home
Aldo Brizzi, con autoanalisi e uno scritto su Radulescu
Avvelenamenti, labirinti musiche del mondo
 
 
Ho conosciuto Aldo Brizzi (Alessandria 1960) all'Università di Bologna, tenevo un Corso, come Esercitatore della classe di Storia della musica di Luigi Rognoni, lui era un giovanissimo e scintillante allievo, farà poi una tesi su Horatio Radulescu (vedi sotto). Ci siamo visti spesso negli anni Ottanta, quando organizzavamo insieme il Festival di Acqui Terme "Proposte musicali" e portavamo per l'Italia una bella Mostra itinerante di manoscritti e partiture contemporanee che intitolammo La musica, le idee, le cose.
 
Velocità d'intuito e capacità di (auto)organizzare, sono doti che nessuno possiede come Brizzi, davvero un'intelligenza bruciante (che - per certi aspetti - è paragonabile solo a quella di Mario Bortolotto, ma meno mediata a livello culturale). Castiglioni, Clementi e Donatoni, fra i tanti, erano i Maestri che frequentavamo spesso e dai quali, il Brizzi degli anni Ottanta, ha ripreso molto a livello di e(ste)tica. Ricordo una cena con Donatoni alla "baracca", ossia alla casetta in campagna che il babbo di Aldo teneva come un gioiello; indimenticabile è anche la presenza di Castiglioni a Cassine. Ci siamo visti in tanti luoghi, dalla Germania alla Francia. Poi, il sole e le donne del Brasile lo hanno portato verso una vegetazione (sonora) più diretta e rigogliosa. Due splendidi compact disc, con musicisti brasiliani, segnano il nuovo percorso di questo particolarissimo musicista, a cui sono molto legato.
 
Intelligenza altamente speculativa e capacità d’intuito davvero magistrale sono le qualità migliori di Aldo Brizzi: attenzione timbrica al colore del suono nascente, diabolicità del gesto bruciante, pluralità sfuggente di prospettive irrelate, suono "sporco", sono alcune delle caratteristiche della produzione di Brizzi almeno fini agli anni Novanta, le cui opere sembrano tutte costruite sul vuoto, è come se Brizzi iniettasse dentro gli anfratti del linguaggio un virus che lo avvelena.
 
Gestualità e grafismo sono alcuni aspetti che contribuiscono a creare delle forze eccentriche rispetto alla centralità della scrittura in pentagramma e al concetto di forma sferica, spostando la comunicazione su un'immediatezza che si avvicina molto a quella della musica popolare, non è quindi un caso se l'ultima produzione proprio alla musica etnica ricorre per sostanziare l'opera di energia vera, presa dalla vita vera. L'approdo all'immediatezza avviene anche grazie al persistere sotterraneo dell'insegnamento ingenuo di Castiglioni, dal quale il giovane Brizzi era attratto, al di qua del pensiero negativo, in maniera spontanea, come il giorno alla luce, ma ancor più fondamentale risulta il contatto con Giacinto Scelsi, durante i primi anni Ottanta, quando Scelsi era poco conosciuto (un po' di più in Francia) e pochissimo stimato (specie in Italia), l'avvicinamento a Scelsi permetterà a Brizzi di prendere progressivamente le distanze dal pensiero formalistico occidentale.
 
Nella musica di Brizzi la struttura compositiva ha un grado d'ordine molto elevato, ma non per calcoli sempre più complicati, ma per l'inserimento del caso, infatti il raggiungimento del sistema macroscopico non avviene in maniera consequenziale, ma nell'articolarsi del linguaggio e nel formarsi del costrutto si assiste a incrementi e sfasature locali, al progredire o regredire di meccanismi particolari, di elementi a direzionalità e velocità differenti. Il metabolismo musicale si organizza in un gran numero di vie, divergenti, convergenti o cicliche e ciascuna di queste vie comprende una serie di reazioni non del tutto prevedibili, in una prodigiosa vitalità degli aspetti microscopici, dove ritmo e timbro assurgono a una sorta di terza dimensione del suono, il quale viene sempre sorretto da segreti centri di energia prorompente.
 
L'idea del labirinto (esistenziale oltreché linguistico) costituisce una sorta di filo rosso che lega la prima maniera, che potremmo collegare al pensiero negativo (influenzato dal Donatoni di Per orchestra), alla seconda legata alla musica latino-americana, dove troviamo pezzi che al labirinto rimandano fin dal titolo, come L'épreuve du labyrinthe.
 
La musica di Brizzi si articola su un tempo immanente ovvero la temporalità è concepita come una girandola di presenti, è una musica che non ha una vera evoluzione, ma intensità circolare che, girando a vuoto, crea corti circuiti ed esplode.
 
Le forme per Brizzi sono dei simulacri di un’autenticità impossibile, camuffamenti della razionalità, la quale è solo maschera, in quanto la reale fenomenologia è un mostruoso caos, vitale, pregno di necessità e di fato.
 
Per certi aspetti, la ricerca sonora di Brizzi ricorda quella di Varèse, a entrambi interessa una materia originaria, sentita con sensibilità fisica; si tratta di una ricerca razionale, ma che non si basa sul suono dialettico o narrato, ma procede spesso per associazioni e giustapposizioni, seguendo il procedere del pensiero "primitivo", così come lo concepisce Lévi-Strauss. Anche il ricorso all'elettronica non viene inteso come avvicinamento al modello tecnologico dominante, come possibilità di ri-scoprire il suono puro, vergine, al di qua delle sovrastrutture linguistiche e culturali (eurocentriche).
 
Grazie ai suoi contatti con l’America latina (specie con il Brasile dove ha vissuto e dove ritorna spesso, ma anche con il Messico), Brizzi si è sempre più avvicinato alla musica popolare brasiliana ch’è diventata la base di molte sue composizioni recenti, una sorta di world music molto filtrata e complessa. Così gli ultimi lavori, realizzati con la collaborazione di musicisti brasiliani di origine popolare, studiano il suono da prospettive più antropologiche (Brizzi ama citare il testo di Lévi-Strauss Tristi Tropici), cercando di sondare, attraverso ciò che le musiche etniche sprigionano la capacità quasi sciamanica di condurre il suono, un suono che poi Brizzi filtra attraverso il suo bruciante e velenoso pensiero, un veleno che lui, alla maniera dei cacciatori di caccia grossa, si inietta piano piano, in maniera da esserne immune; un veleno che uccide gli accademici e i formalisti di ogni latitudine e longitudine, lasciando vivere chi sa concedersi a una musica naturale.
 
Davvero un caso singolare è quello di Aldo Brizzi che, nella produzione recentissima, porta i segni di un superamento dei generi, mostrando grande abilità nel passare da una musica avvelenata, gestuale, concettuale e speculativa, com'era quella fino agli anni Ottanta, a una musica che metabolizza la canzone brasiliana e canti di provenienza geografica disparata, ritmi etnici e strumenti popolari africani, registrata eppoi ri-montata in studio, su tracce indipendenti (i singoli cantori o strumentisti non sono al corrente del progetto generale, vengono registrati separatamente e quindi assemblati seguendo un'intuito straordinario di con-vivenza musicale). Lavoro in studio ma molto (più) spesso live insieme a Reis.

Anche se l'operatività di Brizzi adotta i criteri dell'eclettismo stilistico, ha ben poco a che vedere con la Transavanguardia, se non nella considerazione del pubblico come elemento strutturale dell'operare: contaminazione, destrutturazione, assemblaggio e riconversione finale dei frammenti musicali provenienti da aree geografico-culturali-stilistiche diverse seguono, comunque, un progetto formale preciso fin nei particolari.
 
L'operare, che molto ha a che fare con quello dell'antropologo, di Brizzi acquista un valore utopico, nel senso etimologico, occupa non un luogo determinato ma è sempre altrove, in un nomadismo che attraversa varie culture; la sua Opera non assume un punto focale unitario, ha piuttosto un carattere di passaggio. Brizzi lavora su una costellazione di riferimenti che hanno, come punto privilegiato, non tanto la struttura musicale, ma la musicalità, termine bistrattato dagli accademici, ma che, nel rispetto dell'ascolto e della comunicazione, diventa centrale, (fermo restando che dovrebbe risultare essenziale anche per le composizioni più astratte). Il lavoro di Brizzi, nella sua sovrapposizione di segni espressivi, diventa quindi non solo un eccellente esempio di superamento delle forme e degli stili definiti, ma si fa pure confronto etico fra culture, antropologia musicale, dove l'uomo abita lo spazio dell'opera, calibrato su una progettualità aperta che ha come fine quello di amplificare il senso dei materiali di partenza (senso ludico, intellettuale e culturale assieme).



Da Renzo Cresti, Aldo Brizzi, avvelenamento del linguaggio, in Rivista "Pasquino musicale" n. 7, Latina 1992 - Inoltre Bertoldi-Cresti, Per una nuova storia della musica, III vol., Eximia Forma 1994. Cfr. Renzo Cresti, Verso il 2000, Il grandevetro, Pisa 1990 e Renzo Cresti, L'Arte innocente, con Cdrom, Rugginenti, Milano 2004.



A Reis



***************************************************************************************************************************



Autoanalisi

Le persone che più mi hanno segnato sono Scelsi, Radulescu, Nono, Celibidache. Hanno lasciato un'impronta indelebile anche gli studi di antropologia musicale, la musica rinascimentale e alcuni aspetti delle musiche e dei suoni di culture lontani.

I casi che sento più in sintonia con il mio modo di essere sono quelli di certe musiche che non richiedono spiegazioni teoriche, anche nel caso che costituiscano una parte importante del progetto compositivo.

Il mio principale interesse è quello di scoprire o attivare centri di energia sonora. La direzione cui la mia musica è volta è quella dello Spettro sonoro come linguaggio musicale dove ritmo e timbro assurgono a una terza dimensione del suono.

Penso che la situazione dei compositori sia molto diseguale. Ciò è soprattutto il risultato di una debolezza interna: troppo club chiusi al resto della vita musicale e ignoranti di ciò che accade.



***************************************************************************************************************************
  
 
 
http://www.renzocresti.com/dettagli.php?quale=2&quale_dettaglio=155



http://www.aldobrizzi.net/http://www.aldobrizzi.net/



***************************************************************************************************************************



 Al cuore del suono, prefazione al lavoro in fase di realizzazione di Aldo Brizzi su Radulescu
 
           
Questa che sta per uscire è la prima monografia mondiale dedicata a uno dei più importanti compositori che hanno agito nella seconda metà del novecento, protagonista della musica europea dagli anni settanta fino alla morte, eseguito nelle più importanti manifestazioni con commissioni ricevute per prime esecuzioni assolute specialmente in Francia e in Germania, ma via via in tutti i paesi dell’Europa dell’ovest e dell’est. Nel 1974 si presentò in Italia con un seminario all’Accademia musicale Chigiana, qualche anno dopo tenne un altro seminario a Torino. Aldo Brizzi fu il suo amico/allievo prediletto.

Mentre in Europa il nome di Radulescu è abbastanza rinomato, anche al di fuori della piccola nicchia delle rassegne di musica contemporanea, in Italia è colpevolmente misconosciuto. Questo libro copre una lacuna culturale e fornisce non solo un’eccellente documentazione sul percorso artistico del grande compositore rumeno, ma pure molti spunti di riflessione su ciò che sono state e sono oggi le difficoltà del comporre, un pensare e fare musica al di là di ogni metodo convenzionale e di ogni compiacenza narcisistica.
           
È un libro molto intelligente, con contributi di livello assoluto, come quello di Scelsi e di Flammer. Le riflessioni che si svolgono nelle pagine che seguono e l’interesse che questo volume attirerà in tutta Europa hanno consigliato un abstract in inglese, realizzato da un’esperta di traduzioni musicali come Chiara Calabrese. Il saggio di Flammer viene tradotto in italiano da Stefano Allegrini.

Brizzi ha steso il suo saggio a stretto contatto di gomito con Radulescu ossia ciò che ha scritto è stato discusso e approvato dal maestro. Questo fornisce un carattere di ufficialità alla trattazione.
           
Le analisi dei brani sono molto puntuali e volte a sottolineare il carattere generale della musica di Radulescu che, per molti aspetti, è davvero un unicum.
 
La stragrande maggioranza delle musiche che si sono ascoltate negli anni della Neue Musik scaturivano da un furor tecnologico ma i sistemi compositivi se garantivano il governo dei vari parametri, non davano altrettante garanzie dal punto di vista percettivo e la contra-posizione cageana aveva bisogno del polo positivo per deflagare.
 
Il pensiero artistico è un filosofare oltre, un conoscere ulteriore, in quanto l’arte è un segno stra-ordinario che rinvia a una pluralità di dimensioni che creano un rapporto arte7mondo del tutto particolare; è una sorta di (f)atto che assomiglia molto a quello rituale della religio. Il musicista compie un’esperienza che lo trascende e lo responsabilizza. […] L’opera è frigida se non è fecondata dall’esperienza, se non si apre alla trascendenza del proprio testo, di un testo che sappia essere rivelativo.[1]
 
Pochi sono stati i musicisti che sono riusciti ad evitare l’impasse che si creò fra strutturalismo e aleatorietà, un intreccio che ha segnato i decenni del secondo novecento e che, fra direzioni principali e secondarie, fra tendenze molteplici, ha prodotto quel labirinto che chiamiamo musica contemporanea. Il problema non fu, e non è, di tipo formale e tecnico, non abbiamo (più) bisogno di perfezionamenti analitici ma di qualità, di sincerità, di genuinità, di virtù umane le quali hanno poco a che vedere con i tecnicismi.

Finalmente le discriminanti del pensiero critico si basano non solo sulle capacità tecniche, sul come un brano viene strutturato, ma anche sul cosa e sul perché, dando importanza alla comunicazione di ciò che Wagner chiamerebbe ‘il puro umano’, l’afflato con cui l’uomo si pone di fronte a tutto ciò che lo sovrasta, la madre Terra, l’infinità del Cielo, l’Aperto del Mondo (come direbbe Heidegger), la percezione dell’autenticità dell’operare artistico, la riconquista del senso della bellezza che non è quella del prodotto ben confezionato ma è una bellezza profonda che dona senso, umile e discreta; se queste sono le cose che cerchiamo nella musica allora il nome di Radulescu diventa fondamentale.

Un fantasma si aggira fra le pagine del saggio di Brizzi ed è quello di Giacinto Scelsi[2], mai citato perché Brizzi impostò il lavoro come tesi di laurea, discussa al DAMS dell’università di Bologna nella sessione autunnale dell’anno accademico 1989-1990, con relatore Aldo Clementi il quale fu un acerrimo nemico della musica di Scelsi[3]. Non fu il solo, anche l’ambiente della casa editrice Ricordi si dimostrò ostile alla musica scelsiana che venne così ostacolata nella sua diffusione.

Scelsi è il vero punto di riferimento per inquadrare la musica di Radulescu, più e meglio degli spettrali francesi i quali crearono una sorta di sistema compositivo basato sugli armonici, mentre Radulescu, proprio come Scelsi, utilizzò le componenti del suono in maniera più libera, volta interamente a scandagliare, attraverso il suono, le vibrazioni interiori.

La stima di Scelsi per Radulescu è dimostrata dalla lettera qui pubblicata che assume un valore enorme se si pensa a quanto poco Scelsi abbia scritto e reso pubblico della sua vita.

La musica bizantina e il canto del gregoriano primitivo furono sia per Scelsi sia per Radulescu i riferimenti storici più importanti, ai quali si debbono aggiungere la concezione del singolo suono di provenienza orientale e cinese in particolare e, per Radulescu, la ritualità di certe musiche pastorali rumeno.

Più che musica, concetto troppo legato alle incrostazioni teoretiche, è più opportuno parlare di suono, elemento naturale che sta prima delle codificazioni culturali. Il linguaggio della musica è un linguaggio sui generis, una sorta di utopia del linguaggio vero e proprio; si presenta come possibilità autentica, come vocazione e destino, ma se è una vocazione o un destino deve allora compiersi in un contesto pre-compreso e questo contesto non può che essere il mondo dei suoni, il loro mondo.

Il suono redime dalle colpe della cultura, in ogni caso troppo egoistica, massificata, mercificata, accettando solo la cultura antropologica in cui l’uomo ascolta l’altro uomo. La musica è una riduzione rispetto alla lingua delle parole (assertiva, concettuale, significativa in maniera concreta), ma proprio questa riduzione consente un’apertura ulteriore, verso l’indicibile a parole. La musica è così anche un’eccedenza rispetto al linguaggio verbale. Col suono avviene una cosa simile a quella che accade con il ‘linguaggio’ degli innamorati, quando un semplice “ti amo” vuol dire tutto. Queste due sole parole mostrano l’essenziale e inaugurano un tempo estatico, dove il linguaggio trascende il proprio testo e diventa rivelativo, un linguaggio che dice di più di quanto non dica testualmente. In tal senso il ‘linguaggio’ del suono è assai vicino alla ritualità religiosa. Questo sapeva bene Radulescu.

I suoni di Radulescu sporgono dal loro mondo, vengono chiamati dal musicista in fremente attesa.

L’essere in attesa è la condizione di grazia, l’unica che consenta di accogliere le estroflessioni dei suoni. Il suono deve andare dal suo musicista che l’ha evocato come le foglie vanno al vento, in un incanto ritrovato.

Il tempo dell’attesa è tempo che purifica: quando Francesco d’assisi bussò al suo convento, in una notte di pioggia e freddo, il padre guardiano gli rispose di aspettare fuori; solo trascorrendo la notte al gelo Francesco avrebbe conosciuto il silenzio profondo dell’attesa, ch’è disciplina di sorveglianza. Radulescu, al di là dei fatti biografici, sembra aver metabolizzato gli abissi che l’attesa produce, da queste profondità nasce il suono e il musicista si fa vaso per accoglierlo.
           
Occorre lasciarsi andare verso la natura dei suoni, scrivendo ciò che i suoni stessi suggeriscono. Scelsi fu un vero sciamano, egli si considerava un tramite fra il mondo cosmico dei suoni e quello troppo umano degli individui egoistici. Scelsi realizzò, forse come nessun altro, l’ethos dell’ascolto. Egli riuscì a farsi eco del suono. Il suo ascoltare in profondità fu un atto di preghiera.
           
Il tempo musicale di Radulescu è tempo assoluto, mistico, come realizzavano gli antichi cantori medioevali. L’opera d’arte sta fra l’esodo e l’avvento, è un regresso nel luogo verso ciò che siamo già, è un dimorare in sé, è ciò che ci porta verso il mistero che noi siamo per noi stessi. Radulescu interrogava il silenzio che cerca di cantare. La parola verità – aletheia – indica il vagabondare di dio.
          
La temporalità musicale di Radulescu è una contemporaneità di essere stato, di essere presente (immanente) e di essere futuro, essa riesce a dire cose impraticabili linguisticamente. Per questo la sua  musica produce un’innegabile fascinazione. È un tempo che si spazializza e sospende ogni contingenza, è un’ocenografia di suoni che tende al mysterium magnum che accomuna tutti i mistici ovvero si avvicina ai misteri dell’esistenza.
           
Gli armonici sono una specie di ombra del suono reale e il simbolo dell’ombra ci porta all’archetipo junghiano del ricordo di mondi lontani, sognati o futuribili, al mito della selva, ma soprattutto l’ombra è l’altro che alberga in noi, un altro che ci appartiene e di cui noi facciamo parte.
           
I suoni di Radulescu non hanno dimora in una forma stabile, in un determinato sistema compositivo, vanno al di là di ogni struttura, restano al di qua di ogni metodologia, sono a-topici, non vogliono essere rinchiusi in processi stringenti che esaltano la volontà formante del compositore e sviliscono la loro ragion d’essere, la quale reclama libertà, fantasia, spazi infiniti. Radulescu intraprende un ethos del pellegrinaggio, durante il quale andando verso il suono va verso se stesso e, recandosi nella sua intima dimora, si apre al Mondo.
           
Secondo Radulescu la musica non è solo un pensiero sui suoni, che si rivolge ai suoni e considera qual è il modo migliore per organizzarli, un pensiero organizzato in suoni; l’anima di un brano non risiede nella sua struttura, ma nella qualità del suono stesso ovvero nel rispetto che l’autore ha nelle ragioni del suono, della sua natura, della sua vita ed energia.

L’opera non è del tutto rapportabile alla volontà, il musicista è piuttosto colui che mette in moto una sorta di meccanismo biologico: è un po’ come un giardiniere quando pianta un fiore e ne segue amorevolmente la crescita, la quale avviene comunque, autonoma, al di sopra del giardiniere. Mentre la musica formalistica è fatta dall’uomo per l’uomo, il suono naturale non abbisogna di dell’uomo per nascere, ha già in sé le forze originarie per farsi udire, è come il fiore del deserto, che non deve essere curato e si mostra, a nessuno ma all’universo intero.

In Radulescu la musica si manifesta in maniera sorgiva. I gesti non sono movimenti che trasportano un elemento verso un altro elemento o verso un altro luogo, ma dell’elemento realizzano il suo aver luogo, il suo esser così. D’altra parte perché un’opera d’arte non è riproducibile? Non certo per le difficoltà tecniche né per le tematiche espressive, ma per quel suo quid di stranezza, per l’enigma che racchiude, per il suo segreto ch’è un pathema, un limite per il discorso che non può raccontarlo razionalmente, ma che dona incanto ed exultatio.

Radulescu riesce a incantare con le sue opere perché per primo lui stesso è stato incantato dal suono, in una partecipazione estatica che compie un atto di osmosi con ciò che lo circonda, diventando una cosa sola con i suoni, le nuvole, le montagne, l’acqua (come diceva anche l’ultimo Nono quando parlava dei silenzi e dei lievi riverberi sonori del mare di Venezia)[4].

Il singolo suono è una forma vivente, concetto già elaborato da Goethe e da Schiller durante gli anni del loro carteggio, poi ripreso da Bloch con l’idea di suono quale soggetto naturale, sorta di DNA di ogni musica. La forma naturale del suono è simile a quella di un fiume o di un albero che non possiedono le simmetrie e gli equilibri studiati a tavolino, ma possiedono molto di più, sono diretta espressione dell’ordine del creato.
           
In chi pratica la musica, come l’ha praticata Raulescu, agisce qualcosa di sconosciuto, un qualcosa che rende l’attività anche passività, e più il musicista si concentra sul suono e più questo diventa vasto e misterioso. Fra l’entità suono e Radulescu si crea una vertigine, l’agire si realizza con rivelazioni fulminee.
           
Il suono è un’estasi e in tal senso le civiltà orientali hanno molto da insegnare (al di là delle banalità professate dalla New age). Il suono è il canto che si ascolta nel silenzio, è la vita stessa quando la vita svela il suo vero volto. L’estasi è una soppressione dell’esperienza ordinaria e s’apparenta al dolore, infatti quando l’uomo soffre sospende i fatti quotidiani e va oltre.
           
Radulescu non cerca artificiosamente l’originalità, non si deve sempre fare in maniera diversa da ciò che è, si deve fare meglio, non nel senso tecnico ma in quello di avvicinarsi il più possibile al cuore della musica. La ricerca tecnica della novità è fine a se stessa, è un troppo e un troppo poco assieme, è un accanimento formalistico che vale ben poco se non è sostanziato dalla vita stessa.
           
È il musicista che appartiene all’opera e non è l’opera un prodotto del musicista. È la musica che va al musicista, se lo ritiene degno, come l’alba ve verso il suo giorno.
           
Nella vera musica l’uomo non viene imitato, ma rivive nel suo fondamento, è un volto afferrato. Si afferra non l’individualità ma l’io plurale, formato da tanti volti.
 


[1] Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Massarosa 2010, pp. 32,33.
[2] Per un approfondimento su Scelsi cfr. Giacinto Scelsi, viaggio al centro del suono, a cura di Pierre Albert Castanet e Nicola Cisternino, Luna editore, La Spezia 2001. Inoltre la rivista della Fondazione Isabella Scelsi, i suoni, le onde…, Roma, www.scelsi.it archivio e libri editi dalla Fondazione.
[3] Cfr. “Il giornale della musica”, Torino, febbraio 1989.
[4] Per un approfondimento su Nono cfr. L’ascolto del pensiero, a cura di Gianvincenzo Cresta, Rugginenti, Milano 2002.







Renzo Cresti - sito ufficiale