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Giampaolo Coral, con intervista
O delle profondità
a seguire testo in tedesco e intervista
 
 

Ho molta stima di Giampaolo Coral, credo sia uno dei (pochi) musicisti di razza della nostra musica contemporanea, penso anche che sia uno dei pochi che vivono la cultura in maniera profonda e sofferente, con passione (nel senso etimologico del termine). La qualità della sua musica abbinata allo spessore culturale già farebbero di questo personaggio uno dei più interessanti del panorama internazionale, ma ciò che lo rende davvero eccezionale è il fatto che il suo pensiero/fare artistico è sostanziato da una partecipazione emotiva profondissima, da una tensione morale che non conosce cedimenti. Sono orgoglioso dell'amicizia che Giampaolo mi ha sempre manifestato.
 
Era nato a Trieste il 22 gennaio del 1944, è morto nella sua città natale l'11 febbraio 2011, lasciando un vuoto enorme nel mondo della musica di oggi che non lo ha mai considerato come avrebbe dovuto, uno dei maggiori compositori di questa epoca. Le sue partiture sono conservate presso il Conservatorio di Lugano.

Nel 2006 è caduto il ventennale dell'importante Rassegna Chromas che Giampaolo dirigeva a Trieste, è stata l'occasione per testimoniare un percorso artistico/organizzativo intelligente e di profonde aperture poetiche ed e(ste)tiche. Intanto in questo periodo è stata eseguita l'Opera, scritta nel 1990, Il canto del cigno, un doveroso segnale (sonoro), un riconoscimento della qualità artistica di questo grande compositore. Sono tornato anche recentemente a Trieste, invitato dalla moglie Monika, per testimoniare la grandezza del grande amico scomparso.
 
Chromas è stata una felice intuizione di Giampaolo e incredibile è stato il suo impegno nell'organizzazione, così come nella didattica al Conservatorio triestino, lui, così concentrato sull'analisi della propria interiorità, ha saputo donare moltissimo attraverso la programmazione di rassegne aperte, soprattutto verso i compositori dell'Est europeo, molti dei quali si sono fatti conoscere in Italia proprio attraverso Coral.

Il libro autobiografico, narrato in terza persona, Demoni e fantasmi notturni della città di Perla (Monfalcone 2008), inizia con una citazione da Il Dr. Jekyll e Mr. Hyde sul doppio e sull'alchimia, ma il doppio non riguarda solo le profondità della psiche, concerne anche la relazione uomo-mondo, individuo-collettività, un rapporto incredibilmente stretto per un uomo concentrato sull'enigma che lui era per se stesso, eppure questo uomo che ha saputo sondare profondità senza confini, era inscindibilmente legato ai motivi sociali, alla vita collettiva, all'educazione civica oltreché artistica, alla pedagogia del porgere la musica a tutti e ai giovani in particolare, ai sentimenti di partecipazione e di solidarietà. Chromas, nata dal doppio di Coral, è oggi una delle Rassegne fra le più vive di significato, che possa vivere a lungo, in memoria del suo grande fondatore.

Il comporre è per Coral taumaturgico, con esso cerca di tamponare lo squilibrio interiore, connettendo il frammenti del proprio Sé, contro la forza dissolvente del diabolus, di colui che separa e che assume, spesso, il volto dei personaggi cari, mitizzati (i compositori della finis Austrie), per cui mettersi contro il diabolus significa uccidere il padre. Nietzsche scrive, in Al di là del bene e del male, che ogni grande filosofia, come ogni grande opera d'arte è un'autoconfessione, "una specie di non volute e inavvertite mémoires", memorie però non realistiche, ma trasfigurate dalla forza propria dell'arte che decompone e ri-compone in un nuovo contesto il sistema di tracce lasciato dall'inconscio, è così che l'Opera tradisce l'impulso a confessarsi nel suono e col suono. E come se il vissuto del compositore costituisse l'inconscio dell'Opera, intesa come soggetto parlante. Come diceva Mahler "la parte più importante della musica non si trova nelle note".
 
Il viaggiare crea fatica, perché ogni movimento trova resistenze e quelle etiche sono ben più dure di quelle pratiche. In ogni caso il percorso muta l'interiorità e così, via via, il mondo delle pulsioni e dei sentimenti, come quello delle cose e dei fatti, cambia l'io. Coral ha saputo raccontarci creativamente questo percorso, dove il mondo conosciuto si colloca all'interno di un io in movimento. In questo racconto melodie echeggiano all'infinito, come schegge ci colgono, frammenti di un cosmo instabile. La selva intricata dell'interiorità di Coral crea processi ad onda, dove la musica si gonfia a causa di figure accumulate o si distende, sempre però mantenendo una tensione nervosa e un fitto intreccio polifonico, che ammicca costantemente all'impossibilità di sciogliere del tutto la selva dell'io.
 
Il soggetto si perde nell'Opera, "bisogna riconoscere che l'io è soltanto un'eco" (Valéry), e si rimodella attraverso la figura musicale, figura ch'è - a un tempo - memoria e finzione. L'operare artistico distrugge l'autoconfessione perlomeno tanto quanto aiuta a ricostruirla. La figura musicale non è mai unica, ma contiene in sé anche altro, non è mai fissata una volta per tutte ma oscillante. La musica di Coral è profondamente Stimmung, disposizione d'animo.
 
Elemento caratterizzante di questa Stimmung è appunto la figura musicale. Per figura s'intende - come Donatoni - un frammento sonoro riconoscibile, concreto nella sua identità tipologica, che permette di forgiare il materiale musicale, statico nella sua unità, ma dinamico nella sua molteplicità e possibilità. Figura non vuol quindi dire "figurativo". Tecnicamente si avvicina al concetto di formante in Boulez, una sezione dell'Opera con caratteristiche riconoscibili e che rendono distinguibile una parte dall'altra, contrassegnando una porzione del continuum sonoro. E' una nozione che ripensa e rimodella il vecchio concetto di tema, ma che con questo poco a che vedere, in quanto non fa riferimento al contesto storico che il tema abbisogna per essere tale.
 
Attraverso la figura si costituisce il racconto delle profondità spirituali e il dialogo fra Opera e Autore. Coral può riconciliarsi con se stesso grazie alla musica, le figure musicali divengono l'espressione autentica, seppur trasformata, delle corde segrete e vibranti: cos'è il suono se non la scia di un tormento che osa raccontarsi?
 
Tormento che si tomenta coi suoni, ossessione che si avvicina all'agonia. Coral è contemporaneamente narrante e narrato: l'io scopre una voce dimenticata che lo raddoppia in immagini di desiderio e di morte, è la voce del mare e del vento di Trieste che si fa suono. La narrazione sonora di Coral non è descrizione di una storia, ma testimonianza di vita, in particolare di energia psichica, ed è proprio attraverso la comunicazione di tale intensità nervosa che la musica arriva diretta, forte, penetrante all'ascolto. Ciò che comunica è un cruento combattimento con i materiali (storici) per appropriarsene, per ucciderli come si "uccide" il padre, per farli propri.
 
Come in Francis Bacon, Coral lavora sull'"accidente", sul quel germe primordiale, assolutamente necessario, anti-illustrativo e pregno di umori, embrione da cui partono gli ulteriori articolazioni, non solo musicali ma psicologiche. E' un insieme di cellule riproduttive assai mobili e fantasmagoriche che prendono un ordine strutturale ed effondono energia: fibre musicali e nervose convivono. La dinamica temporale è un elemento assai importante e l'articolazione delle cellule e delle figure la rende ora contratta ora dilatata, tesa oppure sospesa.
 
La musica di Coral è una sorta di psicanalisi applicata, quindi i parametri non vanno intesi in senso formalistico, ma simbolico: l'intreccio polifonico è l'intricata tela dell'Es, aggrovigliata in fili sottili, a volte invisibili, e i nodi da sciogliere sono quelli che attanagliano la nostra personalità. La melodia è piegata in sé, si espande all'interno, cantando i tormenti di un'anima inquieta, romanticamente, ma con una lucidità di scrittura magistrale. Il rapporto con la Romantik, intesa quale categoria dell'anima e non come riferimento storico, è uno dei tratti con i quali inquadrare la musica di Coral, da qui provengono gli strazi, i travagli, gli affanni, gli assilli e le lacerazioni: quale differenza da coloro che si sono autobattezzati "neo-romantici"! Solo per avere a disposizione un'etichetta vendibile, musicisti che non hanno né tensione emotiva, né verità interiore, una commozione invece autentica e genuina ci avvolge nella musica di Coral.
 
Ecco, il rapporto fra pathos e scrittura è fondamentale, perché se viene a mancare allora tutto è possibile, come si vede fin troppo spesso nei casi di belle intenzioni dichiarate e di musiche mancate: è la pagina che racconta, con i suoi segni, ed è dal valore della pagina che si ri-costruisce il percorso, quindi formalismo ed espressionismo coincidono, di più, si esaltano a vicenda. In Coral la forma e la tecnica costituiscono gli argini entro i quali scorre il fiume in piena della sua interiorità, senza quegli argini l'interiorità sarebbe vaniloquio o, comunque, non espressione d'arte. Di contro il pathos sostanzia ogni suono, rendendolo vibrante, ai limiti di una rottura delle coordinate formali che però mai viene effettuata, perché, come dicevamo, è proprio quell'organizzazione a garantire la forma dell'espressione e, quindi, lo Stile (oseremo, per Coral, il grande Stile).
 
La Scuola di Vienna e in particolare Arnold Schönberg (con la sua musica e con i suoi scritti) hanno lasciato un segno indelebile nella musica di Coral. La sua tradizione culturale dovrebbe quindi essere quella che comunemente viene definita mitteleuropea. Coral si è spesso interrogato sul significato profondo di questa "appartenenza", concludendo che questo termine è un superficiale e stereotipo cliché, un localismo sul quale molti intellettuali italiani hanno vissuto (e vivono) di rendita. Contiene inoltre un virus molto reazionario. Permette a chi non ha un'identità culturale di consolarsi con nostalgie del passato. Oggi la citazione, il rifarsi alla memoria, diventa il mezzo saccente di fare musica, arte, letteratura. L'osservazione di ciò che sta oltre il proprio naso è scomoda e non permette di soddisfare il bisogno di originalità. L'orticello diviene il centro del mondo e si raccontano storie che avvengono in questo spazio mentale ristretto.
 
Alfred Kubin, già nel 1908, con il suo romanzo fantastico Die andere Seite, aveva descritto questo Regno del Sogno separato dal mondo circostante, ma destinato alla disintegrazione. Nel 1997, Coral ha composto una psico-musica (Demoni e fantasmi notturni della città di Perla) proprio su questo testo del visionario pittore austriaco. Kubin è stato per Coral una panacea di energia, immergendosi in quel mondo poetico dalla forte carica emozionale che emana da visionari disegni dalla forma minuta: "da molto tempo, con un processo creativo (psicografia) simile al fabulieren kubiniano, andavo annotando il diario intimo dei miei ricordi, delle mie fantasie e dei miei sogni attraverso piccoli pezzi pianistici (Klavieralbum I, del 1991-95), scritti quasi di getto, in bianco e nero" - dice Coral - "la scoperta, nel 1996, de I demoni fu perciò un ritrovamento di me stesso, un confronto con la mia ombra /…/ si tratta di un viaggio visionario nel Regno del Sogno, in una città fantasma, immaginaria, costruita con residui fatiscenti del passato, nella quale vive un'umanità nostalgica e apatica /…/ la radice psicanalitica del doppio, dell'Ombra, dei simboli, della maschera e del travestimento si ricollega a una tematica che avevo già indagato /…/ va considerata una psico-musica /…/ una raccolta di memorie /…/ tutto destinato a soggiacere alla disgregazione".
 
Il tempo della psico-musica è diverso da quello quotidiano, è un tempo/spazio interiore che, malgrado sia costantemente insidiato dal banale, può introdurci nei meandri dei (bi)sogni e degli incubi, dove abita il nostro io segreto e vero. Sulla dissociazione del tempo/spazio musicale lavora spesso Coral, per portarci all'ascolto dell'ora della mezzanotte, dove l'orologio si ferma e tutto ciò che nelle ore del giorno scorreva veloce e apparentemente tranquillo si accavalla, si spoglia, si decanta e s'inquieta in attimo terribile, dove si decide del sì e del no, della vita e della morte, in quest'attimo tremendo e crudele soggiorna Coral.
 
Per Coral, l'eredità della cultura musicale mitteleuropea si è conclusa con Darmstadt. L'esperienza cagiana ha insegnato che il mondo (musicale) è più ampio di quello che sembrava. Coral ha sempre cercato di osservare il mondo con questa visione, e si considera perciò un apolide culturale, che significa essere libero di seguire se stesso.
 
Dice Coral: "la mia opera si suddivide in due periodi: il primo, romantico, in cui la dedizione alla Scuola di Vienna era totale (espressionismo di Schoenberg e surrealismo di Berg), è caratterizzato dall'emanazione della mia "Soggettività", intesa come massima e naturale liberazione (nell'opera) dell'emozionalità derivata, nel Soggetto, dall'influsso della realtà del suo "essere" nel mondo /…/ il secondo periodo (che parte dalla Seconda Sonata per pianoforte del 1979) è caratterizzato dall'essenzialità del linguaggio logoclonico /…/ nasce dalla ricerca (forse vana) di capire il meccanismo originario, inconscio, dell'Atto compositivo. E' l'emanazione della massima Oggettività nella produzione dell'Opera, quindi massimo controllo di quell'oscuro impulso. Il Soggetto (che non può comunque autoescludersi) deve essere ridotto a dimensione minima, solo così la musica acquista quella "leggerezza" che la pone al di sopra della "pesantezza" del mondo (della realtà)" (da Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, Pagano, Napoli 1992).
 
I grandi lavori orchestrali degli anni Settanta, come il commovente Requiem per Jan Palach e altri (con il quale esordisce in Germania nel 1971), come l'intenso Magnificat (1973), come la lancinante Suite per orchestra (1975), o anche come le allucinate Variationen uber "Lasciatemi morire" di Claudio Monteverdi, così come altri lavori da camera, dimostrano una padronanza superba degli elementi compositivi e un tratto espressivo abbagliante, vigoroso nel suo macerato intreccio di linee e di masse sonore, segno problematico anche in chiave di tematiche sociali. L'orchestra di Coral è un organismo complesso, tortuoso e intrecato, materia vivente che mette insieme frammenti espressivi, schegge o flash mentali, brandelli di corpo, lembi o porzioni di un'identità molteplice. Per questo il musicista ama scrivere per orchestra, un organismo che padroneggia tecnicamente come pochi, perché è il suo.
 
L'osservazione di sé e della materia, per carpirne i segreti, per afferrare il processo psicologico e il funzionamento tecnico, porta Coral a una fase di alleggerimento dell'io, un farsi da parte per lasciare spazio alla considerazione dell'altro (altro in sé e altro da sé), inserendo un diaframma che permette alla materia di essere più libera, più se stessa. La musica (non certamente l'estetica e la personalità) di Wagner ha certi caratteri che interessano a Coral e sui quali, con distacco, può giocare, ossia trasfigurare, dandosi delle regole di gioco per far lievitare i suoni: Dolce, calmo e sorridente è un omaggio a Wagner per orchestra del 1983. Un altro omaggio, questa volta a Thomas Bemhard, il pezzo per violino e orchestra Amras, segna un ulteriore passo verso la verticalità del processo di scavo (auto)analitico o di ascolto del Sé attraverso il processo di articolazione dei suoni che, con abilità straordinaria, si dispongono come i pezzettini di un puzzle che, nel suo lento completarsi, dà, alla fine, il volto segreto dell'Ospite che alberga in noi.
 
Se il balletto Favola-pantomima romantica (1982), l'Opera in un atto Mr Hyde (1986) e l'Opera in un atto Il canto del cigno (1990) segnano un approdo al teatro drammatico, in un senso che rimanda allo sdoppiamento e al tema dell'Ombra (o Ospite in noi), all'inconscio e al momento onirico, dove allucinazione e bellezza convivono, mai la musica di Coral acquista caratteri descrittivi o propone visioni impressionistiche, il suo stile rimane sempre e comunque costruito con gesti forti e pregnanti, rocciosamente sonoro e terribilmente fascinoso, come dimostra il bellissimo brano per ensemble vocale e 5 ottoni, Aloe del 1997: sono proprio i fiati, con squilli distesi, a introdurre le voci le quali, sul testo del Cantico dei Cantici, si dispiegano in filiformi melodie che, via via, si intrecciano ad echi e richiami degli ottoni, creando un'esile e ammaliante polifonia/armonia fatta da suoni concentrati e chimerici che vagano in un tempo sospeso che attrae a sé, come la vera bellezza e come la morte.
 
Cercare di capire cosa succede nel cervello e nell'interiorità, quando si è al lavoro, è un enigma che Coral tenta di risolvere proprio attraverso la composizione musicale. Scrive per conoscere e trasformare il conosciuto. Un atto strettamente privato, solitario, che nasce da intuizioni improvvise derivate da continue riflessioni nei lunghi periodi in cui non scrive nulla, durante le quali si esauriscono tutte le operazioni di scarto e cancellazioni di possibili idee da concretizzare. Solo allora avviene qualcosa di imprevedibile e incontrollabile. Gli impulsi, lo specchio dell'incontro con il Sé, vengono canalizzati da un evento che ci costringe ad agire in una specie di trance, ascoltando la voce interiore. E' la visita, come sostiene Maeterlinck nel Il grande segreto, dell'Ospite non invitato. E' l'"Uomo di Porlock", il seccatore inatteso che, come scrive Fernando Pessoa, essendo perennemente sconosciuto, pur essendo noi stessi, dobbiamo ricevere per nostra debolezza, fra l'inizio e la fine di una poesia, che non permettiamo a noi stessi di vedere scritta. E' lui la soror mystica, il suggeritore di tutto, anche della tecnica di cui ha bisogno l'Opera per essere costruita, la quale è solo un frammento di ciò che, in realtà, non sappiamo cosa sia. L'Ospite, lo ha scoperto Coral, è tutto ciò che è stato rifiutato dall'io, che occupa viscere e cuore ma che la mente ha rimosso, ed è proprio la vita di ciò ch'è stato tolto di mezzo dal controllo razionale che compare nella musica di Coral.
 
Per molti anni, Coral ha pensato e creduto che molti compositori definiti "storici" e riconosciuti di fama internazionale, fossero gli unici modelli da seguire, i depositari della verità. Ha incontrato anche personalmente alcuni di questi (fondamentale è stato il suo incontro con Donatoni). Si ricredette quando, grazie anche alla sua attività di organizzatore di un festival di musica contemporanea a Trieste, ebbe modo di conoscere "altri" compositori, di grandissima sensibilità e valore, spesso poco noti o del tutto sconosciuti (spesso provenienti dall'ex-Jugoslavia). Quelli che se ne stanno in disparte dalla feroce politica del mondo. L'industria culturale, (in realtà un ristretto circolo chiuso in mano a personaggi autorizzatisi a decidere su tutto), che confeziona, inventa, protegge e propone i propri prodotti anche nella musica contemporanea, ha creato (e continua a creare) alcune sopra-valutazioni. Se qualcuno, fuori dal coro, come ha fatto Coral, si arrischia a denunciarle, viene immediatamente zittito. Difatti i grandi maestri del secondo Novecento sono pochissimi. Sono quelli che, nella loro opera e ciascuno a loro modo, hanno capito la "difficoltà del comporre", il che significa rendersi conto della drammatica difficoltà, per l'Uomo, di trovare ancora possibili parole a dirsi, dopo le tragiche esperienze del XX secolo. Il pensiero contemporaneo, e quindi anche la musica, non può sottrarsi ad essere il testimone della propria epoca, con le sue contraddizioni e le sue laceranti inquietudini. Tutto quanto è stato detto, nell'Arte, nel secondo Novecento, eludendo questa "Testimonianza", è effimero passatempo, divertimento, gioco, intrattenimento, narcisismo, operetta viennese.
 
L'esigenza primaria e naturale per un compositore è proprio quella di uscire dalle convenzioni, da quanto già acquisito, dall'universo comune. E' una condizione imprescindibile per chi cerca, s'interroga, esplora e inventa. In una società sempre più intossicata da condizionamenti di ogni tipo, il compositore o si adegua o si rifugia nell'isolamento dell'utopia. Non è una questione di ricerca a tutti i costi dell'eccentricità, che presume un riconoscimento e appagamento, ma, al contrario, una consapevole accettazione del rischio di una quasi certa esclusione e emarginazione. Il curriculum di Coral ci dice di un compositore attivo anche a livello organizzativo ed eseguito, ma non è questo il punto, la questione dell'originalità e della sincerità sta dentro l'uomo e la creatività e la singolarità di Coral sta nel silenzio abitato del proprio Sé.
 
 Quando si riesce a costruire un'isola interiore che sta nel mondo, ma è lontana dal rumore del mondo, allora non si ha più bisogno di ulteriori spazi vitali e ci si appropria della dignità morale e della libertà creativa. Si giunge alla fase bianca nella quale anche l'interesse per le esecuzioni delle proprie opere, o la pubblicazione di un proprio libro, passa in secondo piano. Thomas Mann ha illustrato in modo mirabile l'autoriduzione a riccio, descrivendo, nel suo Der Erwählte, le vicende della diversità di Gregorio che da peccatore incestuoso, eremita per diciassette anni su una roccia solitaria, viene chiamato a Roma come papa. E' il tema di Gesta, la musica per marionette composta da Adrian Leverkühn. La musica non può che passare dalle ossessioni del suo Autore narrante/narrato, prima di diventare universale. E' così che si rimane affetti dalla musica di Coral, nella quale troviamo tracce del mondo, di noi.

Nel libro L'arte innocente, Pierluigi Basso, dopo aver dedicato il saggio a Renzo Cresti, scrive che "Per Coral bisogna innanzi tutto dissolvere il brusio, i cliclé che incrostano la tela, bruciare le proprie bibilioteche; non si dà come possibile che un pensiero dell'attraversamento (della tradizione, innanzi tutto). In tale attraversamento la parola propria è già d'altri, è compromessa irrimediabilmente: non si può bruciare l'ombra, né separarsene. Per il compositore triestino non risulta risolutivo nemmemo affidarsi ai giochi d'ombre, al lavoro sui materiali, alla loro purificazione rituale o estinzione, l'ombra continua a essere autoascritta, come se la tensione fra sé e la cultura musicale non potesse che restare che l'unica interrogazione valida, interrogazione della musica mitteleuropea." Moreno Andreatta pone l'accento sul disagio, "un disagio che può spingere l'immaginazione e la tecnica compositiva verso territori nei quali centrale diviene la componente esoterica e simbolica (come nell'opera Mr. Hyde)". Paola Ciarlantini, che dedica il suo saggio "A Renzo, l'Alchimista", scrive di Coral: "dall'analisi degli scritti e dall'interviste dell'autore emerge nettamente l'attenzione costante ed esistenzialmente necessaria al percorso interiore dell'uomo, espresso attraverso contenuti-simbolo, quali la Maschera, lo Specchio (o il Doppio), il Viaggio, la Luna (il rapporto col testo), il Numero (il 2, il 3, il quadrato) cui corrispondono esigenza di purificazione e trasfigurazione, ricerca spasmodica di verginità, come unica possibilità di provare emozioni autentiche, e di superamento della Soggettività, mediante autofagia."
 
 
 
Da Renzo Cresti, L'arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004.
 
 

A Monika Verzar Coral

 

http://www.giampaolocoral.org/



Der Musikologe Renzo Cresti drückt sich über Coral folgendermassen aus: "Die Musik Corals ist in erster Linie Stimmung und drückt eine seelische Verfassung aus. Seine Tonerzählung ist nicht eine Beschreibung einer Geschichte, sondern ein Lebenszeugnis, insbesondere eine psychische Energie, eine Art angewandte Psychoanalyse. Seine Massstäbe sind nichtformal, sondern symbolisch zu verstehen. Die polyphone Struktur entspricht dem verknüpften Gewebe des „Es“, verschlungen in oft unsichtbaren feinen Fäden. Die in sich gekehrte, sozusagen nach innen ausgedehnte Melodie, vertont die Qualen einer unruhigen Seele."

(Dal programma di sala dello Schoenberg Center di Vienna)

 

Renzo Cresti intervista Giampaolo Coral:

R. C. Qual è il tuo rapporto con la tradizione culturale in genere e specificatamente con la storia della musica?
G. C. La Scuola di Vienna e in particolare Arnold Schönberg (con la sua musica e con i suoi scritti) hanno lasciato un segno indelebile nella musica che ho scritto. La mia tradizione culturale dovrebbe quindi essere quella che comunemente viene definita mitteleuropea. Mi sono spesso interrogato sul significato profondo di questa “appartenenza”, concludendo che questo termine è un superficiale e stereotipo cliché, un localismo sul quale molti intellettuali italiani hanno vissuto (e vivono) di rendita. Contiene inoltre un virus molto reazionario. Permette a chi non ha un’identità culturale di consolarsi con nostalgie del passato. Oggi la citazione, il rifarsi alla memoria, diventa il mezzo saccente di fare letteratura. L’osservazione di ciò che sta oltre il proprio naso è scomoda e non permette di soddisfare il proprio bisogno di originalità. L’orticello diviene il centro del mondo e si raccontano storie che avvengono in questo spazio mentale ristretto. Alfred Kubin, già nel 1908, con il suo romanzo fantastico Die andere Seite, aveva descritto questo Regno del Sogno separato dal mondo circostante, ma destinato alla disintegrazione. Nel 1997 ho composto una psico-musica (Demoni e fantasmi notturni della città di Perla) proprio su questo testo del visionario pittore austriaco. Per fortuna la musica vive in uno spazio e tempo diverso. Per un musicista l’eredità mitteleuropea si è conclusa con Darmstadt. L’esperienza cagiana ci ha insegnato inoltre che il mondo musicale è più ampio di quello che sembrava. Ho sempre cercato di osservare il mondo con questa visione, mi considero perciò un apolide culturale.

R. C. Qual è per te la funzione dell’intervallo?
G. C. La relazione – combinazione tra intervalli, come metodo costruttivo formale, è stata fondamentale per la musica che ho scritto in un periodo in cui indagavo, molto razionalmente, alcuni rapporti tra Soggetto ed Oggetto. Dovevo liberarmi, per quanto sia possibile farlo, dalle scorie della mia soggettività. Cercai di concretizzare questo processo non attraverso la casualità cagiana ma con la struttura. Vedevo in essa la cosiddetta forma pura che pur appartenendo sempre al Soggetto ne riduceva e purificava l’immagine, proiettandola solamente come estremo riflesso dell’ultimo riverbero di specchi, un lontanissimo eco. Questa mia esperienza “post – weberniana”, che culminò nella composizione della mia Seconda sonata per pianoforte (1979), sfumò gradualmente, naturalmente, quando mi resi conto che non era possibile dissociarsi da ciò che non si conosce e, nel mio caso, io non conoscevo me stesso. In quella musica non c’era dunque non solo l’autore ma neppure alcun personaggio. Cercai allora di capire chi sono. Si trattava di stendersi sul lettino dello psicanalista e auto- confrontarsi con l’Ombra. Nel percorso a ritroso (azione assai diversa dal consueto affidarsi alla memoria) dovevo entrare nella caverna e cercare la materia prima, bruciando la mia biblioteca. Solo allora ho trovato quella verginità che è emozione, fonte principale della presa di coscienza, senza la quale non avviene alcuna trasformazione e neppure creazione.

R. C. Vuoi provare a ridefinire i parametri musicali: melodia, armonia, polifonia, ritmo, timbro, dinamiche, altro.
G. C. Nel XX secolo tutti questi parametri della musica hanno subito una saturazione, una specie di putrefazione alchemica. Ciò è avvenuto anche alla fine del dicianovesimo secolo, con Richard Wagner. Dopo questa fase (dissoluzione) si sono aperti nuovi orizzonti (rigenerazione), una nuova terra fertile. Ovviamente questo passaggio deve essere compreso e vissuto dall’artista. Quando avviene la trasformazione di stato, il nuovo ha conoscenza del vecchio e non può più ritornarvi. Ciascun elemento ridiventa simile al tubetto di colore, intatto, per un pittore. Poi si deve osservare attentamente la nuova mescolanza (coagulazione) e l’insieme del risultato. Si capirà subito se l’opera deriva da quella operazione alchemica oppure diventerà “post - moderna” per un assai difficile e puro miracolo divino.

R. C. Quali sono i tuoi procedimenti mentali in genere? E quali le tecniche utilizzate per costruire un pezzo?
G. C. Potrò dare una risposta sufficientemente esaustiva a questa domanda solo quando avrò concluso il personale processo d’individuazione. Sino ad oggi vivo in una specie di alterazione febbrile che, con il tempo, si dovrà lentamente normalizzare. Cercare di capire cosa succede nel mio cervello e nella mia interiorità quando lavoro è un enigma che tento di risolvere proprio attraverso la composizione musicale. Scrivo per conoscere e trasformare il conosciuto. Un atto strettamente privato, solitario, che nasce da intuizioni improvvise derivate da continue riflessioni nei lunghi periodi in cui non scrivo nulla, durante le quali si esauriscono tutte le operazioni di scarto e cancellazioni di possibili idee da concretizzare. Solo allora avviene qualcosa di imprevedibile e incontrollabile. Gli impulsi, lo specchio dell’incontro con il sé, vengono canalizzati da un evento che ci costringe ad agire in una specie di trance, ascoltando la voce interiore. E’ la visita, come sostiene Maeterlinck nel Il grande segreto, dell’ospite non invitato. E’ l’”Uomo di Porlock”, il seccatore inatteso che, come scrive Fernando Pessoa, essendo perennemente sconosciuto, pur essendo noi stessi, dobbiamo ricevere per nostra debolezza, fra l’inizio e la fine di una poesia, che non permettiamo a noi stessi di vedere scritta. E’ lui la soror mystica, il suggeritore di tutto, anche della tecnica di cui ha bisogno l’opera per essere costruita, che è solo un frammento di ciò che, in realtà, non sappiamo cosa sia.

R. C. Come ti situi in relazione alle strade maestre del secondo Novecento e quali autori (storici o viventi) senti più vicini alla tua sensibilità e al tuo linguaggio? Hai rapporti di lavoro con altri compositori?
G. C. Per molti anni ho pensato e creduto che molti compositori definiti “storici” e riconosciuti di fama internazionale, fossero gli unici modelli da seguire, i depositari della verità. Ho incontrato anche personalmente alcuni di questi. Mi ricredetti quando, grazie anche alla mia attività di organizzatore di un festival di musica contemporanea, ebbi modo di conoscere “altri” compositori, di grandissima sensibilità e valore, spesso poco noti o del tutto sconosciuti. 
Quelli che se ne stanno in disparte. L’industria culturale, (in realtà un ristretto circolo chiuso in mano a personaggi auto autorizzatisi a decidere su tutto), che confeziona, inventa, protegge e propone i propri prodotti anche nella musica contemporanea, ha creato (e continua a creare) alcune sopra- valutazioni che dovrebbero essere smascherate. Se qualcuno, fuori dal coro, si arrischia a denunciarle, viene immediatamente zittito. 
Penso che i grandi maestri del secondo Novecento siano pochissimi. Sono quelli che, nella loro opera e ciascuno a loro modo, hanno capito la “difficoltà del comporre”, il ché significa rendersi conto della drammatica difficoltà, per l’Uomo, di trovare ancora possibili parole a dirsi, dopo le tragiche esperienze del XX secolo, a cominciare dall’Olocausto. Il pensiero contemporaneo, e quindi anche la musica, non può sottrarsi ad essere il testimone della propria epoca, con le sue contraddizioni e le sue laceranti inquietudini. Tutto quanto è stato detto, nell’Arte, nel secondo Novecento, eludendo questa Testimonianza, è effimero passatempo, divertimento, gioco, intrattenimento, narcisismo, mania di persecuzione, operetta viennese.

R. C. Qual è il tuo rapporto con la letteratura?
G. C. La letteratura e la pittura hanno avuto un ruolo importantissimo nella mia produzione musicale. Alcuni testi letti da giovanissimo come la biografia di Van Gogh di Irving Stone o quella su Beethoven e Tolstoi di Romain Rolland, credo siano il rizoma psicologico del mio fare artistico. Più tardi ho scoperto alcuni “mistici” e “ermetici” (Jakob Böhme, Emanuel Swedenborg, Michael Maier….) che mi hanno aperto un mondo di saggezza che ancora oggi cerco di approfondire. La figura di Gregorio, descritto da Thomas Mann nel L’Eletto, e quella di Adrian Leverkühn, per esempio, mi hanno insegnato molte cose e sono sempre presenti nel mio percorso compositivo. Anche l’esperienza che ho avuto per dieci anni nel teatro di prosa (assolutamente nulla sul piano musicale in quanto solo artigianato, si trattava infatti, nella maggior parte dei casi, di ricostruire delle musiche secondo l’epoca della rappresentazione) mi ha arricchito sul piano culturale, mi ha permesso di conoscere approfonditamente il teatro di Pasolini, Hofmannsthal, Büchner, Kleist, Wedekind, Goldoni, Havel e tanti altri.
Devo dire che il rapporto con il testo è stato molte volte assai conflittuale specie nel periodo in cui cercavo di risolvere alcuni problemi personali, come ha detto Franco Donatoni, sulla difficoltà del comporre, sul “come” e “perché” fare, sulla distinzione tra musica “pura” e “impura” e sul rapporto tra Soggetto e Oggetto. 
Sino ad oggi non credo di essere riuscito a trovare una soluzione generale, forse ho anche abbandonato il problema e lascio che ciò che mi viene suggerito venga scritto in (quasi) piena libertà. Molti quadri (di Paul Klee, di Arnold Böcklin, di Marc Chagall, di Alfred Kubin) e, in anni recenti, alcune ricerche sul processo veglia-sonno-sogno (Gérard de Nerval-René Daumal) mi hanno letteralmente dettato la composizione musicale. 
Contrariamente ai libri di letteratura, che leggo ogni giorno, con la poesia ho un contatto molto egoistico. Tutto è condizionato dal mio stato d’animo. Allora cerco di trovare conforto in autori che presumo abbiano avuto una visione del mondo vicino alla mia (Georg Trakl, William Blake, Fernando Pessoa...). 

R. C. Nell’innegabile omologazione generale, com’è possibile trovare spazi vitali per l’indipendenza e il libero pensiero?
G. C. L’esigenza primaria e naturale per un compositore è proprio quella di uscire dalle convenzioni, da quanto già acquisito, dall’universo comune. E’ una condizione imprescindibile per chi cerca, s’interroga, esplora e inventa. In una società sempre più intossicata da condizionamenti di ogni tipo, il compositore o si adegua o si rifugia nell’isolamento dell’utopia. Non è una questione di ricerca a tutti i costi dell’eccentricità, che presume un riconoscimento e appagamento, ma, al contrario, una consapevole accettazione del rischio di una quasi certa esclusione e emarginazione. 
Quando si riesce a costruire un’isola interiore che sta nel mondo, ma è lontana dal rumore del mondo, allora non si ha più bisogno di ulteriori spazi vitali e ci si appropria della dignità morale e della libertà creativa. Si giunge alla fase bianca nella quale anche l’interesse per le esecuzioni delle proprie opere, o la pubblicazione di un proprio libro, passa in secondo piano. Thomas Mann ha illustrato in modo mirabile l’autoriduzione a riccio, descrivendo, nel suo Der Erwählte, le vicende della diversità di Gregorio che da peccatore incestuoso, eremita per diciassette anni su una roccia solitaria, viene chiamato a Roma come papa. E’ il tema di Gesta, la musica per marionette composta da Adrian Leverkühn.

Testimonianza originale.

 



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