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Franco Mannino, sulla musica da film
Immagini, musica e silenzi nella musica cinematografica
 
Il lavoro del compositore cinematografico si basa su processi di giustapposizione di momenti musicali, funzionali alle scene che mutano e che hanno un labile rapporto  fra loro (un procedimento simile a quello con cui lavorano i Dj): si prendono brevi elementi di partenza, spesso tematici e su ritmi ostinati, ben caratterizzati nel colore e nell’atmosfera, senza dare molta importanza alle qualità del materiale prescelto che non condiziona, come nel caso della musica pura, le procedure compositive che non sono stringenti, che non devono fare i conti con antecedenti e conseguenti, con uno sviluppo e con un ordine formale, anzi, lo svolgimento della musica da film deve essere, appunto per risultare adeguato ai continui e veloci cambiamenti di scena e di clima espressivo, segmentato e fin atomizzato, ma sempre ben riconoscibile negli elementi di base, mai astratti ma concreti nella loro efficacia retorica di sottolineare le scene, di evidenziarne la temperatura emotiva, di dar rilievo a uno sguardo o a un gesto, di marcare un particolare, di ricordare ciò che è avvenuto o di anticipare quello che verrà. Per realizzare questi segnali sonori non si è condizionati dai metodi strutturali usati nella composizione pura, ma dalla risultanza sonora, dalla sua efficacia in relazione all’immagine, a tal fine ogni suono può essere utile, dal rumore a una semplice ripetizione di un tema, di un ritmo o di un colore, da rifermenti a stilemi storici a quelli a musiche di culture diverse, dal jazz al rock etc., è un vero esempio di espansione dei materiali di riferimento e di inclusione, seguendo il principio di integrazione fra la musica e la sua applicazione alla storia e all’immagine.
Come e quanto la musica può intervenire sull’immagine cinematografica? Il come riguarda gli aspetti stilistici, mentre il quanto è una questione di proporzioni. Spesso i musicisti sovrappongono i suoni alle immagini in modo da creare una ridondanza retorica che, se caldamente avvolge lo spettatore/ascoltatore risulta però eccessiva dal punto di vista formale (molti gli esempi, fra cui le musiche di Rustichelli per Germi o quello di Lavagnino), in questi casi il linguaggio rimane legato agli stilemi tardo romantici, crepuscolari, volti spesso verso andamenti melodici (come in Cicognini), altre volte verso il realismo delle immagini (come in Renzo Rossellini).Lo stile romaticheggiante impera, ha in sè la propensione al racconto, sulle tracce del poema sinfonico, tende a riempire lo schermo con dolce esuberanza, all'opposto la musica di avanguardia (per esempio quella di Philip Glass) s’impone di per sè, ha una ridondanza controllata e, a volte, crea una non stretta corrispondenza fra suoni e immagini.

«Fra le capacità del buon compositore di musiche per film» - dice Giorgio Gaslini - «Metterei quella di orchestratore, la capacità di ben bilanciare i timbri, i colori dei suoni che si devono abbinare a quelli delle immagini. È altrettanto importante possedere una buona vena melodica, inventare temi che colpiscono subito l'immaginario dell’ascoltatore» (manoscritto). Questa dichiarazione di Gaslini, che ha scritto 43 colonne sonore (fra cui quella de La notte di Antonioni, con la quale vinse il Premio Nastro d’argento), mette a fuoco come il compositore che si accinge a scrivere una colonna sonora debba possedere alcune specifiche qualità che non sempre sono scontate, soprattutto nell'ambito della musica colta che tende a sopravvalutare l’aspetto formale su quello espressivo (non è un caso che siano pochi i musicisti della musica classica contemporanea che si dedicano al cinema, anche se, negli ultimi anni, il panorama sta un po’ cambiando). La musica per film deve essere funzionale e non autoreferenziale.
  
In Italia, il settore accademico (non solo nella musica) continua a essere staccato da quello predominante nel mondo reale, non bastano i pochi dipartimenti di jazz e qualche corso di musica applicata, sorti di recente, a modificare la situazione, ci vogliono idee che possano competere con il mondo multimediale e tecnologico in cui siamo inesorabilmente immersi, volenti o nolenti. In Inghileterra e soprattutto negli Stati Uniti, non vi è distanza tra le varie tipologie di musiche, non c’è mai stata e quindi il concetto di musica è più inclusivo, più dinamico e legato alla produzione, (nella quale gioca in ruolo importante il mecenatismo privato che in Italia, per tante ragioni, non esiste); in questo contesto anche l’artista (non solo il musicista) vive la musica in maniera più diretta e concreta, meno astratta e intellettualizzata, meglio inserito nella molteplicità culturale del sociale (anche quella che, dal punto di vista accademico, risulta la più bassa e volgare). «In America», - scrive Fabrizio De Rossi Re - «Lo stesso compositore può scrivere nello stesso periodo la musica per uno spot pubblicitario, per l’inaugurazione di una scuola elementare, e ricevere una commissione per un’opera sinfonica da eseguirsi alla Carnegie Hall. Come avviene questo?  Avviene perché è un musicista a tutto tondo, che vive il lavoro della musica con tante competenze diverse e utili! Qui invece no. Nei nostri conservatori queste competenze diverse purtroppo non si acquisiscono e, salvo rarissime eccezioni, non si studiano. Il pubblico americano o inglese, anche di generazioni diverse, è abituato a mettere sullo stesso piano Schönberg e Ray Charles, Stravinskij e Frank Zappa, Händel e Burt Bacharach» (manoscritto), la musica per film ha sofferto di questa situazione, della puzza sotto il naso con cui veniva guardata dalla cultura elitaria, schiacciata anche dal peso della storia (della musica) e dello storicismo che, in Italia, è ancora l’impostazione predominante nelle analisi dei fatti, ma ha sofferto pure dell’ignoranza dei produttori (che sulla musica volentieri risparmiavano) e dei registi (legati a una cultura prevalentemente letteraria) nei confronti della musica, rarissimamente competenti e davvero interessati a far compartecipe la colonna sonora alla sceneggiatura del film.

Fellini ebbe a dichiarare, nel 1958, sulla Rivista «Bianco e nero»: «Siccome ho idee abbastanza chiare del film che faccio, in ogni dettaglio, il lavoro con Rota si svolge proprio come collaborazione alla sceneggiatura. Io sto vicino al pianoforte e Nino sta al pianoforte e io gli dico esattamente quello che voglio. Posso dire ch'è fra i musicisti ciematografici il più umile di tutti, perché fa una musica veramente funzionale». In una dichiarazione successiva, Fellini dice addirittura che la sintonia con Rota è talmente forte da avere la sensazione di essere lui a scrivere la colonna sonora. Rota ha, come sottolinea Fellini, quella umiltà indispensabile a mettersi al servizio delle esigenze cinematografiche, il che significa, tecnicamente, essere disponibile a mutare linguaggi e stili seguendo il copione, essere aperto a filtrare immagini e racconti e farli diventare suono. Da questa comprensione e sensibilità verso l’unione del suono con i tempi e le modalità delle immagini, prende corpo l’aderenza dei ritmi, del fraseggio e delle melodie alla storia raccontata dal film, creando un unicum.

Va notata l’attenzione con cui Fellini segue la musica: non dà generiche indicazioni oppure lascia campo libero al musicista, come purtroppo accade per tanti registi, i quali lasciano che sia il compositore a lavorare sul copione perché non saprebbero cosa dirgli essendo non solo ignoranti del fatto musicale ma spesso anche sordi, ahimè.  Fellini non si accontenta di una musica qualsiasi, preconfezionata, che non affonda nell'espressività del film, si siede accanto al suo musicista e, insieme a lui, cerca idee sonore, a volte è lo stesso regista a fornire degli spunti al compositore, come nel caso della Marcia dei gladiatori del musicista cèco Juliu Fucik, un pezzo circense che Fellini si porta in testa e che Rota trasfigura ne Lo scicco bianco (lo stesso tema viene ripreso pure nel valzer che si ascolta nel locale Cha-cha-cha in una scena della Dolce vita).

È interessante volgere l’orecchio a una proposta che proviene dal pianista jazz Enrico Pieranunzi che ha realizzato il progetto Fellini Jazz, in cui si presenta la musica di Rota, che non ha elementi espliciti di tipo jazzistico, ma che nelle mani di Pieranunzi dà stimoli alla creazioni di atmosfere fra il reale e l'immaginario bene riuscite per i film di Fellini.

La musica da film sposa in pieno uno dei presupposti del Postmoderno ossia che non vi è un linguaggio, una forma o uno stile predominante ma che ogni linguaggio è border line, tutto viene attraversato e tutto può servire al caso di rendere funzionale la musica, sta poi all'intesa fra compositore e regista il sistemare al meglio questa funzionalità.

La musica accompagna il film fino dai tempi del cinema muto, quando un pianista o una piccola orchestra sottolinea i momenti espressivi della storia. Si formano anche dei prontuari che raccolgono delle melodie adatte alle diverse situazioni. Importanti musicisti, fra cui Saint-Saens, Milhaud, Honegger, Ibert, Šostakovi?, Eisler, Hindemith, in Italia Pizzetti e Mascagni, scrivono colonne sonore. Dal 1927 si ha la possibilità di sincronizzare l’immagine con la registrazione sonora, inizia così l’affascinante storia della musica per film, parallela, ma anche diversa, da quella della musica dotta, perché richiede una disponibilità particolare a seguire le regole del film, è musica descrittiva e funzionale, dove l’elemento psicologico deve essere affrontato in maniera diretta.

Colonna sonora è lo spazio della pellicola che contiene le informazioni sul suono (la pellicola è infatti divisa in tre parti, quella centrale contiene i fotogrammi dell’immagine, quella a sinistra la banda sonora e quella a destra la perforazione per il trascinamento della pellicola stessa). La musica filmica, come quella per il teatro e la televisione, deve essere idonea a seguire più che una sua costruzione interna, l’andamento ritmico-espressivo delle inquadrature, questo spiega perché solo pochi compositori della musica dotta si rivolgono al cinema, occorre una predisposizione al composito e all’eterogeneo, senza aver paura di mischiare generi alti e bassi, infatti la musica per film può funzionare anche se non bellissima in sé, al contrario una musica bella, ma chiusa nel suo formalismo, può risultare estranea allo svolgimento del film.
I compositori della classica contemporanea non hanno quasi mai scritto musica applicata, poche davvero le eccezioni, e non solo in Italia, come Bruno Maderna autore del commento musicale per La morte ha fatto l’uovo), Valentino Bucchi (si ricorda Banditi a Orgosolo), Luciano Chailly (Luciano, una vita bruciata), Luigi Dallapiccola, Luigi Nono, Luciano Berio, hanno scritto musica per alcuni documentari e pochi altri compositori possono essere citati per la storia della musica da film, quali Labroca, Macchi, Porrino, Turchi, Vandor e, su tutti, il classico Nino Rota e il “jazzista” Giorgio Gaslini (La notte di Antonioni e Profondo rosso di Argento).

I pochi nomi e i pochissimi lavori per la cinematografia dimostrano come sia difficile, se non si ha una forma mentis aperta e duttile e se, soprattutto, non si hanno esperienze di vita, coniugare la ricerca con l'immediatezza, il rigore formale della musica classica col melodismo di pronto impatto; certo non tutte le oltre 350 colonne sonore di Morricone dimostrano efficacia e qualità (quando si scrive così tanto non si può che affidarsi anche a dei modelli realizzati in studio), però quando il Maestro s'impegna, o la fanno impegnare, fin dalla stesura della scenografia, come nel caso di Leone che gli chiedeva di realizzare anticipatamente la musica per poi utilizzarla come guida per le riprese, i risultati sono eccellenti.
Gian Francesco Malipiero è uno dei primi a scrivere, nel 1933, musica per film, Acciaio su scenografia di Pirandello e regia di Ruttmann. Anche Pizzetti, Zandonai, Ghedini, Pick-Mangiagalli, Zafred, Mannino e Petrassi si dedicano al cinema. Ma è con la stagione del neo-realismo che si hanno i primi capolavori, come le musiche di Cicognini per i film di De Sica e come le colonne sonore di Renzo Rossellini per i film del fratello Roberto.

Il caso di Cicognini è interessante, perché si crea una iato fra il suo fluente melodismo e il carattere disadorno dei film di De Sica e Zavattini, c'è da chiedersi quanto la non-corripondenza sia voluta, certo non può essere del tutto inconsapevole, per cui la facile vena musicale viene utilizzata per addolcire, o meglio, per rendere più rotonde le immagini. Al di là del (neo)realismo, si nota, a volte, una volontà di depurare la musica per lasciar parlare la sola immagine, nel silenzio o accompagnata dai rumori del contesto. E' un'esigenza alla purificazione che si è fatta più forte negli ultimi anni e che salvaguardia la forza intrinseca dell'immagine la quale, con una musica eccessiva, rischia di essere edulcorata. Una situazione analoga, pur per motivi opposti, si crea con la musica d'avanguardia (per esempio quella di Philip Glass) che s'impone, a volte prepotentemente, sull'aspetto visivo. Qui non è l'eguaglianza stile romantico = ridondanza ha creare uno squilibrio, ma la pretesa di concentrare l'attenzione sull'aspetto musicale che, per come è costruito e per come si presenta, costituisce il vero filo rosso della storia, l'immagine gli diventa di supporto.
Sulla plasticità dell’immagine, rispettando la sua purezza e naturalezza, senza forzarla in senso zuccheroso o rude, il silenzio gioca un ruolo decisivo. Silenzio in senso stretto oppure rarefazione sonora e/o dinamiche in pianissimo. Alcuni musicisti hanno effettivamente realizzato il difficile equilibrio, come Roman Vlad (per esempio nella bellissima musica di Domenica d'agosto di Emmer), Mario Zafred (il rigoroso commento di Achtung banditi di Lizzani), Nino Rota (che ne La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Prova d'orchestra e in altre pellicole realizza un sottile lavoro di integrazione musicale dell'immagine in funzione psicologica), Giovanni Fusco (Cronaca di un amore di Antonioni, ma anche Deserto rosso, in collaborazione con Vittorio Gelmetti che realizza la parte elettronica), Franco Mannino (dalla rielaborazione dei temi donizettiani in Bellissima di Visconti, col quale collaborò anche negli ultimi anni di vita, da Morte a Venezia a L'innocente, alla bella partitura de La provinciale di Soldati).
 
In che rapporto la musica deve intervenire sull'immagine, come e quanto? Il come riguarda gli aspetti stilistici, mentre il quanto è una questione di proporzioni. Spesso i musicisti sovrappongono i suoni alle immagini, in modo da creare una ridondanza retorica che, se caldamente avvolge lo spettatore/ascoltatore, risulta eccessiva, per esempio le musiche di Carlo Rustichelli per Pietro Germi, o quelle di Francesco Lavagnino. In questi casi lo stile rimane legato a un linguaggio tardo romantico, crepuscolare, a volte molto melodico, come in Alessandro Cicognini, a volte più controllato e condizionato dal realismo delle immagini (pensiamo a Renzo Rossellini). Lo stile romanticheggiante, di solito, seguendo una certa propensione al racconto in musica, sulle tracce del Poema sinfonico, tende a riempire lo schermo con i suoni, si fa esuberante, diventa troppo.
 
Il caso di Cicognini è interessante, perché si crea una iato fra il suo fluente melodismo e il carattere disadorno dei film di De Sica e Zavattini, c'è da chiedersi quanto la non-corripondenza sia voluta, certo non può essere del tutto inconsapevole, per cui la facile vena musicale viene utilizzata per addolcire, o meglio, per rendere più rotonde le immagini. Al di là del (neo)realismo, si nota, a volte, una volontà di depurare la musica per lasciar parlare la sola immagine, nel silenzio o accompagnata dai rumori del contesto. E' un'esigenza alla purificazione che si è fatta più forte negli ultimi anni e che salvaguardia la forza intrinseca dell'immagine la quale, con una musica eccessiva, rischia di essere edulcorata. Una situazione analoga, pur per motivi opposti, si crea con la musica d'avanguardia (per esempio quella di Philip Glass) che s'impone, a volte prepotentemente, sull'aspetto visivo. Qui non è l'eguaglianza stile romantico = ridondanza ha creare uno squilibrio, ma la pretesa di concentrare l'attenzione sull'aspetto musicale che, per come è costruito e per come si presenta, costituisce il vero filo rosso della storia, l'immagine gli diventa di supporto.
 
Sulla plasticità dell'immagine, rispettando la sua purezza e naturalezza, senza forzarla in senso zuccheroso o rude, il silenzio gioca un ruolo decisivo. Silenzio in senso stretto oppure rarefazione sonora e/o dinamiche in pianissimo. Alcuni musicisti hanno effettivamente realizzato il difficile equilibrio, come Roman Vlad (per esempio nella bellissima musica di Domenica d'agosto di Emmer), Mario Zafred (il rigoroso commento di Achtung banditi di Lizzani), Nino Rota (che ne La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, Prova d'orchestra e in altre pellicole realizza un sottile lavoro di integrazione musicale dell'immagine in funzione psicologica), Giovanni Fusco (Cronaca di un amore di Antonioni, ma anche Deserto rosso, in collaborazione con Vittorio Gelmetti che realizza la parte elettronica), Franco Mannino (dalla rielaborazione dei temi donizettiani in Bellissima di Visconti, col quale collaborò anche negli ultimi anni di vita, da Morte a Venezia a L'innocente, alla bella partitura de La provinciale di Soldati).
 
Di Franco Mannino è uscito il libro, Musica per film. Ricordi ed esperienze, Marsilio, Venezia, 2002; si tratta di un racconto delle testimonianze dal set di uno dei più famosi artisti italiani, compositore e direttore delle colonne sonore dei grandi registi. Nato a Palermo nel 1924, nel decennio della generazione dei grandi Maestri italiani èmorto nel 2005) Mannino è stato allievo di Silvestri e Mortari al Conservatorio di Roma e in gioventù ha esercitato l'attività di strumentista, poi, dal 1952, soprattutto la direzione d'orchestra. Anche direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli e dell'Orchestra di Ottawa, Mannino ha composto molta musica orchestrale e da camera, ma la sua produzione maggiore riguarda le opere per il teatro e la musica da film, realizzata con eleganza e con ripetto. Il suo stile eclettico e il gusto composito se lo hanno penalizzato nella ricerca e nella musica pura, lo hanno aiutato nella musica applicata; legato alla tradizione, si esprime con fantasia ed estro e col dovuto equilibrio. Possiede l'indispensabile qualità di orchestratore che, anche secondo Giorgio Gaslini, è uno dei requisiti fondamentali per affrontare il cinema. "Penso che la bella musica possa stare dappertutto, senza patirne.
 
E che, nella maggior parte dei casi, un film perderebbe almeno la metà del suo impatto, senza una colonna sonora: può succedere che molti momenti importanti della nostra vita siano legati ad un motivo, a una melodia, e che la nostra mente, nel riviverli, a certe immagini associ dei suoni, un accompagnamento, una colonna sonora. In fondo, un film è una sequenza di momenti importanti, inseparabili, per lo più, dalla musica che li sottolinea. I due elementi, visivo e sonoro, si adattano l'uno all'altro in modo del tutto naturale". Franco Mannino ha composto musiche per i film per oltre cinquant'anni e, anche grazie ai registi che ha incontrato, l'ha fatto con grande passione. Questo libro ci racconta il suo percorso.
 
 
 
Da Renzo Cresti, Ricordo di Franco Mannino, in Rivista “La linea dell'occhio” (Lucca 2002).



A Silvia Testa



http://www.francomannino.com/



Biografia artistica
Franco Mannino (1924-2005), di origini palermitane, si formò all'Accademia di Santa Cecilia, diplomandosi nel 1940 in pianoforte e nel 1947 in composizione, con Virgilio Mortari. La sua esperienza artistica è quella del musicista a tutto tondo, impegnato come concertista, direttore d'orchestra, organizzatore, trascrittore. Nel 1950 ottenne negli Stati Uniti, come pianista, il Premio Columbus, nel 1956 in Francia il Premio Diaghilew per la migliore novità teatrale dell'anno, l'azione coreografica Mario e il Mago, su soggetto di Luchino Visconti, data al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1958, mentre Menotti teneva a battesimo a Spoleto il Festival dei Due Mondi, Mannino faceva altrettanto a Bergamo, inaugurando il Festival delle Novità. Nel biennio 1969-1970 ottenne la direzione artistica del Teatro S. Carlo di Napoli, nel periodo 1982-1986 fu direttore e consigliere artistico dell'Orchestra del National Arts Center di Ottawa. Con Menotti ha in comune un talento particolarmente versato per il teatro musicale, un'attività indefessa e coerente con se stessa, incurante di mode estetico/stilistiche, l'attenzione verso la promozione della propria opera, una carriera svolta internazionalmente (con Stati Uniti e Canada in posizione preferenziale).

Nel campo dell'opera ha spaziato da lavori composti per soddisfare il grande pubblico, come Vivì (P. Masino e E. Missiroli, Napoli 1957), definito da Roberto Zanetti «fumettone lirico-erotico», ad altri più raffinati, frutto di collaborazione con intellettuali del calibro di Luchino Visconti (Il diavolo in giardino, con F. Sanjust e E. Medioli, Palermo, 1963), Luigi Malerba (La speranza, con E. Visconti, Trieste, 1970) e Andrea Camilleri (Il quadro delle meraviglie, Roma, 1963). La sua vasta attività come direttore d'orchestra ha portato Mannino a dedicare molta attenzione alla composizione strumentale, quantitativamente più presente, nel suo catalogo, rispetto a quella operistico/teatrale. Da segnalare anche la sua non marginale attività di compositore per il cinema, come collaboratore di insigni registi, tra cui Mario Soldati (La provinciale, 1952), John Huston (Il tesoro dell'Africa, 1954) e Luchino Visconti (L'innocente, da D'Annunzio, 1976).



Da http://www.musica.san.beniculturali.it/web/musica/cron-gen/scheda-periodo-gen?p_p_id=56_INSTANCE_rMx7&groupId=10206&articleId=33123&p_p_lifecycle=1&p_p_state=normal&viewMode=normal&articleIdPadre=13172






Renzo Cresti - sito ufficiale