ordine concettuale, non più semplicemente acustico, in ogni momento potrebbe succedere qualsiasi cosa, pur rimanendo nell’ambito morfologico, istante per istante, delle convenzioni dolci e familiari. […] Muovere i pezzi della civiltà che ci ha generato e ci fa parlare, in partite di un gioco paratattici, che li associa in rapporti sempre più indifferenti».[4]
Roberto Hazon (Milano 1930), anche scenografo e regista, riuscì a collegare la scorrevolezza di uno stile teatrale, quale potrebbe essere quello di un Menotti (come nell’opera per il teatro L’amante cubista, 1953), a un’ironia, ora acida ora divertita (l’opera buffa Weekend e quella comica Agenzia matrimoniale, 1962), al 1988 appartiene l’opera in tre atti Eureka Stockade; Hazon possiede anche un tratto funzionalista e costruttivista alla Hindemith, come nella musica da camera. La tonalità, la scala d’ottava, l’accordo perfetto non hanno timore di presentarsi, sono basi linguistiche imprescindibili, che vengono raffinate, da una memoria attenta al passato ma vigile sul presente. Da ricordare anche la sua musica per documentari e i più recenti balletti, quali Con amores, 1980, e I promessi sposi, 1985.
Alvaro Company (Firenze 1931) è la figura di riferimento per la chitarra contemporanea, non solo per aver dato vita alla cattedra presso il Conservatorio di Firenze (1960) ma anche per aver avuto allievi importanti (Saldarelli, Borghese e Frosali che dettero origine, nel 1970, al Trio Chitarristico Italiano), per aver ampliato le possibilità strumentali con il brano del 1963 Las seis cuerdas, per aver sollecitato molti autori a comporre per chitarra, per aver dato un contributo decisivo alla Schola Fiorentina e per aver ideato (a seguito della scoperta dello Zen e dello yoga) il metodo che fu chiamato di Biodinamica musicale, che consiste nell’armonizzare il contatto degli strumenti col proprio corpo, in una più intima partecipazione al fatto musicale, attraverso il respiro, il gesto etc.[5] Questa dimensione ha influenzato anche il modo di comporre di Company che non abbandona il rigore seriale su cui si basa la sua prassi compositiva ma lo volge a dimensioni intimistiche, questo avviene dal 1978 in avanti, col pezzo Ronde della prigionia dorata.
Ruggero Lolini (Siena 1932) è un “compositore francese”, la sua musica ricorda un certo stile francese primo Novecento, fatto di eleganza timbrica e di raffinatezza comunicativa. Nasce a Siena nel 1932. Studia prima con Frazzi a Firenze e poi con Milhaud a Parigi. Dal 1968 si stabilisce a Roma, dove lavora per la RAI. Le sue composizioni sono eseguite in molti luoghi prestigiosi sia in Italia che all’estero. Lolini, nelle prime opere, risente dell’influenza dei maestri francesi del Gruppo dei Sei, poi filtrata attraverso un tratto personale, infatti il suo ricco catalogo, prevalentemente cameristico, si pone come esempio di equilibrio e buon gusto. Le sue opere giovanili sono influenzate oltre che dai musicisti francesi, pure da Bartók e Stravinskij. Dopo un periodo di silenzio e di riflessioni, Lolini riprende la sua attività compositiva durante gli anni Ottanta, anche con opere di grande impegno (come il Requiem), nelle quali la sua personalità si afferma con decisione.[6]
Angelo Bellisario (Ragusa 1932), il padre fu allievo di Vassella ed era maestro di Banda;[7] fin dagli svolti studi a Milano, la formazione di Bellisario è legata all’ambiente lombardo-veneto (è stato direttore del Conservatorio di Rovigo); ha cercato di interpretare, in maniera personale, i portati della tradizione ma anche quelli delle avanguardie, mediandoli, aggiornando gli uni e togliendo gli angoli appuntiti agli altri, operazioni mai svolte in maniera astratta ma cercando di lanciare messaggi che comunichino le suggestioni della vita. Ha composto per orchestra (Due momenti, 1983), per voci, coro e orchestra (Poema, 1994) anche con testo religioso (Cantico di Papa Giovanni XXIII, 1991) oratori (Theodolinda, 1995) musica da camera (fra cui Cinque improvvisi, 1996) e alcune opere teatrali, fra le quali Turbativa (1991) su un caustico libretto di Quirino Principe, dove le parti vocali e orchestrali assumono ruoli precisi perché ogni personaggio viene caratterizzato con un proprio linguaggio. Nell’opera teatrale, come nella musica religiosa, lo stile di Bellisario è volutamente più tradizionale, obbedendo a esigenze storiche che vedono nelle forma per il teatro e in quelle religiose un obbligo a comunicare in maniera diretta con il pubblico e con i fedeli, per una funzionalità del massaggio, così avviene nel dramma lirico Dom Pedro (1989) e nel Cantico di Papa Giovanni (1991). Le ragioni di Bellisario sono quelle di rimettere in moto la memoria storica, creando nuove situazioni dinamiche, nel rapporto fra passato e presente; un’assimilazione della tradizione che viene elaborata con sentimenti fidenti, sicuri che l’oggi e le epoche passate sia profondamente legate in una relazione imprescindibile.
Giacomo Manzoni (Milano 1932) partito da posizioni vicine a quelle di Nono, sia in senso linguistico sia ideologico, mise successivamente a punto una scrittura basata su accostamenti di zone musicali omogenee e su scontri di parti disomogenee ora compatte, ora diradate, contrasti di masse in movimento. Gli esordi avvengono in ambito seriale (fino alla prima opera teatrale, La sentenza, 1960), poi il rigore strutturalistico si attenua per dar agio alla materia sonoro di espandersi più liberamente, come nella seconda opera teatrale Atomtod (1965), basata su tecniche di montaggio che fanno ricorso a stilemi ripresi dalla musica del Settecento, dal jazz e dalla musica leggera, utilizzando anche sezioni aleatorie; il contenuto riguarda la paura della bomba atomica e la critica alle leggi di mercato. L’impegno politico si manifesta esplicito durante questi anni, come in Ombre: alla memoria di Che Guevara (1968). Un materismo controllato, un po’ asfittico, sta alla base della produzione successiva, come nel brano per pianoforte e orchestra dal titolo esplicito di Masse (1977), inoltre, le opere teatrali Per Massimiliano Robespierre (1975) e Doctor Faustus (1989) e Il deserto cresce per coro e orchestra (1992).
Enrico Correggia (Torino 1933), è stato cofondatore della Corale Universitaria Torinese, di Antidogma Musica, dell’ICONS e della Camerata Strumentale Casella, dunque assai attivo in ambito organizzativo; come compositore, inizialmente fu vicino a uno stile che può ricordare quello di Penderecki, poi iniziò a spaziare, con libertà, da un linguaggio strutturato a momenti improvvisativi, dove melodia e ritmo non hanno più contorni definiti, ma viaggiano in uno spazio senza confini; ogni brano viene progettato, predisposto nel suo impianto generale,  però senza una tecnica rigida, in quanto la scrittura deve sempre nascere da una necessità interiore. Soprattutto i lavori dagli anni Ottanta in avanti riescono a ben esprimere le istanze espressive, come nella Sinfonia n. 1 (1981), Vox (1992), Voces (1993). Molti suoi brani sono basati sulla sezione aurea e sull’idea di un discorso sonoro; Correggia cita spesso, a descrizione della sua poetica, una frase di William Blake, “libertà è apprendere a esercitare il proprio genio contro ogni normativa restrittiva, lasciando che l’Energia trionfi sulla Ragione.”
Paolo Renosto (Firenze 1935-Reggio Calabria 1988) fu attivo alla RAI e collaboratore del gruppo Nuova Consonanza; fu vicino a Maderna che gli indicò come affrontare le tematiche postweberniane senza dogmatismi; fu attratto dalla poetica del caso, come in Players (1968) dove l’influenza di Cage pare evidente; un forte sperimentalismo gestuale è presente nella musica pianistica e solistica in genere; altre composizioni fanno ricorso a una scrittura più tradizionale, evocativa e ricca di suggestioni timbriche (Reflex, 1983); da ricordare le opere teatrali La camera degli sposi (1972) e L’ombra di Banquo (1976). Allievo di Fragapane e di Lupi (col quale si diploma nel 1962), frequenta anche i Corsi di Direttore d'orchestra di Maderna a Salisburgo. Nelle prime composizioni, quelle fino al 1958, la scrittura è di stampo dodecafonico, con evidenti influenze da Berg e Dallapiccola. Con i brani degli anni Sessanta, Renosto abbandona la dodecafonia e si orienta su una concezione più materica e attenta alle peculiarità foniche. Dal 1971 inizia a lavorare allo Studio di fonologia della RAI di Milano. Fitto è il catalogo della musica strumentale, ma è importante il teatro musicale, a cui Renosto si dedica con sempre più attenzione: dalla Camera degli sposi (1972) a L'Ombra di Banquo (1976), fino a Le Campanule (1981), con questo lavoro Renosto perviene ad una individuazione stilistica di forte efficacia teatrale, dove si condensano le esperienze precedenti, realizzando uno spazio/tempo musicale scarno e tagliente.
Biancamaria Furgeri (Rovigo 1935), ci dice Kandiskij ch’è la necessità ha creare le forme e ogni forma è relativa, è un mezzo contingente per la rivelazione del suono interiore, “il suono è l’anima della forma, che solo attraverso di esso può divenire viva e che agisce dall'interno verso l’esterno”. E' dunque tempo che si passi dal ragionare intorno ai suoni organizzati, alle interne ragioni del suono. Proprio il suono, specialmente nei suoi aspetti timbrici, è l’acquisizione recente della musica della Furgeri. Se, in una fase lontana, la Furgeri ha tentato di adeguarsi a procedimenti derivanti dalle avanguardie (serialità, aleatorietà etc.), da qualche anno il suo stile s’è fatto più avvolgente e personale. Negli anni Novanta ha messo a punto quello che potremmo chiamare lo ‘stile ornato’, uno stile decorativo, floreale, liberty. Quasi tutti i lavori, dal ’90 in avanti, si basano su piccoli disegni tematici dalla linea frastagliata e ondulata, sono ricami esili e trasparenti, sollecitati da un gesto minuto, e anche quando la gestualità è più evidente non perdono i loro tratti peculiari, le linee rimangono frammentate e sovrapposte, ricche di tremoli, acciaccature, trilli, suoni ribattuti etc. è uno stile che mira a valorizzare la ridondanza e la profusione dell’ornamento sottile, la delicata ricchezza delle sovrastrutture sonore. Le decorazioni sonore della Furgeri ricordano, per il loro fluente muoversi, certi abbellimenti usati da Castiglioni, per altri aspetti, legati a un ornato sul vuoto, lo stile di Pennisi, tutti musicisti indipendenti, solitari, che hanno percorso, per loro e nostra fortuna, strade lontane dalle varie nomenklature culturali di destra e di sinistra, approdando a risultati assolutamente personali. Farben è forse il brano più significativo e senz’altro quello che determina la svolta verso la produzione recente che si basa su tratti riscontrabili in questo brano per flauto, violino e pianoforte del 1990: il tessuto musicale è dato da un susseguirsi di immagini tematiche spezzate e contrapposte.[8]  La parte della produzione della Furgeri, pur servendosi di un impianto prevalentemente atonale o anche seriale, non aderisce quasi mai alle posizioni delle varie avanguardie. Essa ritorna, semmai, in linea con alcune tendenze culturali recenti, a un passato novecentesco, infatti, il suo suono ideale è quello espresso dai primi decenni del Novecento, è per questa ragione che sono stati scritti brani legati da un tenue e frammentato tematismo e compaiono brevi momenti tonali, recuperando la dimensione melodica, anche grazie a impasti strumentali molto pregnanti ed espressivi (Due stampe antiche, Pensieri da Geremia Profeta, Tre quadri musicali per Claudia). In alcune composizioni si possono rilevare influssi ligetiani, ma filtrati attraverso una personale rielaborazione.
Franco Oppo (Nuoro 1935) inserisce richiami alla tradizione della sua terra in procedimenti d’avanguardia, come in Anninnia I e II, 1978-82. Gli esordi avvennero nell’ambito neoclassico, per poi adottare procedimenti aleatori, come nel Concerto (1964); fu attratto da procedimenti combinatori (Amply, 1976) e dal rapporto fra musica e testo (Praxodia, 1976). Anche le composizioni più recenti confermano i suoi interessi fra suggestioni etniche (Kantelesong, per kantele, cetra finlandese, 2005), musica elettronica (Quasi silenzio, 2002), musica strumentale (Fasi B, 2007) e orchestrale (Nodas, 2001); ha composto anche per il teatro (Eleonora d’Arborea, 1986).
Fernando Sulpizi (Porto san Giorgio 1936), lavorando con le percussioni ha ideato dei Ludus teatrali; il concetto di tempo sta alla base dell’articolazione della sua musica, incentrata sui momenti dell’attesa, dell’attenzione e della memoria.[9]
Davide Anzaghi (Milano 1936) è figlio del fisarmonicista Oreste (1903-1963), appartiene a quella che potremmo definire la generazione di mezzo, compresa fra i maestri che si affermarono in campo internazionale negli anni Cinquanta (i compositori nati negli anni Venti, come Maderna, Nono, Berio etc.) e quelli che furono chiamati ‘i giovani compositori’ (nati fra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta, da Sciarrino in poi), generazione che vede indubbiamente molti autori di grande livello, come appunto Anzaghi, ma che risente di un certo schiacciamento (sarebbe l’ora di riconsiderarla come merita). Anzaghi fu introdotto giovanissimo alla musica dal padre, dal 1968 iniziò il suo percorso artistico dedicato alla composizione, regalando però molte delle sue energie anche alla didattica e all’organizzazione musicale. Negli anni Settanta vinse numerosi concorsi internazionali e il suo stile si orientò verso una certa sperimentazione tecnico-formale, che abbandonò dalla metà degli anni Ottanta. Le architetture musicali diventarono più semplici e soprattutto orientate verso un’immediatezza d’ascolto. Dal 1984, Anzaghi percorse un itinerario orientato verso una sobria rivalutazione dell’ascolto, risolvendo in efficacia acustica/espressiva strutture a volte complesse, approdando spesso a una scrittura armonica ed eufonica, nella quale trapela una componente onirica. Stile poetico e vagamente dialettico quello di Anzaghi fa emergere sempre la poetica di fondo che sorregge ogni lavoro. Ha scritto un’opera teatrale, Il luogo della Mente, un atto per soprano e orchestra (anche in versione con pianoforte), 4 sono le composizioni per voce recitante e strumenti o coro, numerosi i brani solistici (con preminenza di quelli pianistici) e di solista con orchestra, inoltre, brani orchestrali e musica sacra, ma la parte più consistente del suo catalogo riguarda la musica da camera, settore dove la sensibilità espressiva e l’eleganza del tratto meglio si manifesta.[10] 
Giancarlo Facchinetti (Brescia 1936),[11] se classicismo e romanticismo si considerano come archetipi culturali e non come epoche storiche, la musica di Facchinetti si situa sulla strada di confine fra i due modelli estetici: del classicismo riprende l’esigenza di chiarezza e di forma, dal romanticismo il profondo bisogno comunicativo e dal simbolismo alcuni aspetti surrealistici. A livello metodologico è la serialità quella che intriga di più Facchinetti, il quale vanta un catalogo molto vasto, dal 1952 a oggi. Il totale cromatico, inteso in maniera non dogmatica ma libera, è la base di molte composizioni, sotto l’alto insegnamento di Berg; ma il maestro ricorre anche alla politonalità; nel campo orchestrale sono da ricordare i Concerti (1966 e 1977, nel secondo di questi concerti Facchinetti adopera, per la prima volta, il metodo compositivo basato su micro-serie), la Ballata per pianoforte e orchestra (1982) e le Cinque invenzioni (1991); nell’ambito cameristico da citare le tre Arabesche (le prime due del 1981 e la terza del 1989); gli anni Ottanta sono quelli del teatro, in modo particolare ci si può soffermare su La finta luna (1987) dalla teatralità spigliata e dall’orchestrazione travolgente, basata su serie che vengono costruite in funzione delle loro risultanza sonore e non in maniera astratta; la voce viene modellata su un’ampia varietà di intonazioni e relazionata al dinamismo coloristico.
Carlo De Incontrera (Trieste 1937), fu animatore del gruppo triestino Arte Viva; ha composto musica orchestrale e da camera, anche opere teatrali (Vademecum, 1971), ma dagli anni Ottanta fu attivo soprattutto come critico e docente (con saggi su Beethoven, Chopin, Mahler etc.). L’attività compositiva va dalle pagine dell’inizio degli anni Sessanta a quelle degli anni Ottanta (da Crecidia a Polifonia)
Irma Ravinale (Napoli 1937) infatti, studiò a Roma con Petrassi. Nel 1966 vinse, unica donna in Italia, il concorso per la cattedra di composizione presso il Conservatorio di Santa Cecilia e nel 1979 vinse il concorso per direttore (anche in questo caso è la prima donna ad emergere nella storia dei conservatori italiani). La Ravinale è autrice di una vasta gamma di opere sinfoniche, cameristiche, liriche, che elaborano elementi strutturali in una costruzione intelligibile all’ascolto. La composizione è un’attività sostanzialmente logica, assestata secondo canoni impressi dalla ratio maschile che è più speculativa, astratta, egocentrica, prepotente, rispetto a quella femminile; è per questo, oltre che per ragioni sociali, che la composizione al femminile ha tardato a manifestarsi. Il comporre, per la donna, è stato una conquista; è solo dagli anni Settanta in avanti che si nota una notevole presenza sia per quantità, sia per qualità delle donne compositrici. Nelle opere giovanili, come il Concerto per archi, Lo scorpione e La morte meditata, la Ravinale getta le basi per il suo linguaggio che mai, nella sostanza, abbandonerà. Legata allo stile concertistico e sinfonico, lavora anche nel campo della musica da camera, con una particolare predilezione per la chitarra, come la Sinfonia concertante per chitarra e orchestra, i Dialoghi per viola, chitarra e orchestra e Sequentia per quartetto d’archi e orchestra. Fra le opere principali, oltre alle citate, vanno almeno segnalate: l’opera in un atto Il ritratto di Dorian Gray, la Ballata di Amore e di Guerra, la Sinfonia concertante, Spleen, Improvvisazione.[12]
Umberto Rotondi (Milano 1938-Bareggio 2007), compositore rigoroso che spesso utilizzò una metodologia basata sulla trasfigurazione continua di cellule iniziali; fece parte del gruppo che scrisse la Messa Ambrosiana, composta in collaborazione con Emanuela Ballio, Daniela Gazzola, Fiammetta Pasi, Loris Capister, Fabio Grasso, Bernardo Mariani, Michele Negro e Danilo Zaffaroni (1992); fra i suoi lavori da ricordare Per Orchestra (ovvero: Omaggio a Mendelssohn).
Romano Pezzati (Firenze 1939) studiò con i due punti di riferimenti più importanti della Firenze del secondo dopoguerra, Lupi e Dallapiccola, da entrambi riprese il senso drammatico (Il sognatore, 1982) e l’esigenza etica del fare musica (Recordare I, II, II, 1978), anche con spunti religiosi, come in Frammenti biblici (1973); l’aspetto più sperimentale si riscontra in modo particolare nella musica pianistica, con soluzioni gestuali e armoniche particolari.
Armando Gentilucci (1939-1989),[13] nella sua prima fase produttiva, scrive musica impegnata ideologicamente (Cile '73), riprendendo il modello di poesia sociale di Quasimodo, ma dopo un inizio materico, con opere ricche di citazioni assemblate secondo la tecnica del montaggio (Come qualcosa palpita sul fondo, 1973), la sua scrittura diventa via via più duttile e flessuosa, capace di grandi finezze sonore e perfino di momenti cantabili. L’espressività della voce umana lo affascina sempre più, voce intesa anche come veicolo di narrazione. Gentilucci riesce a costruire dei processi coerenti, privi di rigidezza, arricchiti da una suggestiva trama di arabeschi strumentali (come in Ramo di foglia verde), spesso con un tocco di senso panico e dell'incanto antico ritrovato (come in Flashback). Il senso della forma non viene mai meno, anche se il costrutto si fa spesso leggero, realizzato da sottili giochi timbrici (come in Critografia). Nel decennio 1979-89 Gentilucci scrive ben 57 composizioni, dimostrando un'urgenza espressiva profonda. Il rapporto col testo, l'uso della metafora, il procedere della musica ad onde (ossia il crescere e decrescere di tensioni), il ricorso alla memoria (musicale) storica sono alcuni tratti distintivi dello stile dell’ultimo Gentilucci. Dimostrazione della sua ampia visione culturale è l’Opera Moby Dick (1988), su libretto proprio ricavato ovviamente da Melville, si tratta di un lavoro aperto non solo musicalmente, ma anche in senso psicologico, nel quale la narratività si raccoglie in un teatro dell’interiorità.[14]


[1] Renzo Cresti, Carlo Prosperi, GIMC, Firenze 1993, pp. 81, 89, 95, 96: «In Incanti, per soli, diversi e orchestra, Prosperi fa ricorso all’ormai consolidata tecnica pluriseriale, modellata con grande sapienza orchestrale, tant’è che la scrittura si risolve in una timbrica cangiante. […] La ricchissima tavolozza coloristica di In nocte secunda, per chitarra, clavicembalo e sei violini, non rimanda tanto al neo-impressionismo quanto alla straordinaria sensibilità timbrica che Prosperi ha sempre posseduto, in maniera spontanea. […] Tutto il pezzo viene articolato con leggiadria, da una mano felicemente ispirata, apollinea. Se Incanti è il capolavoro per quanto riguarda la musica orchestrale, In nocte secunda lo è per ciò che concerne i pezzi da camera, grazie alla sua limpidezza formale, alla sicurezza del segno, all’istintivo lirismo e alla timbrica meravigliosa. […] Nello scintillante brano clavicembalistico Costellazioni, ricco di bagliori dorati e preziosi per la loro cristallinità, l’articolazione è fitta, il ritmo è scattante. […] Il Concerto dell’arcobaleno, per pianoforte, marimba e archi, possiede un timbro che, nei suoi giochi d’aria e di polvere d’oro, simboleggia l’iridescenza dell’arco terrestre; l’immagine dell’arcobaleno è allegoria di un linguaggio sereno, chiaro nei suoi contorni di sviluppo, delineato con nitore nell’articolazione pianistica e in quella della marimba».
[2] Giuseppe Chiari, Musica madre, Prearo Editore, Milano 1973; Giuseppe Chiari, Il metodo per suonare il pianoforte, Martano Editore, Torino 1976, nella Postfazione Gillo Dorfles scrive: «Nel libro vi sono segni scarni e anti-edonistici, dove non viene data nessuna enfasi all’aspetto pittorico ma in cui viene esemplificata la metodologia che l’esecutore o il fruitore deve seguire per intendere il brano in questione. […] Scoprire l’intima qualità formale (e musicale) degli oggetti, degli strumenti, così da poterli suonare sfruttando tutte le loro qualità morfologiche. Quando Chiari parla di suonare la sedia intende dire che per lunghi mesi ha studiato tutte le possibilità di maneggiare – sonoramente, acusticamente, strutturalmente – questo oggetto: la possibilità di percuotere a turno o alternativamente le gambe, di usare lo schienale o il sedile etc.», pp. 130, 133. Giuseppe Chiari, Trattato di musica, Pedrini, Napoli 1993, pag. 9: «La musica è una cosa facile». Giuseppe Chiari, Autoritratto, Nardini, Firenze 2008, pag. 11: «La musica non è idea. Vive solo se suono».
[3] Vanno segnalati Vincenzo De Grandis (1577-1646) e il nipote Vincenzo junior (1631-1708).
[4] In Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, vol. I, cit., pag. 75.
[5] Nel 1970, una lesione al nervo del braccio desto lo costrinse a interrompere l’attività concertistica (a eccezione di 5 concerti alla Scala voluti da Bruno Maderna). «Fin dalla fine degli anni Cinquanta, la sua ricerca sul repertorio per chitarra aveva prediletto le opere da camera per chitarra o liuto, repertorio pressoché ignorato (Vivaldi Corelli etc.) […] si trovò ad affrontare il problema della sonorità che risultava troppo esile, ciò lo indusse a ricercare soluzioni inedite, come il tocco appoggiato, la diversificazione della pronuncia etc. […] L’interesse personale per le nuove possibilità dello strumento lo portano a esplorare la letteratura per chitarra dei compositori contemporanei, effettuando molte prime esecuzioni (Petrassi, Milhaud etc.) […] Il suo stile compositivo, orientato su elementi atonali e dodecafonici era anche contaminato da una diffusa corrente avanguardistica; ma ad oggi traspare con evidenza un’affascinante stratificazione di diversi linguaggi, laddove frammenti melodici tonali coesistono con strutture armoniche atonali, in un tessuto di significati di sapore onirico», nella rivista «Guitar», anno VII, numero XXVII, Avellino luglio/settembre 2002. Cfr. Giovanni Cifariello, Alvaro Company, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1999.
[6] Fra le sue composizioni si citano quelle incise: Attorno al nome di Lucia, Forme e silenzi, Caffè Mozart, Alternanza, Nairanjana, Ogni giorno è l’ultimo, Chipangu, Sequenze , Alternanza 4, Frammenti, O forse solo l’ombra, Mutazioni, Nell’attimo che a squarci, Notturne stelle innumeri, Estensioni 2 e altro.
[7] Cfr., Renzo Cresti, Una musica per la gente, con partecipazione, in Linguaggi della musica contemporanea 2, Miano, Milano 1995, pag. 38: «Alla mia formazione artistica ha contribuito il fatto di nascere figlio di un maestro di Banda, conseguenza diretta ne è stata la conoscenza personale di quasi tutti gli strumenti, inoltre, debbo moltissimo al mio insegnante Maggioni. […] Autodisciplina, che è la conditio sine qua per il controllo delle idee».
[8] Il discorso procede prevalentemente per ondulazioni dinamiche e di movimento. Ne sono tratti caratteristici il suono ribattuto, che connota le tumultuose pagine iniziali; la formazione del tessuto tematico da due soli tipi d'intervallo, variamente manipolati; il carattere estroso e danzante della parte centrale, basata su un ricorrente elemento pianistico; l'uso di cadenze, anche non misurate; l'agile parte finale, che si calma gradualmente, trascolorando in sonorità sempre più lievi. I brani successivi, come Alba (1994), Piccola cantata (1999), Quasi una rapsodia per pianoforte e Magdalena Flos Sanctitatis (entrambi i brani sono del 2000) si concedono, ancor più, alla presa dell’ascolto, facendo perno non solo sulla forma sferica, ma anche sulla qualità interna del suono, che concede freschezza al vagabondare del fraseggio. Un errare di movenze libere e ornate, ma sempre incanalati in tragitti dai solidi spessori strutturali. Recentemente ha scritto molto per pianoforte, organo, coro e musica da camera (con la predilezione per il flauto e per la chitarra), anche pezzi per giovani musicisti, non solo ben fatti ma che - ancora una volta - rivelano il dono di una sensibilità (sonora) raffinata. Cfr. Renzo Cresti, Biancamaria Furgeri, in Linguaggi della musica contemporanea, Miano, Milano 1997.
[10] Nel 1994 ha fondato l’associazione per l’arte contemporanea Novurgia www.novurgia.it Dal 2003 è Presidente della S.I.M.C. www.simc-italia.it Sul rapporto fra musica e numero, fra libertà e vincolo, nell’Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a proposito del pezzo Phantasus, Anzaghi così si esprime: «Lungi dall’affermare una sorta di poetica scientista, il ricorso al numero è mezzo per arginare quella pseudo soggettività che contrabbanda rigurgito per spontaneità, scrosci di banalità per flussi ideativi, spudoratezza per urgenza espressiva. Tanto vale opporsi alla finzione di essere soggettivamente liberi e rinchiudersi in una prigione numerica: in tal modo si vedono meglio i confini della propria libertà».
[11] Cfr. Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Giancarlo Facchinetti, Miano, Milano 1995, pag. 26: «Il mio linguaggio si è formato intorno agli anni ’50, che potremmo definire dei post-dodecafonici. Uso blocchi serializzati che non corrispondono più alla dodecafonia schönberghiana ma non riportano nemmeno più alla libertà cromatica del primo Schönberg, quello della pura atonalità».
[12]  Le schede critiche su Evangelisti, Guaccero, Lolini e Ravinale, sono tratte da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III voll., 10 Cd, Pagano, Napoli 1999-2000.
[13] Prima insegnante nei Conservatori, dal 1970 alla morte è direttore dell’Istituto musicale di Reggio Emilia. Attivo anche come saggista.  Negli anni Sessanta è legato al clan milanese-emiliano della musique engagé, sotto l’egida dell’ideologo Luigi Pestalozza, un’ideologia che tanto male ha fatto all’allora musica contemporanea tenendola prigioniera del rispecchiamento diretto fra musica e società, fra espressione artistica e politica, sotto l'influenza nefasta del realismo socialista proveniente dall’U.R.S.S., un’impostazione paradossalmente assai vicina anche a quella del fascismo (paradossalmente ma non tanto visto l’uso che dell’arte ne fanno tutte le dittature). All’interno dell’Istituto “Peri”, Gentilucci dette ospitalità alla rivista «Musica/Realtà» la quale, fin dal titolo, non pone filtri soggettivi, linguisitici e inventivi fra la musica e la realtà, come se la musica altro non fosse che un pezzo della quotidianità e che le problematiche giornaliere fossero l’unico orizzonte dell’arte. Nel furor politico Gentilucci vi rimase invischiato fino alla metà degli anni Settanta, scrivendo opere-manifesto oggi invero inascoltabili, poi le menti con antenne più sensibili iniziarono a vedere l’arte sotto un punto di vista più liberamente creativo (qualcuno dovette aspettare il crollo del Muro di Berlino, a qualcun altro non è bastato nemmeno quello). Una visione popolare della musica ossia un’operare che si rifà a tematiche provenienti dalla musica, dalla cultura e dalla civiltà popolare è quella di Mario Cesa che si distacca dall’impostazione ideologica di Gentilucci per non affrontare indirizzi astratti di linee politiche ma per scavare nel profondo dei sogni e bisogni di una collettività riprendendoli in strutture aperte e fortemente comunicative.
[14] Fra le composizioni più significative, oltre le citate, sono da ricordare: Canti di Majakovskij (1970), Il tempo sullo sfondo (1979), Voci dal silenzio (1981), Le clessidre di Durer (1985), Lo scrigno dei suoni (1989). Da Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, III voll., 10 cd, Pagano, Napoli 1999-2000.






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