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Gianvincenzo Cresta, con intervista
La struttura che canta
 
 
 
Da quando Gianvincenzo Cresta (Avellino 1968) mi invitò per consegnare un Premio alla carriera di Mario Cesa, siamo diventati amici veri (anche con Mario). Per me è una gioia scendere nell'amatissimo Sud, nell'incredibile Napoli e nella placida Avellino, dove la qualità della vita è assai più alta che in tante città del famigerato Nord. Insieme a Mario Cesa, Cresta è riuscito a ideare (dal 1997) e ben organizzare una delle Rassegna più vitali del panorama della musica contemporanea, non solo italiana, "Musica contemporanea in Irpina", dove ho avuto l'onore di presenziare ogni anno. Insieme abbiamo anche realizzato libri e cd, cose importanti e durature. La lucida intelligenza, abbinata a un serio lavoro sulle note e a una cultura ampia e profonda, rende il lavoro di Gianvincenzo molto interessante, ed io ho la grande fortuna di porterlo seguire da vicino. Oltre a questa esplicita ed esplicitata stima, ho per Gianvincenzo un affetto vero. E' uno dei personaggi con i quali lavoro meglio e questo, probabilmente, sta anche a significare che c'è un modo di vedere e di realizzare le cose assai simile fra noi.
 
Il senso della musica di Cresta sta nelle corrispondences con i colori, nella sinestesia dell'esperienza sonora con quella visiva: dobbiamo apprestarci a un ascolto colorato. Il colore tradotto in suono: le strutture musicali sono omologhe ad altre, come quelle dei colori, o della realtà o del vissuto, in tale rapporto di omologia si afferma l'intreccio suono/colore/vita. Le corrispondenze sono i luoghi simbolici della comunicazione, nei quali si rinnova l'aspirazione alla totalità del linguaggio. In questo ideale appare chiara la voglia d'espressione, coinvolgente anche a dispetto della ratio costruttivistica. L'intelligenza è al servizio della partecipazione.
 
In Cresta sembra quasi che la grammatica generativa delle sue composizioni sia fatta sull'intreccio delle correlazioni espressive, giocate sulle infinite sfumature del colore, più che su piani formali autonomi, è una grammatica appellativa, in quanto suscita sempre forti impressioni/espressioni all'ascolto. Da questa personalissima grammatica (che sceglie un vocabolario sonoro assai ridotto e, proprio per questo, molto coeso e pregnante) scaturisce un linguaggio che vuole comunicare, non banalmente raccontando una storia, ma appunto attraverso i colori che facilmente si tramutano in toni e sfumature espressive. Nessuna banale descrizione, ma messa in moto di affinità e similitudini. Il rapporto fra mimesis e costruzione si svolge nella ricerca delle increspature di colore. Vi è una sorta di figura timbrica che è contro ogni figuratività descrittiva, la figura/suono/colore nasce dalla progettualità, ma è disegnata con delicatezza, tanto da renderla impalpabile, e con la funzione evocativa. E' un gesto discreto e potente a un tempo. Come se il disegno tracciasse la propria trascendenza. E' un segno che chiama in vita somiglianze, che stanno in bilico fra presenza (il loro emergere) e assenza (il loro ritrarsi).
 
Il criterio di trasformazione delle immagini segue un intuito davvero sicuro, ma è debitore anche di una geometria che rende i mircro-mutamenti delle figure assolutamente calcolati: ogni spostamento dei suoni da una sorta di recto tono di base modifica la forma generale (ch'è fissata in studi preparatori). I segni di Cresta sono stilizzati, ricordano una specie di silhouette molto ornamentata, oppure certi tappeti orientali dove la figura non è in realtà importante in sé, per quello che rappresenta, ma è il trionfo della decorazione. Si potrebbe dire che Cresta lavora sui colori complementari a una sorta di corda di recita e con questi riempie lo spazio sonoro, così il microcosmo dei colori complementari s'inserisce e completa le figure maggiori, infine approdando alla forma conclusa.
 
La forma è per Cresta spazio da colorare. Per colore, per colore intende il chiaro-scuro derivante da processi di diradamento o intensificazione del materiale (come nel contrappunto di masse per esempio). Un solo suono ha infinite sfumature di colore. Le altezze vengono vissute come timbro. I colori chiari derivano da un processo di diradamento, mentre quelli scuri da un svolgimento in intensificazione delle linee polifoniche. Similarmente lo spazio viene inteso come vuoto o incorporeo oppure come pieno e concreto.
 
Costruire dal poco: che cos'è il poco da cui Cresta parte se non il balenare della memoria involontaria? Proprio nello spaesamento del balenare riesce a cogliere i suoni di "un'altra esperienza" (nel senso di Proust), diversa da quella abitudinaria. Poi scatta la bravura nel sistemare questi suoni/immagini/colori, nel sapere ciò che occorre all'operare, un'abilità che deve realizzare un tempo ritrovato, non contiguo in linea retta, ma disomogeneo e sconesso, differente e inedito. Nel metabolizzare gli scarti e i balenamenti sta l'interesse della progettualità.
 
Quando, dopo la crisi, nella terra desolata di Eliot, si ha poco, dobbiamo costruire con questo poco. E non è detto che sia uno svantaggio, anzi, come dimostra Cresta, è proprio nel piccolo che possiamo intravedere il massimo, in ciò ch'è succinto e breve leggiamo - addirittura - il poema della nostra epoca! E' per questo che il silenzio non viene assolutizzato, perché tacere significa anche non esprimere pensieri, mentre a Cresta interessa molto comunicare le proprie riflessioni, per agire nel Mondo: al contrario di Gianfranco Pernaiachi, che aspira alla purezza incondizionata della quiete, Cresta aspira a un'utopia di un Mondo senza silenzi, dove ogni uomo dialoga con l'altro, serenamente e con equilibrio. E' quella di Cresta una rinnovata militanza artistica, nella quale l'arte viene fatta specchiare nella "fierezza della vita" (come diceva Baudelaire).
 
Cresta sa bene di vivere in un tempo di crisi (del Mondo prima ancora che del linguaggio), ma - ben lungi dal fuggire - vuole costruire un altro sapere, più diretto e onesto, basato su un coinvolgimento dell'affezione, che rende pulsante la costruzione di un nuovo rapporto con l'orizzonte di senso. L'opera di Cresta diventa un diverso tempo del dicibile, non si chiude nel grande silenzio di Zarathustra (quel silenzio estremo che attira Pernaiachi), ma affronta la battaglia (storica) con nuove domande e nuove risposte a nuovi limiti e a nuovi bisogni: solo accettando fino in fondo il tempo della precarietà, Cresta (come pure Coral) si pone nella giusta condizione di mutare radicalmente "il tempo della miseria". Con razionalità analitica (come in Putignano), cerca di tramutare i conflitti prodotti dalla crisi in linguaggio, solo così l'arte diventa il simbolo pieno del nostro esserci. Una volta scoperto che la distruzione di un ordine ne produce un altro (più grande o più piccolo, meglio o peggio organizzato, non importa), a Cresta si dischiudono nuove possibilità, minute ma preziose.
 
"Canta l'angelo il mondo, non l'indicibile", scrive Rilke nelle sue Elegie duinesi, e Cresta (differentemente da Nicola Cisternino) fa come l'angelo: non ignora l'indicibile ma lo aspetta al varco della razionalità, attraversa la crisi, supera lo spavento dall'essere "spaesati, fuori dell'antica casa del linguaggio" (Benjamin), resiste all'abisso e al canto delle sirene e cerca un differente senso in ciò che si presenta come negativo (non vi si immerge, come il primo Mencherini), ma dal groviglio di segni tenta un nuovo ordine, una nuova ragione critica. Da un punto di vista della costruzione intervallare, le altezze vengono funzionalizzate al colore e in tutto il brano ruotano frammenti che generano sottili percorsi timbrico-dinamici, fino alla soglia del silenzio (limite mai oltrepassato) o di una sottile luce, come quella della scia di una stella, a cui allude il titolo di una sua composizione.
 
E i suoni, in fondo, sono proprio come comete che strisciano lo spazio, lasciando il segno di un movimento, trasfigurando il colore del cielo e indicandoci la via della comunicazione. Nella composizione, anche le figure ritmiche di base si alternano e si collegano in funzione timbrica, da qui anche la grande attenzione alla dinamica e ai modi di attacco. Delicatezze timbrico-dinamiche creano un impasto sonoro leggero e ricchissimo di micro-elementi che sfumano l'uno nell'altro, in un elegante gioco d'incastri colorati; i suoni si con-pongono come piccoli pezzi di un caleidoscopio, formando immagini fantasiose, eppur perfettamente pensate e costruite. Debussy o Fauré, Verlaine o Denis, Redon o Gauguin, vengono alla mente alcuni artisti della grande stagione francese fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, dal Simbolismo all'Impressionismo e oltre, ma sono riferimenti errati, valgono solo come luce lontana che illumina il cammino percorso.
 
Le sinergie fra le arti certo, il colore e le micro-trasfigurazioni formali, ma ciò che interessa è soprattutto quell'esigenza di restringere e di semplificare il campo sonoro che arriva fino al punto di costruire una sorta di sciame musicale attorno a una sola nota di lettura, un recto tono che rappresenta l'asse intorno alla quale si dis-pone il pulviscolo colorato. La linea di recita svolge anche la funzione di un filo rosso che aiuta l'ascolto. Così la struttura si rende più disponibile e direttamente intellegibile. Senza rinunciare al progetto e al costrutto, la musica di Cresta è altamente espressiva, proprio in virtù di una costante ricerca dei modi tecnici più idonei alla comunicazione.
 
Il rapporto col passato non avviene seguendo le macerie dello storicismo, né quelle, inservibili, della filologia, piuttosto è l'orizzonte di senso la griglia che setaccia ciò che serve oppure no del passato, in tal modo il passato si riscatta dal rigor mortis archeologico e museografico, diventando fermento vitale. Il tempo che ritorna non è semplicemente usato, ma superato, "sorpassato e vinto" (Benjamin). La storia si colora dei tratti dell'esperienza, non è solo bagaglio culturale, ma diventa pathos. Cresta adotta le più disparate tecniche compositive, antiche e moderne, dal canone in senso lato, al tema. L'accelerazione della storia negli ultimi decenni pone una complessa problematica sulle modalità di filtraggio e di assorbimento. E' come se la storia fosse diventata eccessiva. La memoria deve allora dilatarsi e dimostrarsi ancor più agile nel mettere in opera i setacci, i collegamenti, le espulsioni e i recuperi, per non rimanere schiacciata dall'aumentato peso della storia. Ed è proprio questo ch'è accaduto a tanti musicisti (a quasi tutti quelli che si sono legati, ideologicamente, al neo-romanticismo che, non avendo le capacità per metabolizzare il gran volume dei percorsi storici, si sono placidamente accontentati di riferirsi ai momenti più gratificanti).
 
Il ricorso a stilemi storici implica anche una loro usura, ovvero non è possibile rivolgersi agli stessi aspetti ad infinitum, pena il cadere dentro i meccanismi dell'omologazione. Per questo le allusioni o le citazioni vere e proprie devono, comunque, essere rivolte a elementi sempre differenti, dimostrando una totale autonomia (concettuale) dal modello e una vitale indipendenza (espressiva) dal tipo di musica a cui si fa riferimento. La musica di Cresta è un buon esempio di come si possa costruire una forma dialogante col passato, con la recente Modernità e con il Postmodern, mantenendo sempre in primo piano l'originalità dell'atto creativo, sia dal punto di vista tecnico che espressivo. La Storia può essere maestra di vita se è la Vita a dominarla.
 
L'ascolto multiplo è specchio dell'io plurale, come l'essere profondo dell'uomo è fatto da una stratificazione e da una molteplicità di altri esseri (i nostri segreti compagni di viaggio, silenziosi e scomodi, od ombre interiori), così la musica si affida a spostamenti da uno strato all'altro, da un molteplice all'altro. La stratificazione dei piani bi o tri-dimensionali, la celerità o la rilassatezza ossia l'andamento temporale variegato sono mezzi per esprimere al meglio le pulsioni interiori, con la dovuta profondità e movimento, realizzando dei percorsi dove l'Io va incontro al Sé. Quando l'intimità viene svelata il suono cede il posto al silenzio: è sulla soglia del "tacere" (realizzato grazie a dinamiche soffuse) che Cresta ci racconta la sua verità. Un "tacere" che non cela, ma parla piano, soffusamente, con discrezione, avvedutezza, discernimento, che rimanda, grazie alle sinergie, al cuore caldo della vita.
 
Nelle recentissime prove pare che Cresta abbia superato anche quel minimo schematismo retaggio della formazione strutturalistica, qui non solo il colore manifesta energie mutevoli come la vita, ma il programma di lavoro si fa più elastico concedendosi a un canto più coinvolgente. I calcoli preparatori si lasciano poco, sempre meno, intravedere, perché sono trasfigurati da una plasticità del suono che si (s)porge con delicatezza, una rotondità caleidoscopica spesso sospesa, come indica il titolo del brano Sospesi. La figurazione sonora continua ad essere intesa come una parcellizzazione del colore, di un colore sempre in movimento, ma emerge di più, protesa verso l'ascolto affettivo. Straordinaria è la struttura quando canta!

Nel libro L'arte innocente, che prese corpo proprio da un'idea di Gianvincenzo Cresta elaborata poi in progetto insieme a Renzo Cresti, Moreno Andreatta parla di stratificazione della forma e scrive che si nota in Cresta una profondità formale che "permette di passare con continuità dall'elemento in funzione di sfondo all'elemento musicale avente funzione di figura. /.../ Ne è felice esempio il brano La scia, è una stella nel quale una tavolozza estremamente ridotta di modes de jeu viene esaltata grazie a un processo di stratificazione formale". Paola Ciarlantini mette in evidenza alcune caratteristiche della musica di Cresta: "La semplicità (pochi elementi ritmico-melodici variamente elaborati in ambiti circoscritti); la brevità, a scopo anti-retorico; la suggestione, derivata da un'attenzione particolare per la ricerca timbrica e la dinamica, di cui predilige la gamma dal ppp al p, dosandone le minime sfumature; l'attenzione per l'ascoltatore, a cui fornisce un percorso compositivo costruito su materiali musicali riconsocibili o, comunque, intuibili; la memoria, nel senso che la letteratura storica è sempre operante come sostrato, ma di essa solo utilizzati solo elementi legati alle proprie personali preferenze e/o funzionali alla poetica di ciascun brano."


 
Da Renzo Cresti, L'Arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004.



Dal tormento alla serenità
Note di copertina di Renzo Cresti al cd su Gesualdo e Cresta
Ensemble Solistes XXI direttore Rachid Safir
Disgressione music srl, 2012
Distribuzione www.stradivarius.it 
  
Carlo Gesualdo principe di Venosa realizza l’esperienza più estrema del Manierismo musicale, un’esperienza tecnico-formale profondamente legata a quella biografica, dove le dissonanze e il cromatismo, i violenti contrasti dinamici e le linee melodiche tese sembrano prosciugare la sonorità invece di arricchirla, comunicando uno stato psichico tormentato.
 
Il 1603 fu l’anno dell’avvicinamento alla religione da parte di Gesualdo, il 14 febbraio era morto lo zio Alfonso, arcivescovo di Napoli, scomparsa che colpì profondamente Carlo tanto da cadere in una «grave indispositione», come scrisse a Cesare d’Este, in data 22 febbraio. La salute peggiorò velocemente anche con scompensi psichici, contemporaneamente aumentò una morbosa venerazione per San Carlo e per le reliquie. In quel 1603 pubblicò, a Napoli per la tipografia di Costantino Vitale, i 39 brani polifonici in due libri, intitolati Sacræ Cantiones, su testi penitenziali (il primo libro è a cinque voci, mentre il secondo è a sei e a sette). Gli anni che seguono vedono Carlo sempre più prostrato, avvolto dalla cupa ossessione dei suoi delitti, prostrazione ben espressa nei Responsoria del 1609 e pubblicati nel 1611 assieme al Quinto e al Sesto libro di madrigali. Se nelle Sacræ Cantiones le dissonanze non intaccano l’equilibrio ieratico dello Stylus ecclesisticus voluto dal Concilio di Trento, nei Responsoria il tormento è talmente forte che non può più essere contenuto nelle direttive conciliari, dalle quali Gesualdo si allontana per avvicinarsi alla Seconda pratica monteverdiana e al modo di trattare le dissonanze, in particolare settime e none, senza preparazione musicale ma giustificate dal testo.
 
Nei Responsoria l’andamento sonoro si fa parossistico e anche i procedimenti tecnici si esasperano in un cromatismo visionario che dilata la forma oltre ogni misura classica, come avviene per la pittura allucinata di El Greco. Le ardite procedure polifoniche degli ultimi madrigali vengono riprese per sottolineare la sofferenza di Gesù, un dolore che Carlo prende tutto su di sé. Chiuso nel silenzio e nell’oscurità del suo castello, Carlo, in maniera spontanea eppur sapientissima, scriveva le pagine più belle del Manierismo musicale, capolavori assoluti che, da Stravinskij in avanti, entreranno a far parte del pensiero e della scrittura della musica del Novecento.
 
Il tormento, così fortemente espresso da Gesualdo, in Cresta si risolve in una serenità del vivere che alla storia, all’arte, alla religione guarda come espressione di un senso alto e fidente della vita di ogni essere. Devequt II inizia con una sorta di evocazione, in lontananza, echi distanti della memoria si trasformano in canti velati e sospesi, sono archetipi sonori, tanto più lontani quanto meno compromessi con l’usura quotidiana; la memoria musicale custodisce frammenti provenienti da mondi segreti e silenziosi, schegge che inconsapevolmente sorgono alla coscienza, alla liquidità dell’essere in ascolto. Il rapporto col passato non avviene seguendo il recupero neo romantico della storia né quello inservibile della filologia, è l’orizzonte di senso la griglia che setaccia ciò che serve del passato. Il tempo ritorna non semplicemente usato ma superato, «sorpassato e vinto» (Benjamin). La storia fa capolino nella memoria inconscia. Cresta sa di vivere in un tempo di crisi, per questo la sua opera diventa un diverso tempo del dicibile, mutando radicalmente il tempo della miseria, solo così l’opera diviene il simbolo pieno del nostro esserci. Suoni sorgivi sbocciano dal silenzio come fiori che vengono alla luce non per amare un solo essere ma per abbracciare l’immenso fermento, vengono a noi come foglie al vento, spontanee, per abbandonarsi alla fratellanza delle cose e noi l’accogliamo con stupore, con scossa dolce e amore. È come se il segno tracciasse la propria trascendenza, approdando a una struttura che canta. Il gesto compositivo è ridotto al minimo, a micro tensioni, e la scrittura si avviluppa attorno a piccoli nuclei sonori che stanno dentro una banda dinamica e timbrica altrettanto ristretta. L’attenzione alla morfologia rimane una costante caratteriale, ma la riflessione sul suono è, nelle opere recenti del pur giovane compositore avellinese, assai approfondita, mettendo fin da subito in relazione scrittura e ascolto, realizzando una prismaticità della musica nel suo strutturarsi e nel suo sporgersi verso la comunicazione col pubblico.
 
Dopo il suggestivo inizio dedicato alla viola, appare una voce bisbigliante che si ritrae dal pronunciare le parole, come dice l’originale ebraico il Signore si nasconde in una voce di sottile silenzio (q?l demamah daqqah), un silenzio che contiene tutti i suoni e tutti i significati. Silenzio inteso come forma estrema di dia-logos: un silenzio vissuto non come negativo ma come prolungamento della parola. In questo lavoro il campo di interazione fra silenzio e suono è profondo, in quanto oltre al suono e al silenzio subentra la parola di Iacopone, pregnante, sintetica, parola spezzata che però si autoalimenta nel tentativo di provare comunque ad esprimersi, mettendo in campo tutte le possibilità. Nella laus perennis di Iacopone il silenzio accoglie la voce del Signore, il silenzio è luce; ogni canto non può che acquietarsi nell’ineffabilità del mistero, ch’è estasi d’amore.
 
Su un tappeto di mormorii si ergono canti e contrappunti fra voci e strumenti, stupendamente realizzato. La tessitura musicale s’infittisce e si drammatizza (è il momento più vicino a Gesualdo) e dal groviglio sonoro di voci umane o angelicate esce la viola narrante, che ci racconta di Terra e Cielo; è un gran pezzo strumentale, ben congeniato, intenso e partecipato: Cresta per manifestare lo stupore deve essere stato lui per primo incantato dal suo stesso operare, in una partecipazione estatica, compiendo un atto di osmosi e diventando un essere unico con Iacopone (la capacità di stupirsi avvicina l’artista al bambino che ha la facoltà di possedere le cose). La viola solista è stata scelta per la duttilità timbrica e dinamica ed ha la funzione del commento, contrappunta, si interseca, si contrappone, introduce e collega situazioni diverse, si pone come ulteriore voce, come prolungamento-risonanza o, in altri casi, come sottolineatura di particolari figure. Suoni tenuti annunciano la ripresa del coro, la parola Jesus diventa il cardine su cui si basano e girano le altre parole, con dolcezza e affetto. L’atmosfera poetica è ben costruita e intuita, in uno struggimento che evoca la nostalgia dell’Unbedingte e dell’Urklang. Infine, un lungo bordone e vocalizzi all’acuto sembrano simboleggiare le radici che sprofondano nella terra e la voglia di volare verso gli infiniti spazi, silenziosi come la parola di Dio.
 


Intervista a Gianvincenzo Cresta

 Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neoromanticismo, cosa te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Dopo l’eccessivo rigorismo degli ani ’60, ’70 e parte degli anni ’80, oggi ci sentiamo tutti più liberi. In alcuni casi, ciò ha significato un cedimento dal punto di vista della forza del progetto creativo, in altri casi ha dato vita ad un recupero intelligente del rapporto con la bellezza del suono. La questione dunque non è più da porre in termini di condivisione delle nuove coordinate culturali, ma piuttosto sul come ciascuno di noi le interpreta e le traduce in musica. Molti autori non hanno nulla da dire e per questo hanno bisogno di identificarsi con delle correnti, ma quando il pensiero è forte cambiano i termini del ragionamento e risultano persino superati certi concetti, per quanto fonte dell’attuale dibattito sulla musica.

- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
É una questione complessa ed è difficile affrontarla in poche battute, mi limiterò alla musica di ricerca, se ancora può essere così definita. Viaggio spesso: in Francia, Svizzera, Germania, Spagna e in questi paesi, per ragioni diverse, ha un senso comporre, perché esiste un “sistema musica” che qui da noi manca. L’artista è un attore sociale mentre qui l’obiettivo è l’annientamento: i tagli del 25% al FUS previsti per il 2011, sono un messaggio inequivocabile della politica; che si tutelino i grandi Enti Lirici con contribuzioni ad hoc è un atto dovuto, ma è sostenendo il livello di base e intermedio che si determina una crescita culturale stratificata. Il mercato non è un organismo gestito da un’entità superiore, ma è la sintesi di un contesto sociale che però può e deve essere stimolato con proposte diversificate. É necessario partire dalla formazione scolastica, che resta un punto fermo per determinare consapevolezza, e non va taciuto che nelle scuole medie, all’insegnante di musica si chiede di fare l’animatore di villaggio e non di parlare ai ragazzi della bellezza. La bellezza si ascolta: il Magnificat di Bach non è distante da noi, bisogna imparare ad amarlo. Dovremmo scoprire che la passione per l’arte è avere cura di se stessi, è saper ascoltare i toni della voce di un amico, è imparare a far emergere ciò che sta in profondità e le canzonette e gli spettacolini non bastano. E poi è necessario avere luoghi e occasioni per fare musica insieme. In Germania nei licei esistono le orchestre, in Italia si tagliano persino quelle professionali.

- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Conosco bene i problemi legati all’organizzazione, me ne sono occupato per anni. Ho concluso che i disagi e i disastri derivano dalla impossibilità di programmare con anticipo gli eventi culturali e ciò perché siamo legati agli isterismi della politica: un cambio di assessore può determinare la fine di un progetto o la riduzione di un contributo con le conseguenze che tutto questo comporta. Fare cultura vuol dire dare l’opportunità  all’intero territorio nazionale di confrontarsi con momenti di conoscenza: non è facendo uno o due grandi festival a Milano o Roma che abbiamo risolto il problema. Affrontare la questione dell’organizzazione vuol dire entrare nelle microstorie e questa analisi, palmo dopo palmo dell’Italia, ci restituisce un quadro desolante: una classe dirigente affamata, impiegati amministrativi che si ritagliano uno spazio per arrotondare lo stipendio e che, nel loro piccolo, imitano il politico di riferimento. Manca quasi sempre un’idea di futuro, il senso dello Stato, il lavoro vissuto come servizio. Tutto questo si traduce nell’aggiramento pervicace delle regole, a sud come a nord, sia chiaro, perché la scarsa qualità della classe dirigente è un problema nazionale e non solo del sud. Mi soffermo su questo, perché il dibattito mi pare di stretta attualità. Dividere l’Italia in due è semplicistico, è una favola che non regge. La verità è che a sud vi è una situazione a più tinte: non si può dire che tutto va bene, ma neanche affermare il contrario. Il livello di istruzione ha raggiunto la media europea, v’è una capacità creativa formidabile che è un’opportunità per l’intero paese e non un problema. Una classe dirigente di qualità sarebbe in grado di sostenere ciò che funziona e limitare ciò che non va. Questo discorso è di carattere generale, ma vale anche per la situazione musicale italiana.

- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Credo che non ci sia dicotomia tra comunicazione e ricerca, il superamento della questione sta nel ricercare con autenticità. Quando scrivo inseguo me stesso, mi attraverso, tra rigore e fascinazione, tra addizione e sottrazione come processi tipici dell’atto creativo, e sento di essere pressato tra l’urgenza del dire e la ricerca della forza del come. Questo essere autenticamente perdenti, avendo lasciato un resto che contava, questa diaspora di se stessi utile a ritrovarsi poi, è ciò che dà alla musica l’energia necessaria per incontrare chi lo voglia, chi si pone all’ascolto, chi ascolta, innanzitutto.

- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio etc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Ho sempre lavorato sulle partiture, dai classici fino alle composizioni dei nostri giorni. Tanto per restare agli autori che hai citato, posso dire che il pensiero noniano mi ha sempre affascinato e Berio mi prende per la forza della sua musicalità. Ai giovani dico sempre che devono fare un percorso di ricerca del sé compositivo. Pensare alla composizione come ad un processo di estrazione. Tutti gli autori sono importanti e vanno studiati, ma nessuno va mitizzato.

- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Si può insegnare ai nostri studenti ad avere un rapporto vivo e diretto col suono, per superare l’idea di composizione come astrazione, come esercizio speculativo fine a se stesso. L’apparato segnico è in luogo di una rappresentazione sonora; attraversare la musica, comprendendola dal di dentro, penetrandone le ragioni profonde, partendo dal segno, appunto, è fondamentale per la didattica della composizione. Oltre ai contenuti tradizionalmente noti (armonia, contrappunto) è necessario lavorare sui problemi di scrittura, di orchestrazione, sulla direzionalità formale. Ad esempio, il rapporto tempo – produzione non è un tema affrontato nella didattica comune: il numero di prove limitato pone dei problemi esecutivi che possono essere risolti, da parte del compositore, già in fase di scrittura, pur senza rinunciare a un pensiero complesso e articolato. I nostri studenti non vanno modellati o, peggio ancora, indottrinati, ma accompagnati, provocati costantemente, nella direzione del rinvenimento del sé compositivo e interpretativo. Scrivere o eseguire, lo dicevo prima, sono processi di estrazione, come è vero che, alle volte, conviene attendere, perché la conoscenza si sveli. Intendo rimarcare la centralità dell’idea, nella quale sistematicità ed empirismo si confrontano serenamente in un dialogo fittissimo

- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Provengo da studi regolari e rigorosi e credo molto nella palestra del contrappunto. Poi, dopo una buona base muscolare, se hai talento saprai darti una direzione e ti sentirai sufficientemente libero per studiare ciò che più ti interessa.

- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
La mia estetica non attinge al variegato mondo della contaminazione, ma non per questo ritengo non perseguibile l’idea dell’abbattimento dei generi. Torno a dire che l’importante è la forza del pensiero compositivo, mi riferisco anche alla capacità del fare e non solo alla profondità. Se attingere da ogni genere vuol dire non scegliere, ritengo questa posizione molto debole. Comporre è sempre decidere da che punto osservare il mondo. La scrittura apre sempre una crisi. Il relativismo in musica spesso è sinonimo di disorientamento, è non sapere dove andare, è provare un po’ tutte le strade senza convinzione.

- Fai uno sguardo auto-critico sulla tua attività recente, come la giudichi?
Ho tanti progetti, alcuni sono stati realizzati, altri sono in via di realizzazione, altri ancora proverò a concretizzarli nei prossimi anni. Voglio dire che mi sento vivo e propositivo e gli stimoli non mancano. Ho viaggiato molto in questi ultimi tre anni e questo mi ha dato l’opportunità di assumere una visione multi-prospettica, mi ha arricchito ponendomi sempre in una condizione di verifica delle mie idee. La possibilità di lavorare con grandi interpreti di altre nazioni e di poter discutere a fondo certe questioni, ma anche le ultime esperienze d’insegnamento in Spagna e Svizzera sono per me l’occasione di riflettere sul ruolo del Mediterraneo nello scenario europeo. Una risposta può venire da qui, se impariamo a dar valore alla nostra identità più che a riferirci a ciò che, in fondo, non ci appartiene.



Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.



Catalogo delle opere
 
Chiostri, per chitarra (1993) 6’S
Sulle rovine, per chitarra (1993) 5’
Immagini desolate, per viola (1993) 8’L
La memoria involontaria, per 9 strumenti (fl, ob, cl sib, fg, sax ten, pf, ch, vl, vlc)(1994) 12’
Come volo di uccello, per 7 strumenti (fl, ob, cl sib, fg, chit. Vl, vlc) (1995) 8’, Raimbow Classic – Ensemble Gentilucci
Explosion and dissolution, per flauto e chitarra (1996) 7'
Meniños de rua - Cinque fogli senza speranza - per pf a quattro mani (1996) 10’
Tra le nubi … frammenti, per quartetto di chitarre (1997) 8’
Il figlio di Nuriyé, foglio d’album per pianoforte (1997)
Camminando, sublimi leggerezze, per 7 strumenti (fl, fl in sol, ob, cl sib, fg, vl, vlc) (1997) 9’
La Voce della pioggia è la mia voce, per chitarra preparata e nastro magnetico (1998) 3’
Crepuscoli in itinere, per flauto (1998) 5’
Archaikós, 5 strumenti (cl sib, vl, v.la, vlc,  pf) (1998) 8’
Ondhsra (Ombra), per due violini (1998) 7’
Apophthegmata, per orchestra d’archi (1998) 7’
Udakám (si diffonde nell’acqua), per violino e pianoforte (1999) 7’K
in-Kumeni, per sassofono soprano (1999) 6’
Ali, per flauto (1999) (8’), Rugginenti Editore 
Respiri, per contrabbasso (1999) 6’
Nelle acque, il riposo, per pianoforte (1999) 10’
La scia: è una stella! Per quartetto d’archi (2000) 9’
Niccolò (Nic 1047) Quartetto Paul Klee
Risonanti echi nel vento, per clarinetto Sib e voce recitante, testo di Mario Luzi (2000) 6’
Suoni per Nazir, per Fl, Cl Sib,Vl, Vc. (2000) 8’
Tracce, per organo (2000) 3’, Ars Publica (Ars 141-003) Mariella Martelli
Riflussi d’acque, per quartetto di sassofoni (2001) 10’
Giungeva per una via discosta(frammenti per la storia di Re Carlo ed Elegast), per sassofono tenore (2001) 6’
Ora l’alba è vicina,per marimba (2001) 6’
Sospesi, Anonimi, diseredati, poeti (versione per fl solo) (2001) 7’
Sospesi, Anonimi, diseredati, poeti, (versione per fl e nastro magnetico) (2001) 7’
Arts (Arts 47702-2) Roberto Fabbriciani – Alvise Vidolin
Kaddish …o del ricordo, per cl Sib (2002) 7’
Coaguli di pura lontananza, per fl e arpa (2002) 7’T
Tracciati di ghiaccio, per fl e ch (2002) 7’D
Del segreto custodito, per cl, vlc e pf (2002) 9’, Edizioni Musicali StradivariusStradivarius (STR 33696) Icarus EnsembleL
L’istante fiorito e azzurro, per orchestra (2003) 20’
Marinai di terraferma, Straniero di troppe lune naufrago di carezze,Testo di Claudia Iandolo, per fl, cl, vl, vlc, pf e voce recitante (2003) 31’, Edizioni Musicali StradivariusStradivarius – Dedalo Ensemble
Nóstos, per chitarra (2003) 7’30’’, Edizioni Tempi Moderni, Tempi Moderni (TM 003) Arturo Tallini
Álgos, per pianoforte e violoncello (2004) 7’, Edizioni Musicali Rai Trade
L’altra riva,Testo di Lina Angioletti, per soprano, voce recitante e pf (2004) 8’, Milanocosa progetti (MLC 001) Margherita Tomasi-Sonia Grandis-Francesca Gemmo
Il pianto levigato, per flauto e orchestra d’archi (2004) 9’
Pure emersioni d’onda, per pianoforte (2005) (9’), Edizioni Musicali Rai Trade
…a novembre…, testo di Umberto Piersanti, per pianoforte e voce recitante (2005), Aliamusica records (AMR-CV-06001)
Debir, il luogo,per orchestra d’archi, flauto e clarinetto (2005) 9’
In cerchio, per sassofono contralto e chitarra (2005) 6’
Spettri di un preludio, per due pianoforti (2006) 9’30”
Exspirare, per soprano e violoncello (2006) 15’, testo di Emilia Bersabea Cirillo, Edizioni Musicali Rai Trade
Devequt,  parole dalle laude di Iacopone da Todi, Nel suo demorare  9’, Possedi posseduta 7’, per ensemble di voci (2007),
Sulla sponda dei sogni, per viola (2008) 13’
A Miriam. Con la punta delle dita…, per orchestra e organo (2008), commissione del Concorso Internazionale di Composizione 2 Agosto
Il pianto levigato II, per flauto e ensemble (Cl Sib; Fg; Cr; 2 vl; V.la; Vlc; Cb), (2008) 10’
La luce tremula della luna, per flauto (2009) 6’
Solchi su pietra, per sassofono contralto ed elettronica (2009)
Elegh dell’incanto, 100 flauti per i 10 anni di Falaut (2009) 10’
Samiel, vento veleno, testo di Marcello Fois, per voce recitante e ensemble (Fl; Cl Sib; 2 V.ni; V.la; Vlc)
(2009) 11’
Gesti da un diario, per chitarra, fagotto e violoncello (2009) 10’
MibReb, per orchestra sinfonica (2009) 1’
Devequt II, parole dalle laude di Iacopone da Todi, No lo dir mai, Nel suo demorare, D’aver lo tuo amore, Possedi posseduta, per ensemble di voci e viola narrante (2009/10) 27’
Trasparenze, per Sassofono contralto e rifrazioni d’ensemble (Fl; Cl Sib; Vl, Vlc; Pf;) (2010) 12’
Monosillabi, per sassofono soprano e voce di soprano (2011), testo di Federico Sanguineti
3 Studi sull’immanenza,  ...a Liszt..., per pianoforte (2011)
Dies Irae, per elettronica (2012) 47’commissione del Festival Sulle Ali della bellezza
In amoroso canto, - ricalchi da Gesualdo - per viola, quartetto d’archi e percussioni (2012) 11’ Commissione di Radio France
 


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