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Musica per film, gli autori storici: Rossellini, Rota, Mannino, Morricone, Piovani
Musica per film (e non solo)

Il lavoro del compositore cinematografico si basa su processi di giustapposizione di momenti musicali, funzionali alle scene che mutano e che hanno un labile rapporto  fra loro (un procedimento simile a quello con cui lavorano i Dj): si prendono brevi elementi di partenza, spesso tematici e su ritmi ostinati, ben caratterizzati nel colore e nell’atmosfera, senza dare molta importanza alle qualità del materiale prescelto che non condiziona, come nel caso della musica pura, le procedure compositive che non sono stringenti, che non devono fare i conti con antecedenti e conseguenti, con uno sviluppo e con un ordine formale, anzi, lo svolgimento della musica da film deve essere, appunto per risultare adeguato ai continui e veloci cambiamenti di scena e di clima espressivo, segmentato e fin atomizzato, ma sempre ben riconoscibile negli elementi di base, mai astratti ma concreti nella loro efficacia retorica di sottolineare le scene, di evidenziarne la temperatura emotiva, di dar rilievo a uno sguardo o a un gesto, di marcare un particolare, di ricordare ciò che è avvenuto o di anticipare quello che verrà. Per realizzare questi segnali sonori non si è condizionati dai metodi strutturali usati nella composizione pura, ma dalla risultanza sonora, dalla sua efficacia in relazione all’immagine, a tal fine ogni suono può essere utile, dal rumore a una semplice ripetizione di un tema, di un ritmo o di un colore, da rifermenti a stilemi storici a quelli a musiche di culture diverse, dal jazz al rock etc., è un vero esempio di espansione dei materiali di riferimento e di inclusione, seguendo il principio di integrazione fra la musica e la sua applicazione alla storia e all’immagine.

Come e quanto la musica può intervenire sull’immagine cinematografica? Il come riguarda gli aspetti stilistici, mentre il quanto è una questione di proporzioni. Spesso i musicisti sovrappongono i suoni alle immagini in modo da creare una ridondanza retorica che, se caldamente avvolge lo spettatore/ascoltatore risulta però eccessiva dal punto di vista formale (molti gli esempi, fra cui le musiche di Rustichelli per Germi o quello di Lavagnino), in questi casi il linguaggio rimane legato agli stilemi tardo romantici, crepuscolari, volti spesso verso andamenti melodici (come in Cicognini), altre volte verso il realismo delle immagini (come in Renzo Rossellini).Lo stile romaticheggiante impera, ha in sè la propensione al racconto, sulle tracce del poema sinfonico, tende a riempire lo schermo con dolce esuberanza, all'opposto la musica di avanguardia (per esempio quella di Philip Glass) s’impone di per sè, ha una ridondanza controllata e, a volte, crea una non stretta corrispondenza fra suoni e immagini.

«Fra le capacità del buon compositore di musiche per film» - dice Giorgio Gaslini - «Metterei quella di orchestratore, la capacità di ben bilanciare i timbri, i colori dei suoni che si devono abbinare a quelli delle immagini. È altrettanto importante possedere una buona vena melodica, inventare temi che colpiscono subito l'immaginario dell’ascoltatore» (manoscritto). Questa dichiarazione di Gaslini, che ha scritto 43 colonne sonore (fra cui quella de La notte di Antonioni, con la quale vinse il Premio Nastro d’argento), mette a fuoco come il compositore che si accinge a scrivere una colonna sonora debba possedere alcune specifiche qualità che non sempre sono scontate, soprattutto nell'ambito della musica colta che tende a sopravvalutare l’aspetto formale su quello espressivo (non è un caso che siano pochi i musicisti della musica classica contemporanea che si dedicano al cinema, anche se, negli ultimi anni, il panorama sta un po’ cambiando). La musica per film deve essere funzionale e non autoreferenziale.  

In Italia, il settore accademico (non solo nella musica) continua a essere staccato da quello predominante nel mondo reale, non bastano i pochi dipartimenti di jazz e qualche corso di musica applicata, sorti di recente, a modificare la situazione, ci vogliono idee che possano competere con il mondo multimediale e tecnologico in cui siamo inesorabilmente immersi, volenti o nolenti. In Inghileterra e soprattutto negli Stati Uniti, non vi è distanza tra le varie tipologie di musiche, non c’è mai stata e quindi il concetto di musica è più inclusivo, più dinamico e legato alla produzione, (nella quale gioca in ruolo importante il mecenatismo privato che in Italia, per tante ragioni, non esiste); in questo contesto anche l’artista (non solo il musicista) vive la musica in maniera più diretta e concreta, meno astratta e intellettualizzata, meglio inserito nella molteplicità culturale del sociale (anche quella che, dal punto di vista accademico, risulta la più bassa e volgare). «In America», - scrive Fabrizio De Rossi Re - «Lo stesso compositore può scrivere nello stesso periodo la musica per uno spot pubblicitario, per l’inaugurazione di una scuola elementare, e ricevere una commissione per un’opera sinfonica da eseguirsi alla Carnegie Hall. Come avviene questo?  Avviene perché è un musicista a tutto tondo, che vive il lavoro della musica con tante competenze diverse e utili! Qui invece no. Nei nostri conservatori queste competenze diverse purtroppo non si acquisiscono e, salvo rarissime eccezioni, non si studiano. Il pubblico americano o inglese, anche di generazioni diverse, è abituato a mettere sullo stesso piano Schönberg e Ray Charles, Stravinskij e Frank Zappa, Händel e Burt Bacharach» (manoscritto), la musica per film ha sofferto di questa situazione, della puzza sotto il naso con cui veniva guardata dalla cultura elitaria, schiacciata anche dal peso della storia (della musica) e dello storicismo che, in Italia, è ancora l’impostazione predominante nelle analisi dei fatti, ma ha sofferto pure dell’ignoranza dei produttori (che sulla musica volentieri risparmiavano) e dei registi (legati a una cultura prevalentemente letteraria) nei confronti della musica, rarissimamente competenti e davvero interessati a far compartecipe la colonna sonora alla sceneggiatura del film.

Fellini ebbe a dichiarare, nel 1958, sulla Rivista «Bianco e nero»: «Siccome ho idee abbastanza chiare del film che faccio, in ogni dettaglio, il lavoro con Rota si svolge proprio come collaborazione alla sceneggiatura. Io sto vicino al pianoforte e Nino sta al pianoforte e io gli dico esattamente quello che voglio. Posso dire ch'è fra i musicisti ciematografici il più umile di tutti, perché fa una musica veramente funzionale». In una dichiarazione successiva, Fellini dice addirittura che la sintonia con Rota è talmente forte da avere la sensazione di essere lui a scrivere la colonna sonora. Rota ha, come sottolinea Fellini, quella umiltà indispensabile a mettersi al servizio delle esigenze cinematografiche, il che significa, tecnicamente, essere disponibile a mutare linguaggi e stili seguendo il copione, essere aperto a filtrare immagini e racconti e farli diventare suono. Da questa comprensione e sensibilità verso l’unione del suono con i tempi e le modalità delle immagini, prende corpo l’aderenza dei ritmi, del fraseggio e delle melodie alla storia raccontata dal film, creando un unicum.

Va notata l’attenzione con cui Fellini segue la musica: non dà generiche indicazioni oppure lascia campo libero al musicista, come purtroppo accade per tanti registi, i quali lasciano che sia il compositore a lavorare sul copione perché non saprebbero cosa dirgli essendo non solo ignoranti del fatto musicale ma spesso anche sordi, ahimè.  Fellini non si accontenta di una musica qualsiasi, preconfezionata, che non affonda nell'espressività del film, si siede accanto al suo musicista e, insieme a lui, cerca idee sonore, a volte è lo stesso regista a fornire degli spunti al compositore, come nel caso della Marcia dei gladiatori del musicista cèco Juliu Fucik, un pezzo circense che Fellini si porta in testa e che Rota trasfigura ne Lo scicco bianco (lo stesso tema viene ripreso pure nel valzer che si ascolta nel locale Cha-cha-cha in una scena della Dolce vita).

È interessante volgere l’orecchio a una proposta che proviene dal pianista jazz Enrico Pieranunzi che ha realizzato il progetto Fellini Jazz, in cui si presenta la musica di Rota, che non ha elementi espliciti di tipo jazzistico, ma che nelle mani di Pieranunzi dà stimoli alla creazioni di atmosfere fra il reale e l'immaginario bene riuscite per i film di Fellini.
La musica da film sposa in pieno uno dei presupposti del Postmoderno ossia che non vi è un linguaggio, una forma o uno stile predominante ma che ogni linguaggio è border line, tutto viene attraversato e tutto può servire al caso di rendere funzionale la musica, sta poi all'intesa fra compositore e regista il sistemare al meglio questa funzionalità.

La musica accompagna il film fino dai tempi del cinema muto, quando un pianista o una piccola orchestra sottolinea i momenti espressivi della storia. Si formano anche dei prontuari che raccolgono delle melodie adatte alle diverse situazioni. Importanti musicisti, fra cui Saint-Saens, Milhaud, Honegger, Ibert, Šostakovi?, Eisler, Hindemith, in Italia Pizzetti e Mascagni, scrivono colonne sonore. Dal 1927 si ha la possibilità di sincronizzare l’immagine con la registrazione sonora, inizia così l’affascinante storia della musica per film, parallela, ma anche diversa, da quella della musica dotta, perché richiede una disponibilità particolare a seguire le regole del film, è musica descrittiva e funzionale, dove l’elemento psicologico deve essere affrontato in maniera diretta.

Colonna sonora è lo spazio della pellicola che contiene le informazioni sul suono (la pellicola è infatti divisa in tre parti, quella centrale contiene i fotogrammi dell’immagine, quella a sinistra la banda sonora e quella a destra la perforazione per il trascinamento della pellicola stessa). La musica filmica, come quella per il teatro e la televisione, deve essere idonea a seguire più che una sua costruzione interna, l’andamento ritmico-espressivo delle inquadrature, questo spiega perché solo pochi compositori della musica dotta si rivolgono al cinema, occorre una predisposizione al composito e all’eterogeneo, senza aver paura di mischiare generi alti e bassi, infatti la musica per film può funzionare anche se non bellissima in sé, al contrario una musica bella, ma chiusa nel suo formalismo, può risultare estranea allo svolgimento del film.
I compositori della classica contemporanea non hanno quasi mai scritto musica applicata, poche davvero le eccezioni, e non solo in Italia, come Bruno Maderna autore del commento musicale per La morte ha fatto l’uovo), Valentino Bucchi (si ricorda Banditi a Orgosolo), Luciano Chailly (Luciano, una vita bruciata), Luigi Dallapiccola, Luigi Nono, Luciano Berio, hanno scritto musica per alcuni documentari e pochi altri compositori possono essere citati per la storia della musica da film, quali Labroca, Macchi, Porrino, Turchi, Vandor e, su tutti, il classico Nino Rota e il “jazzista” Giorgio Gaslini (La notte di Antonioni e Profondo rosso di Argento).

I pochi nomi e i pochissimi lavori per la cinematografia dimostrano come sia difficile, se non si ha una forma mentis aperta e duttile e se, soprattutto, non si hanno esperienze di vita, coniugare la ricerca con l'immediatezza, il rigore formale della musica classica col melodismo di pronto impatto; certo non tutte le oltre 350 colonne sonore di Morricone dimostrano efficacia e qualità (quando si scrive così tanto non si può che affidarsi anche a dei modelli realizzati in studio), però quando il Maestro s'impegna, o la fanno impegnare, fin dalla stesura della scenografia, come nel caso di Leone che gli chiedeva di realizzare anticipatamente la musica per poi utilizzarla come guida per le riprese, i risultati sono eccellenti.
Gian Francesco Malipiero è uno dei primi a scrivere, nel 1933, musica per film, Acciaio su scenografia di Pirandello e regia di Ruttmann. Anche Pizzetti, Zandonai, Ghedini, Pick-Mangiagalli, Zafred, Mannino e Petrassi si dedicano al cinema. Ma è con la stagione del neo-realismo che si hanno i primi capolavori, come le musiche di Cicognini per i film di De Sica e come le colonne sonore di Renzo Rossellini per i film del fratello Roberto.

In che rapporto la musica deve intervenire sull'immagine, come e quanto? Il come riguarda gli aspetti stilistici, mentre il quanto è una questione di proporzioni. Spesso i musicisti sovrappongono i suoni alle immagini, in modo da creare una ridondanza retorica che, se caldamente avvolge lo spettatore/ascoltatore, risulta eccessiva, per esempio le musiche di Carlo Rustichelli per Pietro Germi, o quelle di Francesco Lavagnino. In questi casi lo stile rimane legato a un linguaggio tardo romantico, crepuscolare, a volte molto melodico, come in Alessandro Cicognini, a volte più controllato e condizionato dal realismo delle immagini (pensiamo a Renzo Rossellini). Lo stile romanticheggiante, di solito, seguendo una certa propensione al racconto in musica, sulle tracce del Poema sinfonico, tende a riempire lo schermo con i suoni, si fa esuberante, diventa troppo.

Il caso di Cicognini è interessante, perché si crea una iato fra il suo fluente melodismo e il carattere disadorno dei film di De Sica e Zavattini, c'è da chiedersi quanto la non-corripondenza sia voluta, certo non può essere del tutto inconsapevole, per cui la facile vena musicale viene utilizzata per addolcire, o meglio, per rendere più rotonde le immagini. Al di là del (neo)realismo, si nota, a volte, una volontà di depurare la musica per lasciar parlare la sola immagine, nel silenzio o accompagnata dai rumori del contesto. E' un'esigenza alla purificazione che si è fatta più forte negli ultimi anni e che salvaguardia la forza intrinseca dell'immagine la quale, con una musica eccessiva, rischia di essere edulcorata. Una situazione analoga, pur per motivi opposti, si crea con la musica d'avanguardia (per esempio quella di Philip Glass) che s'impone, a volte prepotentemente, sull'aspetto visivo. Qui non è l'eguaglianza stile romantico = ridondanza ha creare uno squilibrio, ma la pretesa di concentrare l'attenzione sull'aspetto musicale che, per come è costruito e per come si presenta, costituisce il vero filo rosso della storia, l'immagine gli diventa di supporto.

Sulla plasticità dell’immagine, rispettando la sua purezza e naturalezza, senza forzarla in senso zuccheroso o rude, il silenzio gioca un ruolo decisivo. Silenzio in senso stretto oppure rarefazione sonora e/o dinamiche in pianissimo. Alcuni musicisti hanno effettivamente realizzato il difficile equilibrio, come Roman Vlad (per esempio nella bellissima musica di Domenica d'agosto di Emmer), Mario Zafred (il rigoroso commento di Achtung banditi di Lizzani), Nino Rota (che ne La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Prova d'orchestra e in altre pellicole realizza un sottile lavoro di integrazione musicale dell'immagine in funzione psicologica), Giovanni Fusco (Cronaca di un amore di Antonioni, ma anche Deserto rosso, in collaborazione con Vittorio Gelmetti che realizza la parte elettronica), Franco Mannino (dalla rielaborazione dei temi donizettiani in Bellissima di Visconti, col quale collaborò anche negli ultimi anni di vita, da Morte a Venezia a L'innocente, alla bella partitura de La provinciale di Soldati).

Alessandro Cicognini (Roma 1907-1996) fu il Presidente dell’Associazione Nazionale di Musica Cinematografica; oltre ad aver scritto numerose colonne sonore, fra cui quelle per Pane, amore e fantasia di Comencini e di Ladri di biciclette di De Sica, ha composto anche la musica per la serie televisiva Don Camillo.

Renzo Rossellini (Roma 1908-Montecarlo 1982), su un tessuto tonale l’orchestra gioca con un caleidoscopio di colori, con un fraseggio morbido ed elegante, con una spiccata melodia, a volte riecheggiante movenze popolari, altre volte stilemi pucciniani. A partire dagli anni Cinquanta scrisse una decina di opere teatrali, stilisticamente tradizionali, fra cui La guerra (1956), Il vortice (1958), Uno sguardo dal ponte (1961) fino a L’annonce faite à Marie (1970); la musica orchestrale ha un tratto descrittivo/evocativo sulla falsariga di quello di Respighi (La sera fiesolana, 1938), una tendenza all’affresco che li giovò assai nella scrittura della musica per il cinema, dove ottenne i risultati migliori, sia in collaborazione con il fratello Roberto (Roma città aperta e Paisà, due capolavori), sia con altri registi, specialmente d’impronta neorealista. Fu anche saggista.
Nino Rota (Milano 1911-Roma1979) allievo di Casella riprese dal maestro la tendenza classicheggiante che però seppe volgere a toni elegiaci e struggenti, a volte ironici e fantastici, umoristici e ottimistici, sempre liricamente pronunciati, in modo spontaneo. Fece ricorso a una ritmica decisa, a soluzioni politonali, a stilemi ripresi dalla musica colta tradizionale, sia melodrammatica sia strumentale sei-settecentesca, ma anche dal mondo popolare e dal jazz. Ebbe un sicuro gusto per l’affresco e la musica descrittiva, aggiungendoci però un inconfondibile tono nostalgico; estraneo al linguaggio delle avanguardie, Rota si indirizzò verso una musica volutamente semplice, diatonica, di forma classica, dal fraseggio simmetrico e dalla melodia ben evidenziata, fu, dunque, autore dallo stile eclettico e assai versatile, che gli permise di adattarsi a varie situazioni espressive, carta vincente per scrivere belle colonne sonore per i film di Fellini (La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 e ½, Amarcord), di Visconti (Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo) e di Zeffirelli (Romeo e Giulietta). Le stesse caratteristiche stilistiche si riscontrano anche nelle opere teatrali, su tutte Il cappello di paglia di Firenze (1955), quindi Scuola di guida (1959) e Napoli milionaria (1978). Scrisse anche musica sinfonica, da camera e religiosa (Mysterium, 1962, e La vita di Maria, 1970).
Franco Mannino (Palermo 1924) fu celebrato pianista e direttore d’orchestra, compose musica per registi importanti, quali Huston, Moguy, Soldati, Visconti etc. Si è dedicato particolarmente al teatro, in una prospettiva stilista molto aperta a sollecitazioni varie, provenienti dal soggetto drammaturgico, si ricordano Mario e il mago (1952), Vivi (1955), Il ritratto di Dorian Gray (1973), la Liederopera Le notti bianche (1987) etc. Inoltre, il musical Da Colombo a Broadway (1992). Mannino è stato allievo di Silvestri e Mortari al Conservatorio di Roma e in gioventù ha esercitato l’attività di strumentista, poi, dal 1952, soprattutto la direzione d’orchestra.[1] Il suo stile eclettico e il gusto composito se lo hanno penalizzato nella ricerca e nella musica pura, lo hanno aiutato nella musica applicata; legato alla tradizione, si esprime con fantasia ed estro e col dovuto equilibrio. Possiede l’indispensabile qualità di orchestratore che, anche secondo Giorgio Gaslini, è uno dei requisiti fondamentali per affrontare il cinema. Scrive Mannino: «Penso che la bella musica possa stare dappertutto, senza patirne. E che, nella maggior parte dei casi, un film perderebbe almeno la metà del suo impatto, senza una colonna sonora: può succedere che molti momenti importanti della nostra vita siano legati ad un motivo, a una melodia, e che la nostra mente, nel riviverli, a certe immagini associ dei suoni, un accompagnamento, una colonna sonora. In fondo, un film è una sequenza di momenti importanti, inseparabili, per lo più, dalla musica che li sottolinea. I due elementi, visivo e sonoro, si adattano l’uno all’altro in modo del tutto naturale».[2] Franco Mannino ha composto musiche per i film per oltre cinquant’anni e, anche grazie ai registi che ha incontrato, l’ha fatto con grande passione.
Ennio Morricone (Roma 1928), allievo di Petrassi e suonatore di tromba nelle orchestre da ballo (Ennio è figlio di Mario, trombettista e con lui suonò nel complesso di Flamini), questa esperienza gli sarà utile per una visione elastica e funzionale del fatto sonoro, è autore di celeberrime colonne sonore per i film di Leone e per altri importanti registi, quali Bertolucci, Belloccio, Pontecorvo, Pasolini, Montaldo, Bolognini, Petri, Argento, Tornatore, i fratelli Taviani e altri. È però autore anche di musica strumentale autonoma, all’inizio vicino a un libero neoclassicismo, influenzato da Casella e Hindemith (Sestetto, 1955) e quindi da Petrassi, con il quale Morricone studiò. Si avvicinò al serialismo (Musica per 11 violini, 1958), dallo stile eclettico e lirico e, spesso, dal carattere ironico. Nel 1965, aderì al Gruppo di improvvisazione Nuova Consonanza e adottò procedimenti aleatori (nel 1958 aveva seguito il seminario di Cage a Darmstadt). Derivato dalla prassi degli arrangiamenti per il teatro, radio e televisione è il brano Esercizi per 10 archi, da La Traviata. Negli anni Ottanta, Morricone si accosta alla musica elettronica (Gestazione, 1980, e Ombra di lontana presenza, 1998); fra le altre composizioni si citano il Secondo Concerto (1985) e Ut (1991); al 1997 risale la sua prima opera teatrale Epitaffi sparsi.
Musica colta e musica cinematografica convivono, il gran veterano della composizione italiana del Novecento, Morricone dice di se stesso: «Ho avuto una doppia formazione, in conservatorio e nelle sale da ballo [ …] Ho imparato da autodidatta le tecniche di arrangiamento e ho imparato anche a comporre musiche che avessero un buon effetto teatrale […] Ho cercato di riscattare la materia bassa della canzone cercando di farla diventare qualcosa di diverso, inserendovi, per esempio, citazioni di pezzi classici o abbozzi di serie dodecafoniche. […] La creatività della musica cinematografica deve essere, paradossalmente, priva di un orientamento stilistico proprio e univoco; un musicista che voglia fare buona musica per film non deve specializzarsi solo in musica classica o sinfonica, vecchia o nuova, non deve essere solo un musicista pop, o un jazzista o un rocchettaro: deve specializzarsi in tutto e deve anche sapere maneggiare bene le contaminazioni fra generi musicali diversi».[3] Ecco dunque il primo segreto, quello di una sorta di anti-metodologia, per affidarsi a una cultura musicale ampia e agile, pronta ad affrontare, senza barriere mentali, ogni situazione, con gran duttilità e in maniera camaleontica, cosa più facile a dire che a fare, considerando come la stragrande maggioranza dei musicisti sia chiusa nel loro genere e sappiano padroneggiare con sicurezza un solo stile musicale. C’è però un altro segreto che rende le colonne sonore di Morricone estremamente aderenti al clima espressivo del film, vale a dire il rapporto stretto che il compositore ricerca col regista. «Il rapporto col regista» - dice Morricone - «Lo considero più importante della stessa lettura della sceneggiatura, perché, a seconda del regista che la realizza, una stessa sceneggiatura può acquistare significati molto diversi […] Purtroppo capita spesso che il rapporto col regista, anche con registi di talento, si giochi in maniera predominante su fatti tematici. […] Mentre su sonorità, ritmi, armonie è molto più difficile intendersi. A un regista faccio sentire molti temi, ma non sempre scelgono i migliori, per cui, da un po' di tempo, mi sono abituato a selezionarli in precedenza». Per esempio, il grande successo, e l’obiettiva aderenza della musica ai film di Sergio Leone, nasce da una reale collaborazione. Come il teatro, il melodramma e il balletto, il cinema è un’arte collettiva, per cui, se non vogliamo avere uno sguardo settoriale, le varie componenti - regia, dialoghi, recitazione, scenografia, musica etc. - devono fondersi con naturalezza e per questo è necessario una stretta cooperazione, sia a livello di intenti sia a livello di procedure, fra tutti coloro che lavorano alla realizzazione dello spettacolo, questo aspetto è colto bene da Morricone che, come metodo di lavoro, si avvicina più a quello delle jam session jazzistiche che a quello della concertazione della musica classica, pensiamo, per esempio, alla colonna sonora di C’era una volta in America in cui la musica leggera della tradizione americana viene riletta in chiave moderna, con effetti di forte incidenza drammatica.
L’eclettismo di Morricone non proviene da una scelta, ma è legato a esigenze biografiche, da qui la sua efficacia e naturalezza. Ha iniziato a scrivere negli anni Cinquanta e nel decennio successivo Morricone ha fatto parte, come trombettista, del Gruppo di improvvisazione dell'Associazione Nuova Consonanza di Roma, un Gruppo fra i più avanzati nel campo della musica d'avanguardia dell’epoca. Il rapporto fra musica classica contemporanea e musica da film è stato vissuto in maniera schizofrenica da Morricone che, pur ottenendo molti successi con le sue colonne sonore, si sentiva al margine dell'ambiente colto, avendo per compositori come Berio, Nono, Donatoni una sorta di complesso di inferiorità. Lo stesso Maestro riconosce il suo modo dissociato di comporre: «Fino a qualche anno fa le mie esperienze di musica da concerto erano per me completamente separate dalle altre: due mondi non comunicanti, due dimensioni non commensurabili. C’è stato un periodo in cui ho quasi completamente tralasciato di scrivere musica per concerti. Componevo solo per il cinema. Quando mi rimettevo a scrivere musica da concerto avevo bisogno ogni volta di prendermi un buon periodo di tempo per disintossicarmi dalla pratica della musica da film. A poco a poco però mi sono accorto che questi periodi di distacco e di separazione mi occorrevano sempre meno. Adesso posso scrivere un pezzo senza bisogno di alcun distacco». Infatti, i recenti brani, come la Cantata per l'Europa oppure Ombra di lontana presenza, mettono in pratica, anche per la musica da concerto, quella pluralità linguistica, quella disponibilità ad affrontare stilemi differenti che Morricone ha utilizzato, fin dagli esordi, nella musica da film. Finalmente facendo coesiste, nella sua attività complessiva, in toto, varie lingue e diverse forme, svariati stili e differenti espressioni, in una sintesi musicale che non tralascia il rapporto umano e che anzi ne fa il perno, nel cinema, nella musica, così come nella vita di ogni vera esperienza.[4]
Nicola Piovani (Roma 1946), pianista e direttore d’orchestra, è fra gli autori di musica per il cinema quello più noto, ha composto oltre 100 colonne sonore per i registi Fellini (La voce della luna, 1990), i fratelli Taviani (La notte di san Lorenzo, 1982), Moretti (La messa è finita, 1985), Monicelli (Speriamo che sia femmina, 1986), Bertolucci, Benigni (con La vita è bella vince il Premio Oscar) e altri, ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Alla fine degli anni Ottanta ha inizio il sodalizio con lo scrittore Vincenzo Cerami e, insieme all’attore Lello Arena, fondano la Compagnia della Luna, nascono La cantata del Fiore (1988) e La cantata del Buffo (1990) due opere che poi vengono unite; quindi è la volta de Il signor Novecento (1992) e di Canti di scena (1993), seguono di Romanzo musicale (1998) e lo Stabat Mater La Pietà (entrambi del 1998); la sua ultima opera s’intitola Viaggi di Ulisse (2011). Ha scritto musica anche musica pura (fra l’altro Epta, 2007). Fra le ultime colonne sonore: La trattativa di Sabrina Guzzanti e Hungry Hearts di Saverio Costanzo.
 
Le ragioni della musica per il cinema si fanno sempre più forti nei confronti di quella cosiddetta pura; passato il furor sperimentale e l’attrazione verso un costruttivismo astratto e auto-sufficiente, le qualità dinamiche ed elastiche della musica da film, aperte a sollecitazioni diverse ed eclettiche per natura si trovano in sintonia con i presupposti estetici e poetici del Postmoderno. La polemica dei musicisti puristi pare oramai svuotata di ogni presupposto, una diatriba che ricalcava quella storica fra la composita musica teatrale e quella uniforme della musica strumentale. Non sono solo alcune colonne sonore straordinarie ha giocare in favore della valorizzazione della musica cinematografica ma sono le stesse coordinate culturali ad accettarla a pieno diritto nell’olimpo dove, fino a qualche tempo fa, soggiornava solo la musica accademica.


[1] Anche direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli e dell’Orchestra di Ottawa, Mannino ha composto anche molta musica orchestrale e da camera, ma la sua produzione maggiore riguarda le opere per il teatro e la musica da film, realizzata con eleganza e con rispetto.
[2] Cfr. Renzo Cresti, Ennio Morricone, in rivista «La linea dell’occhio», Lucca 2001.
[3] Ennio Morricone, Enciclopedia della musica del Novecento, Einaudi, Torino 2001, come anche le citazioni successive
[4] Renzo Cresti, Il “segreto” di Morricone , in rivista «La Linea dell’occhio», Lucca 2001.

 




Renzo Cresti - sito ufficiale