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Fase terza: Branchi, Maggi, Stuppner, Cecchi, Persano, Daniele Lombardi, Lanieri, Luca Lombardi, Bosco, Samorì, Bianchera, Sinopoli, Cecconi, Giuliano, Molino, Centazzo, Sbordoni, Gorli, Cilio
Fase terza e contemporanea

Troppo velocemente sono passati questi ultimi decenni e troppe cose sono accadute perché la generazione dei maestri degli anni Venti-Trenta del secolo scorso sia ancora pienamente attuale. Ascoltare oggi e riflettere sulle musiche di questi compositori è un’operazione di storicizzazione. Analizzando la generazione che nasce fra la fine degli anni Tenta e l’inizio dei Cinquanta, ci si accorge di una circolazione di idee e fatti talmente forte da scardinare il concetto classico di unitarietà dell’opera. La musicologia accademica continua a vedere l’operare artistico come qualcosa di personale e l’opera come il prodotto personalizzato di quell’agire individuale, ma questa visuale Romantik non solo disconosce l’intreccio che si produce nella mente del compositore e le trame implicite espresse nella sua produzione, ma è del tutto fuori dalle coordinate culturali di questi anni che privilegiano la circolazione come soggetto del fare e la velocità con cui riesce a posizionarsi negli incroci principali del pensiero e del fare odierno.[1]

Nella terza generazione si riscontano accavallamenti di percorsi e di orizzonti e, al di là dei personaggi, è proprio su questa tela che si deve concentrare l’interesse, nell’insieme dei fatti socio-culturali che poi, ovviamente, vengono declinati in musica in mille modi dai tanti compositori, ognuno dei quali si fa portatore di una micro visuale del mondo, tanti piccoli tasselli che messi insieme ci forniscono – finalmente – la cartografia della contemporaneità.

La terza generazione trova i suoi personaggi impegnati in tendenze stilistiche differenziate, fra energico costruttivismo pregno di tensioni psichiche (come quello di Giampaolo Coral)[2] e attenzioni al mito e al rito realizzato in pagine grafico-gestuali (come quelle di Mario Cesa), fra gestualità bruciante nel regno della complessità (Fernando Mencherini) e golosità timbriche (Ada Gentile), fra costruttivismo piegato sempre più a brucianti esigenze espressive (Dario Maggi, Hubert Stuppner) e attenzioni al sociale (Armando Gentilucci, Luca Lombardi), fra ricerca strumentale collegata al disegno sonoro (Claudio Ambrosini, Alessandro Sbordoni) e sottili procedimenti di scomposizione e ricomposizione dell’oggetto sonoro (Rocco Abate[3], Aurelio Samorì), tutto questo (e molto altro ancora) va a costituire un gigantesco intreccio che generalmente si definisce come “musica contemporanea”[4].

Più che i tanti nomi sono da tener presente le tante strade che creano una fitta rete di tendenze formali, stilistiche, poetiche, e(ste)tiche, a volte parallele altre divergenti, spesso interdipendenti raramente scollegate fra loro (anche se i compositori non sempre ne sono consapevoli perché poco informati su quello che fanno i colleghi). L’immagine che dobbiamo avere di questa situazione è quella di una cartina stradale attorno a una metropoli, moltissime strade (stilistiche) e in tutte le direzioni (culturali). La quantità dei percorsi rende assai laborioso l’orientamento e il navigatore spesso non aiuta perché è pieno di tante informazioni che difficilmente si riesce a discernere (solo chi vive in questa grande rete può orientarsi con una relativa facilità).

Come dice Alex Ross «Non si può sperare di fornire un resoconto ordinato degli sviluppi della composizione nella seconda fin de siècle. Stili di ogni genere – minimalismo, postminimalismo, musica elettronica, laptop, internet music, nuova complessità, spettralismo, apocalittici collage e meditazioni mistiche dell’Europa orientale e della Russia, appropriazioni del rock, del pop, dell’hip-hop, nuovi esperimenti di musica folkloristica in America latina, Estremo oriente, Africa e Medio oriente – lottano senza che nessuno di essi riesca a conquistare la supremazia».[5] Questi molteplici percorsi tendono a sfuggire alla nostra comprensione, come la materia oscura, non conosciamo bene come sono fatti perché non li abbiamo vissuti, solo la strada che stiamo percorrendo ci è nota, le altre le vediamo da lontano e alcune ci rimangono del tutte oscure. Ross è tentano da una conclusione pessimistica ossia di vedere la traiettoria complessiva della musica del novecento come un «netto declino» poiché «i compositori classici contemporanei sono sostanzialmente spariti dallo schermo radar della cultura mainstream».

La legittimazione sociale di questa nutrita schiera di compositori è assai difficile, poiché essa appartiene al lato in ombra della musica che viene generalmente diffusa e ascoltata, quella del repertorio classico, certamente la figura di Salvatore Sciarrino è stata ed è una delle personalità che più ha influito sui giovani compositori, oltre che ad aver ottenuto una avvallo critico internazionale. Anche Fabio Vacchi, soprattutto con la sua produzione teatrale, ha giustamente ottenuto un successo che, nella nicchia della musica contemporanea, è davvero raro. Riconoscimenti prestigiosi hanno ottenuto pure Giorgio Battistelli, Luca Francesconi, Ivan Fedele.

È difficile, inoltre, staccare i curricula dal valore intrinseco delle opere, siamo portati a creare una relazione diretta fra presenza dei musicisti nei vari luoghi importanti del mondo musicale (teatri, festival, riviste specializzate etc.) e la qualità delle loro produzioni, non sempre la carriera corrisponde alle doti specifiche, come avviene un po’ in tutti i settori. Occorrerebbe staccare la mondanità dall’opera, che non si riferisce solo alla vita musicale di società ma pure agli aspetti psicologici e passionali dei vari attori (compositori, interpreti, musicologi etc.), è però impossibile togliere l’intreccio troppo umano che lega l’opera alla mondanità senza un filtro storico, senza quel diaframma che permette di avere un ascolto/sguardo meno condizionato dalla contingenza e più equanime. Per questo conviene sospendere i giudizi di valore sui musicisti viventi, limitandosi a registrare i dati di fatto, mettendo però in chiaro il nostro punto di vista ossia l’angolatura culturale dalla quale tali dati vengono filtrati, decantati ed esposti, ch’è poi scelta critica che si apre a una dialettica con altre valutazioni e opinioni motivate.

La composizione è stata fino agli anni del secondo dopoguerra un’attività sostanzialmente maschile, assestata secondo i canoni della ratio speculativa, per questo e per le ovvie ragioni sociali la composizione al femminile ha tardato a manifestarsi, il comporre, come per tante altre cose, è stata una conquista; è solo dagli anni settanta in avanti che si riscontra una notevole presenza sia per quantità sia per qualità delle donne compositrice. Fra le tante occorre almeno citare, oltre a quelle già menzionate, Elisabetta Brusa, Chiara Benati, Paola Ciarlantini, Cristina Landuzzi, Roberta Silvestrini, Carla Magnan, Barbara Rettagliati, Simona Simonini, Gabriella Zen, Francesca Terreni…[6] La presenza delle donne in musica è confermata anche da compositrici che provengono da paesi di tutto il mondo, come l’americana Pauline Oliveros, la russa Sofija Gubajdulina, la finlandese Kauja Saariaho, la cinese Chen Yi, la sudcoreana Unsuk Chin, l’azerbaijana Franghiz Ali-Zadeh e molte altre, dalla scrittura interessante in quanto, in maniera meno ideologica dei loro colleghi maschi e con un atteggiamento più naturale, le compositrici riescono a proporre brani in sintonia con le dinamiche del nostro tempo, posizionandosi in spazi liberi.

Walter Branchi (Roma 1941), dal 1964 al 1975 fece parte del Gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza, fondò a Roma lo Studio R7 per la musica elettronica e il Laboratorio elettronico del Conservatorio di Pesaro, inoltre, insieme a Guido Baggiani, l’Associazione Musica Verticale. Fondamentale è la messa a punto del concetto e della prassi di ‘struttura sonora’ che Branchi spiega così: «L’esigenza primaria è quella di sostituire al concetto di composizione musicale, come insieme di elementi eterogenei, quello più appropriato di struttura sonora. In questa tutte le grandezze caratterizzanti dovranno derivare dall’ordine e dalla composizione della struttura stessa. Una struttura sonora è un insieme di trasformazioni basato su delle leggi di composizione le quali, avendo la duplice proprietà di essere strutturanti e strutturate, regolano le trasformazioni, come articolazioni delle relazioni in e tra le grandezze degli elementi e, simultaneamente, il contenimento di tali trasformazioni nell’ambito della struttura. Quanto detto potrebbe indurre a trovare una qualche analogia con il serialismo integrale ma la differenza è sostanziale. Nella tecnica seriale il compositore stabilisce soltanto delle relazioni per ogni macroelemento o sistema parziale in funzione della legge della serie: un principio unificatore per diversi sistemi parziali, ma che non tiene conto delle mutue implicazioni tra questi. Al contrario, nella struttura sonora sono proprio le implicazioni tra tutti gli elementi a a un livello più profondo che ne stabiliscono la natura. Ma il fatto determinante, in questo modo di procedere, è che il compositore, nel momento in cui stabilisce, secondo proprie esigenze espressive, l’ordine e la composizione della struttura, automaticamente definisce il primo livello di articolazione».[1]
Dario Maggi (Milano 1944) la sua ricerca viene chiamata dallo stesso maestro ‘realtà torbida’, si tratta di uno scavo introspettivo affrontato attraverso una lucidità intellettuale che si esplica nella elaborazione di forme rigorose. La sua produzione non è stilisticamente sempre uguale, a volte si avvicina a scritture astratte, altre volte si sbilancia verso una più morbida e diretta espressività, legata agli aspetti psico-percettivi: da Irrlicht (1979) a Le pieghe nascoste delle idee (1980), dal ciclo orchestrale Progetto Trakl (1987-94) a Kette (1995).
Hubert Stuppner (Bolzano 1944), già direttore del Conservatorio della sua città, guardò a Vienna sia come città di Freud sia come sede dell’Espressionismo, musicista dotto, basa il suo linguaggio su archetipi sonori, strumentali, gestuali. Si avvicinò a una sorta di neoclassicismo ma allusivo e spesso grottesco; si notano le influenze di Stravinskij, ma anche di Ligeti e di un certo teatro sperimentale, come in Café Eros (1986). Ha composto due Concerti per pianoforte e orchestra (1983-1986), l’oratorio Passion (1987), Salome-Tanz (1988), Folk-songs e Folkdances (1994).
Gabriella Cecchi (Riccò del Golfo 1944), all’inizio del suo percorso artistico ha utilizzato l’automatismo combinatorio, ma era una maschera per coprire, in un eccesso di pudore, la propria ribollente interiorità; l’influenza del metodo compositivo, basato su un’incessante trasformazione di cellule generatrici, s’è fatta sentire fino alla metà degli anni Ottanta; la metodologia si basa sull’assunzione di un codice numerico o alfabetico che andava a costituire un modello con funzione generatrice e/o ordinatrice della struttura musicale, questo avviene in Etsar, Eco, Levia, Entrebois (tutti del 1983)  e in Assonanze (1984). Con Minis (1987) inizia una pratica che vede partire la composizione nuova da elementi di pezzi precedenti (in questo caso si riprende le ultime note di un lavoro del 1980, Solo). Nelle partiture (anche grafiche, come Parvula del 1990) successive si assiste a una sorta di liberazione dalla scrittura rigorosa e meccanicistica, per affinare la sensibilità timbrica e perfino la voglia di cantare; l’autrice si concentra su un’idea sonora, preesistente nella memoria inconscia e la segue in maniera naturale, senza forzature, ha capito che c’è un istinto, prevalentemente femminile, il quale dice che la scrittura, per potersi svolgere, non deve essere forzata da azioni esterne, ma necessita di una lunga meditazione, una specie di incubazione e decantazione, che ne favorisca il lievitare, il procedere e l’accrescersi, relazionandosi alla cultura della collettività (la Cecchi è molto attenta anche alla didattica): dal silenzio interiore dovrebbe nascere la scrittura, non come idea o progetto. Tutti i brani dalla fine degli anni Novanta in avanti aprono la scrittura all’immaginifico, allo scavo interiore e all’avvicinamento ad alcune forme di spiritualità arcaica. Da citare anche esperienze para-teatrali quali l’atto unico Il Gallo rosso (su testo di Renzo Cresti, 1992), Grig-Bian-Ner (1994) musiche di scena per il balletto omonimo.[2]
Oronzo Persano (Lecce 1944), compositore luminoso di musica per chitarra, molto attaccato alle tradizioni della sua terra da cui spesso prende ispirazioni naturalistiche e simboliche.
Fernando Grillo (Foggia 1945-Perugia 2013) grande e particolare virtuoso di contrabbasso, ha scritto diversi lavori per il suo strumento e per orchestra da camera, inoltre, il lavoro teatrale Dualitas feminitas (1981). La sua attenzione si concentrò soprattutto sulle possibilità timbriche dei vari strumenti, come in Oeuvre I-VI, per contrabbasso e orchestra (1975-80).
Daniele Lombardi (Firenze 1946), vicino a Chiari è questo originale pianista/compositore, legato a una sorta di metateatro musicale, con ricerche sulla notazione e sugli aspetti visivi; a realizzato la prima esecuzione moderna della musica per pianoforte dei Futuristi,m delle sonate di Antheil e dei proto-dodecafonici russi; è attratto da mega concerti/spettacolo nei quali molti pianoforti occupano uno spazio aperto e sono in relazione fra loro, come nella Grande sonata per 12 pianoforti (1984) e in Sinfonia per 21 pianoforti (1987); lo stile della performance si riscontra anche nell’opera multimediale Amor d’un’ombra e gelosia d’un’aura (1988); suoni e gesti convivono in esperienze interdisciplinari, in una dimensione di spettacolarità in un consumo d’ascolto che vive nella quotidianità.
Roberto Lanieri (Vicenza 1945) studioso del canto armonico, una ‘scoperta’ avvenuta nel 1972, quando stava studiando le tradizioni musicali extra-europee; l’anno seguente fonda il gruppo vocale Prima Materia, in attività fino al 1980, poi realizzerà recital da solo. Alcuni brani basati sul canto armonico sono stati definiti ‘né improvvisazioni né composizioni’, la partitura viene sostituita da una base preregistrata di grande complessità nella quale l’interprete è previsto che si perda (Two Views of Amazon, GYA GYA GYA, Music in Form of Flying Carpet).  Dichiara Lanieri: «Il problema della tradizione europea è che la ricchezza di idee è diventata intellettualismo. […] La musica dell’India del nord è la controparte modale dell’armonia europea. […] C’è poi il jazz, ma i jazzisti contemporanei non hanno né il carisma né l’originalità dei classici. […] Una caratteristica costante in ciò che scrivo è lo stato di fluttuazione delle coordinate geografico-temporali, come accade nei sogni, ad esempio, un mio pezzo (Song of Middle Space n. 2) può comunciare come una virelai di Machaut, trasformarsi in una ballata di Landini e finire come qualcosa fra Hindemih e Steve Lacy. Altri pezzi sembrano avere né principio né fine, come finestre che si aprono per un periodo determinato su un universo alla Escher. La composizione del tempo è comunque ciclica, polindromica (Memories of the Rain-Forest). […] Tecniche compositive di tipo minimale: ripetizione, micro variazioni, phasing, permutazioni cicliche, poliritmi, e attraverso di esse il recupero di tecniche di provenienza medievale, canoni di tutti i tipi, isoritmi, hoqueti, talea e color».[3]
Luca Lombardi (Roma 1945), gli esordi avvennero sotto l’ala dei maestri attivi a Colonia, ma fu determinante il suo incontro, nel 1973, a Berlino con Dessau, a lui s’ispirò la poetica di Lombardi durante gli anni Settanta, basata su una musica che abbia ‘efficacia sociale’, per ottenere questo Lombardi semplificò le nozioni che aveva appreso da Zimmermann, da Stockhausen e da Pousseur, fino a un uso quasi didattico degli idiomi della Nuova Musica (Non requiescant; 1973). Dagli anni Ottanta in avanti, il rapporto musica/società non venne più inteso come rispecchiamento, ma in maniera più sfaccettata, contemplando anche l’inserimento della soggettività, espresso in maniera più stratificata, come nell’opera teatrale Faust, un travestimento (1990), nella terza Sinfonia (1993) e in Yedid Nefesh (1996) su testi ebraici. Lombardi si dimostra oggi attento a mettere in relazione dialettica stilemi differenti, le tecniche compositive sono relativizzate, con attenzione particolare agli agglomerati accordali che si inseriscono su un tessuto sonoro teso e compatto. L’opera di Lombardi è-nel-mondo, geograficamente, è situata, ha carattere intramondano. Il sostituire la storia con la geografia significa privilegiare l’esserci, quale presenza concretamente vitale, rispetto all’ontologia e alla prospettiva oltre-mondana. È così che anche la storia si fa topologia e la topologia è un fatto, è forma naturale. In tale prospettiva una funzione importante viene esplicata dal ripensare la storia (delle musiche, al plurale), il che non significa un furbesco riappropriarsi degli stilemi del passato, ma acquisire la consapevolezza che il concetto di ‘contemporaneità’ non può essere meramente numerico, ma nel tempo dell’arte si presentano cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali e accadibili, in una contemporaneità di tutti i tempi che ci narra dell’avventura dell’uomo.[4]
Gilberto Bosco (Torino 1946) l’esordio avvenne su posizioni vicine allo stile post-weberniano, appreso dalla frequentazione dei Corsi di Darmstadt (da …c’est la clarté vibrante del 1973 ad Again del1977), anni in cui il giovane maestro esplorò quanto era stato fatto nei decenni precedenti; queste esplorazioni sono condotte con indifferenza circa i metodi ma con grande curiosità, invece, per gli esiti sonori; nel lavori degli anni Settanta, le tecniche usate sono derivate dalla serialità ma vi si ritrova sempre una cantabilità delicata, volta a un’espressività contenuta, dolce e sognante, che non disdegna scatti e momenti virili (Cracking, 1974). Con i brani di fine anni Settanta, quali Espressivo e Serenata (entrambi del 1978) e l’ampia sinfonia in tre movimenti Pastorale (1979) Bosco iniziò a spostarsi verso un’espressività che prevedeva un maggiore coinvolgimento emotivo; sempre più interessato alla ricerca di nuovi esiti timbrici e di un sound che non rifugge dal piacevole, le sue opere raccontano i viaggi della memoria, ma più che l’andare del viaggio è messo in luce il ritorno, poiché l’oggetto/immagine viene decantato e arricchito dal ripensarlo, come dimostrano pezzi quali Notturno, Serenata seconda (entrambi del 1980), Melisma, Berceuse (entrambi del 1981), Melodia (1982), Intermezzo (1983) e Improvviso (1983, primo di una serie). Bosco fu fra i primi a rivendicare, con eleganza, i diritti di una nuova soggettività, intesa come custode di una memoria essenziale alla vita nonché all’arte, così frammenti del passato riemergono in un disteso orizzonte espressivo spesso rarefatto. Vicino a un certo neo-crepuscolarismo, non cede mai alla retorica del semplice sia per la bravura tecnica sia per il controllo con cui riesce a dosare gli elementi emozionali e retorici. Particolare attenzione venne posta nel rapporto fra musica e testo (da Cantata del 1984 a Sogni di sogni del 1994). Fra gli altri lavori, tutti di grande eleganza sonora, sono da ricordare Intermezzo per 8 fiati, Tempo di Quartetto e Allelujah, dove il ritorno al passato costituisce il fertile humus per la memoria, una sorta di coscienza storica oramai divenuta del tutto soggettiva, priva di ogni ideologia (compresa quella dello storicismo) e decantata attraverso la riappropriazione ch’è arricchimento.
Aurelio Samorì (1946) è un romagnolo allievo di Donatoni, costruttivista ma fidenti e domestici sono i suoi tratti espressivi, come la sua terra. La  sua musica è un susseguirsi di eventi sonori sottoposti a un processo di continua trasformazione che genera nuovi organismi attraverso processi di stratificazioni e di giustapposizioni che si relazionano per affinità.
Silvia Bianchera (Roma 1946), dalle prime composizioni di stampo bettinelliano si passa, dagli anni Novanta in avanti, a una cifra stilistica più asciutta, scarna, essenziale. Si assiste a una dialettica fra forma mentis classica e rigorosa e un enthusiasmus di matrice neo-espressionista: è proprio il rispetto per la disciplina artistica, per la precisione del costrutto ha rendere più vibranti gli squarci evocativi e i momenti poetici, come nelle Due liriche di Alceo e in Una novella (entrambe del 1993), dove l’autrice s’immedesima nel suono che si dipana in una continuità discorsiva, semanticamente significante, anche grazie alla teatralità insita nel gesto strumentale, come nel brano Adal (1994); il divisionismo della scrittura della Bianchera è di tipo narrativo, riprende da Webern la grande attenzione al suono, alla dinamica e al timbro, ma si avvicina di più a Berg per quanto concerne l’insieme; non vi è divisionismo, i punti/suoni non vanno intesi come separati, quali monadi lucenti, ma come piccoli elementi che costruiscono il senso plastico del fraseggio e l’insieme della forma (un pointillisme alla Serat). Le Tre liriche per soprano e pianoforte su testi medievali, del 2006, sono una sorta di lavoro esplicativo dello stile degli ultimi lavori. Le ragioni della Bianchera riguardano le proporzioni interne al costrutto, mentre i sentimenti sono quella parte del suono che considera di dar piacere all’ascolto.  
Giuseppe Sinopoli (Venezia 1946-Berlino 2001) è noto soprattutto come direttore d’orchestra,[5] come compositore ha frequentato Darmstadt ed è stato poi influenzato da Franco Donatoni; progressivamente ha abbandonato il rigore strutturale per aprirsi a suggestioni della musica di Debussy e Berg. Importante è l’opera Lou Salomé (1981), in cui il maestro ritrova il piacere di una discorsività drammaturgico-musicale di ascendenza para espressionistica, con momenti melodici inquieti e parti orchestrali e armoniche che tentano una discesa nell’intimità nevrotica di Lou Andreas Salomé.
Rinaldo Raffaele Cecconi (Busalla 1947) scrive: «La mia scrittura muove da materiali musicali votati a un’immediata riconoscibilità, estranei sia dal disegno fine a se stesso sia dall’inserimento in formule compositive cui l’orecchio non porge adeguata verifica. Alle risorse degli strumenti sono richieste estremi profitti: Espansività e virtuosismo solistici, contrappuntisti, polifonicità, enfatismi magmatici e trasparenze inafferrabili, echi simbolici e sospensioni emotive».[6] Cecconi partì da posizioni sperimentali poi normalizzate da una severa disciplina artigianale, che equilibra ricerca e tradizione. Il suo percorso artistico prende corpo nel 1979, quando Cecconi vinse il Premio Bucchi; nascono poi brani di rilievo, una serie di pezzi solistici, per contrabbasso  (Pentaculum, 1980), chitarra (Esperpentos, 1981), arpa (Impromtu, 1981) per pianoforte (Mademoiselle de Bret Cloches e Da lontano, entrambi del 1992), nel mezzo il bel lavoro L’amore delle 12 lune (1986), sono partiture lontane dagli eccessi sperimentali ma si concentrano sulla tensione espressiva. Anche i brani seguenti tendono all’essenzialità che si lega a modelli classicheggianti.
Adriano Guarnieri (Sustinente 1947) gli esordi avvengono sulla strada del neo-strutturalismo che via via si dissolve, etimologicamente ossia diventa centrale il concetto di dissolvenza timbrica. La svolta avviene attorno al 1975, quando l’attenzione si sposta sul colore totale, giocato fra agglomerazione timbrica e dissolvenza globale: «Tutto viene raggruppato intorno a intervalli minimali, sino a esplosioni improvvise su ambiti brevi e limitati (un’anti-puntillismo), ciò contribuisce all’offuscamento degli altri parametri dentro il quale è mia prerogativa far gustare reinvenzioni di piccole fugure su intervalli fissi, raggirate da da una situazione polverosa e armonica».[7]
Giuseppe Giuliano (Roma 1947), la sua poetica si rivolge alla ricerca di nuove concezioni musicali, con esperienze di lavoro nella musica strumentale (G’s remix, 2008), computer music (A Way, 2000) e su nastro (L’aurora… le dieci notti… pari e dispari, 1999), live elettronics, (Infiniti paralleli, 1995), interazioni artistiche (Eytos-Eyres, prima e seconda versione entrambe del 2007), sonorizzazioni ambientali (Automaton, 2000), multimedia (Chaos 13, 2013). In possesso di una scrittura chiara, Giuliano dimostra una notevole maestria nel contrappunto, attuando una stretta polifonia ricca di tensioni interne, come nel brano violinistico Ghimel (1980), partitura scritta su quattro pentagrammi, dove l’abile sfruttamento strumentale segue una pregnante disposizione polifonica. In Adieu mes amours, un continuum mobile risulta all’ascolto uniforme e massiccio, dal quale emergono note acute tenute che bucano la densa polifonia, una pausa, verso la metà del brano, blocca il lento scorrere del tempo psicologico, l’attimo di silenzio risulta un estraniamento rispetto al lungo andamento ipnotico dell’accavallarsi delle linee (è il tempo della vita che scorre inesorabile, quasi senza che ce ne accorgiamo, e porta via gli amori: ultimi squilli di tromba ci avvertono che il nostro tempo è finito, adieu!) In Mirando profondissime solitudini troviamo, finalmente, una nuova e interessante utilizzazione del registro acuto del pianoforte; a molti altri compositori dovrebbero essere proibite queste note acute, visto che troppo spesso suonano stucchevolmente natalizie o sfuggentemente impressionistiche; Giuliano usa la parte acuta del pianoforte alternandola, in rapida successione o accavallamento, con il registro mediano, in un intersecarsi di salti intervallari che producono un ricca polifonia, dove linea e timbro diventano tutt’uno. La stessa energia interna esplode in Preludio (1982), pezzo che realizza una drammaturgia sonora, il flautista deve ricorrere a molteplici effetti strumentali, sempre giustificati non dal descrittivismo coloristico ma dalle esigenze compositive che, in Ola sans pluc, intersecano la sonorità degli otto fiati in una polifonia dalle maglie strettissime e dal fascino severo (è questo il brano più vicino allo stile del suo maestro Clementi).
Pippo Molino (Milano 1947)[8] nel 1980 ha scritto Il canto ritrovato una partitura chiave per capire la produzione del maestro milanese, infatti, da questo brano in avanti, con molte differenziazioni di utilizzazione tecnica, utilizza, come base di partenza per la scrittura, un canto da lui precedentemente composto che poi viene trasferito nel tessuto compositivo attraverso tecniche più o meno strutturalistiche, però sempre rispettose nei confronti dell’immediatezza d’invenzione. La dialettica fra l’intervallistica dello Strutturalismo e una forma e una ritmica assai precise e chiarificatrici costituisce il modus operandi di Molino, il quale inizia a lavorare partendo da una linea melodica da lui stesso pre-composta, poi trasferita nella composizione con tecniche di varia natura, sempre attente alla trasparenza. Il rapporto fra invenzione e struttura costituisce quindi il filo rosso dell’esperienza musicale di Molino, come l’atto unico teatrale La pretesa umana (1991) e in altri lavori da camera. Fra le sue composizioni recenti sono da segnalare il Concerto per flauto e archi (2002) e Che fai tu, luna in ciel? per voce recitante e orchestra (2003).[9]
Andrea Centazzo (Udine 1948) dimostra come le categorie di generi siano superate, iniziò come percussionista jazz ma presto si avvicinò ad altre tendenze, come la musica aleatoria (collaborando con Bussotti, Zorn e altri), quindi si dedicò anche alla composizione, fondando, nel 1980, la Mitteleuropa Orchestra. Dal 1984 iniziò a dedicarsi a esperienze multimediali, lavorando per il teatro, il cinema e scrivendo l’opera teatrale Tina (1996). Contemporaneamente dirige vari suoi ensemble e varie orchestre, soprattutto americane (dal 1992 al 1999 fu residente a Los Angeles, quindi a New York). Il suo stile compositivo ha vari richiami al (post) Minimalismo ma con alcuni tratti personali, come, per esempio, l’uso degli ostinati in funzione melodica.
Alessandro Sbordoni (Roma 1948) è stato direttore di Nuova Consonanza, facendo anche parte del Gruppo di improvvisazione; abbina il bisogno della costruzione a quello dell’estemporaneità improvvisativa, ossia fa convivere polarità tecniche che possono sembrare inconciliabili e che invece trovano la loro felice unione nella sua musica, che si richiama a una sottile trama di tensioni e di ammiccamenti, dove la piacevolezza del fare musica e il controllo strutturale si sposano con naturalezza. Si citano lavori caratterizzati da una felice sintesi fra rigore formale e senso inventivo e florida immaginazione timbrica: Le geste et le symbole (1981), Durch die Lieb’allein (1990), i ‘melodrammi immaginari’ Lighea (1988), Fabula (1994), Sehn-sucht (1995).
Alessandro Gorli (1948) ha fondato, nel 1976, il Divertimento Ensemble, molto attivo come direttore; come compositore fu allievo di Donatoni di cui subì l’influenza; è il concetto di materiale che interessa a Gorli, non in un abbandono alla materia (seppur ha adottato tecniche aleatorie) ma come punto d’inizio da modellare, seguendo strategie di messa in forma della materia stessa, di volta in volta rinnovate. In alcuni lavori si nota un’interessante ricerca timbrica, come nel quartetto Derivazioni (1970), in altri un andamento scintillante all’interno di forme aforistiche, in particolare nella musica pianistica. La produzione successiva, da Flottaison blême (1977) a On a delphic reed (1979) dimostra una conquistata autonomia dai procedimenti di Donatoni; in The silent stream (1982) l’orchestra si apre a squarci di espressività viennese. È approdato anche al teatro musicale con Solo (1985) e con Le mal de lune (1994).
Luciano Cilio (1950-1983) unì gli studi musicali a quelli di architettura e di scenografia; per la composizione fu autodidatta, collaborando con numerosi musicisti dell’area di ricerca e di avanguardia teatrale; dal 1973 al 1980 si dedicò a una rivisitazione della narrazione musicale su impianto atonale, attraverso uno studio dei rapporti fra melodia e timbro. La sua musica fu definita ‘metafisica’, forse per alcune atmosfere inafferrabili, dovuto a masse timbriche assai particolari.


[1] In Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, cit., vol. I, pag. 56. Fra le composizioni di Branchi si possono citare Musica, per qualunque numero e combinazione di faluti (1965), Synergy per corno due mimi e sei luci (1974), Samples per 4 gruppi strumentali (1975).
[2] Cfr. Renzo Cresti, L’interiorità come segreto da custodire e da svelare, in Linguaggi della musica contemporanea, Miano, Milano 1994, pag. 59, «Per risalire alla verità dell’io, nel caso di Gabriella Cecchi, occorre eccedere il linguaggio, o per meglio dire, ridurlo a un grado zero, come se non ci fosse, ovvero non bisogna concentrarci sulla forma e sulla tecnica, ma leggere fra le righe, entrare in quei piccoli anfratti che ci introducono nelle cavità profonde della coscienza. Soprattutto in anni recenti, la musica della Cecchi lascia aperti alcuni spiragli entro cui poter entrare, entrature ben nascoste e sorvegliate fino agli anni Ottanta poi, finalmente, dischiuse».
[3] In Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, vol. II, Pagano, Napoli 2000, pag. 185.
[5] Nel 1983 fu nominato direttore principale della New Philharmonia di Londra e del’Orchestra di santa Cecilia; dal 1990 è stato direttore musicale dell’Opera di Berlino e dal 1992 anche della Staatskapelle di Dresda, dirigendo contemporaneamente spesso a Bayreuth, in una continua ricerca dei nessi interni della musica, soprattutto di quella compresa fra Wagner e l’inizio del Novecento.
[6] In Enciclopedia Italiana dei Compositori Italiani, vol. I, pag. 83.
[7] In Verso il 2000, Edizioni Dick Peerson-Il Grandevetro, Napoli-Pisa 1990, pag. 59.
[8] Figlio del celeberrimo disegnatore e giornalista Walter, Pippo Molino ha sempre inteso la sua attività non come qualcosa di speculativo o per far carriera, ma la vive come urgenza interiore, per cui s’è messo al servizio della collettività come organizzatore e porge la sua produzione compositiva come testimonianza. In una città come Milano, dove si respira la presunzione di credersi al centro del mondo, è difficile imbattersi in musicisti ingenui, genuini e puri, nell’accezione del grande Niccolò Castiglioni (non a caso isolato dal Palazzo). Da ricordare anche l’attività di organizzatore, ha recentemente fondato Arcipelago musica ed è stato nominato Direttore artistico del Teatro di Rovigo, e di didatta (è da poco uscito un suo trattato sulla musica tonale).
[9] Sulla home page del suo sito, Molino scrive: «Dopo l’ultimo travagliato secolo, in cui la musica e l’arte hanno osato come non mai, eccedendo in geniali o orgogliosi tentativi e scarseggiando in comunicazione, in commozione, in ironia, non abbiamo forse un po’ perso per strada questa necessità, che anche (o soprattutto) la musica sia qualcosa di incontrabile dalla globalità della persona? E incontrabile anche, almeno in qualche misura, dalla totalità delle persone, almeno non solo da quel pubblico finto che è formato solo da addetti ai lavori? Una grave frattura in questa ultima decina di decenni l’uomo occidentale l’ha incontrata, la frattura esplicitata dalla contraddizione che Schönberg evidenziava tra bello e vero. Se Schönberg, specie in certi passi della sua vicenda creativa, non vedeva possibile la coincidenza tra quelle due parole, tanti altri grandi tale coincidenza, tra bello e vero, non solo hanno desiderato, ma hanno anche sperimentato ed espresso. Come per tutte le domande più importanti, anche in questo caso penso che non dico la risposta, ma l’affronto serio, autentico, può venire solo dall’autentica esperienza personale. Sono sempre più convinto che l’apporto interessante nell’arte musicale (come in tutto) non venga dalle intenzioni, dai proponimenti, ma dall’innamoramento, dal fascino che la realtà è in grado di offrirmi, e insieme dall’esperienza coinvolgente (per me e di conseguenza, spero tanto, per chi ascolta) che i vari aspetti della realtà, come certamente il testo e la musica, sono in grado di far avvenire. Ecco: la musica come avvenimento». 

[1] Le analisi accademiche producono lo sgradevole effetto di un rigor mortis, in quanto sono costrette a immobilizzare l’oggetto studiato, a estrapolarlo dalla circolazione delle idee e dei fatti che lo hanno prodotto e a considerarlo alla stregua di una un cosa; privilegiando la staticità al divenire ci si facilita il compito ma si falsificano i risultati. Nelle analisi delle opere d’arte, come di qualsiasi avvenimento, avviene un fenomeno simile a quello che in fisica riguarda gli attrattori strani ossia quegli aspetti dinamici che sono di per sé non analizzabili in quanto mutano di continuo, se ne può solo fornire una visione d’insieme.
[2] Cfr. Renzo Cresti, L’arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004, schede critiche su Giampaolo Coral, Mario Cesa, Fernando Mencherini, Gianfranco Pernaiachi, Nicola Cisternino, Biagio Putignano, Gianvincenzo Cresta.
[3] Cfr. la collana Linguaggi della musica contemporanea, diretta da R. Cresti, di Guido Miano editore in Milano, dove sono stati pubblicati saggi su: Rocco Abate, Silvia Bianchera, Claudio Boncompagni, Gabriella Cecchi, Paola Ciarlantini, Fulvio Delli Pizzi, Mario Ruffini, Andrea Talmelli, Corrado Vitale (vol. 1, 1995); Roberto Beccaceci, Angelo Bellisario, Matilde Capuis, Mauro Castellano, Stefano Da Ros, Oronzo Persano, Andrea Pidoto, Davide Remigio, Enrico Renna, Matteo Segafreddo (vol. 2, 1997); Umberto Bombardelli, Pierlaberto Cattaneo, Fernando Mencherini, Carlo Pedini, Biagio Putignano, Igor Sciavolino, Roberta Silvestrini, Marco Stassi (vol. 3, 2000). Inoltre volumi monografici su Niccolò Castiglioni (1991), Luciano Chailly (1994), Piero Luigi Zangelmi (1994), Franco Margola (1995, 1997), Gianfranco Pernaiachi (1995), Giorgio Gaslini (1996), Paolo Ricci (1996), Giancarlo Facchinetti (1996), Biancamaria Furgeri (1997), Danilo Lorenzini (1997).
[4] Cfr. Renzo Cresti, Verso il 2000, Dick Peerson-Il Grandevetro, Napoli-Pisa 1990, primo resoconto organico sulla terza generazione di compositori, con oltre 100 schede critiche. Citare i nomi di alcuni compositori accanto ad alcune tendenze non può che avere un mero valore esemplificativo e didattico, in quanto assai più complessa è la problematica stilistica rispetto a quella di una indicazione generica.
[5] Alex Ross, Il resto è rumore, Bompiani, Milano 2009, p. 813.
[6] Per le problematiche storiche relative alla presenza femminile nella musica e per una riflessione sulle compositrici attuali cfr. Renzo Cresti, La Vita della Musica, Feeria, Panzano in Chianti 2008.




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