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Angelo Paccagnini, lo scontento cosmico
Un uomo / un musicista indipendente
 
 
 
Non ho purtroppo conosciuto personalmente Angelo Paccagnini, ovviamente avevo sentito la sua musica. Mi ha fatto avvicinare a lui Gabriele Ranica che mi ha passato molti materiali che ho studiato con grande interesse, scoprendo non solo un musicista di spessore (questo era noto) ma anche un uomo rigoroso e legato ai suoi valori (qualità sempre più rare).
 
Oggi, forse più di qualche anno addietro, si capiscono meglio e si apprezzano figure, come quella di Paccagnini (Castano Primo 1930 - 1999), che hanno fatto della loro vita, ancor prima che della loro arte, un cammino fra esodo e avvento, per riprendere alcune suggestioni religiose care al Maestro. Un esodo dai meccanismi della società mercantile per avviarsi verso l'attesa dell'avvento di un mondo migliore: utopia che percorre come un fremito o come nostalgia tutta la vita di Paccagnini. U-topia è un posto che non c'è, ma che potrebbe esistere nel regno del possibile. E' anche l'Utopia delle grandi filosofie sociali, da quella di Platone a quella di Marx, alle quali Paccagnini è stato molto attento e sensibile. "al di là di manifesti ideologici, cari a molti compositori della fine degli anni Sessanta e dell'inizio dei Settanta, la ricerca di Paccagnini, oltre a essere una ricerca musicale rigorosa e tecnicamente efficace, è una ricerca sull'impossibilità della comunicazione tout-court e sulla possibilità di comunicare, l'ultima possibilità, che ha il nostro corpo, e con esso la nostra voce, tramite i segni di insofferenza verso il mondo contemporaneo che esso esprime" (1).
 
Abbiamo davvero necessità di una nuova e laica spiritualità. La tematica della falsa comunicazione e del bisogno di un rinnovato rapporto fra gli uomini è tema centrale nella produzione di Paccagnini. I personaggi protagonisti dell'Opera Le sue ragioni (1959, composizione dal valore storico notevolissimo, essendo il primo lavoro teatrale in ambito post-weberniano) sono delle maschere, "manichini sperduti davanti al baratro dell'incomprensione reciproca" (2).

La musica di Paccagnini sembra fatta di continui naufragi nel mare del molteplice (o della multimedialità), sempre perdendosi e sempre ritrovandosi. E' memoria da naufrago. Paccagnini sembra proprio aspirare, da sopravvissuto alla catastrofe della guerra, all'Utopia di una nuova condizione umana, di una rappacificata coscienza sociale. E' musica utopica la sua, con quella forza che Bloch aveva già individuato nella vera Utopia. L'arte stessa è u-topia, si situa ciò in un luogo che non fa parte del pensiero e del fare quotidiano, ma abita altrove, su una soglia enigmatica dove si decide del sì e del no, al confine fra senso comune e gesto straordinario che, proprio per questa sua eccezionalità, fa eccezione rispetto alle altre discipline e non si lascia facilmente imbrigliare dalle maglie del politicamente corretto. Questo confine fra il senso comune (della storia) e l'essere vocato alla forza utopica dell'arte è la stretta striscia (al confine con le terre fertili) che Paccagnini percorre. Il gesto, così importante in Paccagnini, che costruisce non rimanda solo alla techne ma anche all'episteme, indica qualcosa di ben più ampio e profondo del fare, perché di-svela la struttura, la sostanzia con l'esperire e la apre all'ascolto.
 
In Paccagnini non c'è solo la negazione del perbenismo artistico e del politicamente corretto, nelle sue scelte c'è pure la positività della proposta di una nuova verginità del pensiero, di una purezza del fare, per approdare a un'opera innocente. Un'opera che non fugge dal Mondo, ma lo interroga e interagisce con sana ironia, una lontananza che non significa disimpegno, al contrario, rappresenta la consapevolezza dell'esserci in modo critico. La coscienza critica di Paccagnini nessuno vorrà mettere in dubbio, lui che fu essere umano molto attento al suo prossimo e agli avvenimenti sociali e storici del suo tempo.
 
Niente più della storia della musica elettronica pura è esemplificativo dell'autoreferenzialità della chiusura dentro lo Studio, inteso come mondo; ma anche la musica concreta, che col suo contatto diretto con la quotidianità parrebbe sempre vitale, ha prodotto prove deludenti (almeno fino al 1958-59, quando nello Studio parigino di Schaeffer arrivarono compositori come Xenakis, Luc Ferrari, Phillipot etc.). E' Stockhausen, soprattutto da Mikrofonie I in avanti, che si pone il problema di ravvivare la musica elettronica (nel doppio senso di renderla più interessante nei concerti dal vivo e di esprimerla in maniera meno astratta e più vivace). Un po' diverso è il discorso sullo Studio di fonologia della RAI di Milano, perché sia Maderna sia Berio sia Rognoni (che fu fra i fondatori), avevano chiara, già all'inizio degli anni Cinquanta, la problematica su come sganciare l'elettronica da un'impostazione da laboratorio chimico. Il loro successore Angelo Paccagnini, lo "scontento cosmico" (come ebbe a definirlo Mila), fu uomo impegnato e nostalgico di un mondo migliore mai conosciuto (e forse mai esistito), non a caso ha formato musicisti come Riccardo Sinigaglia, Gaetano Liguori, Riccardo Bianchini e altri che di quell'umanesimo aperto e solidale ne sono ancora oggi dei valenti continuatori. Di Berio, Paccagnini parlerà sempre con grande stima e amicizia.
 
Dopo le prime prove, degli anni fino al 1958, legate a un fulgido razionalismo compositivo, Paccagnini, per trovare l'equilibrio fra l'autoreferenzialità dell'opera e il suo aprirsi a una forma di comunicazione, instaura una dialettica tra posizione ed evento, dialettica interna, in quanto la posizione, l'esserci dell'opera, è già evento, fatto accaduto nel mondo. L'atto del comporre è evento di una fissazione che si apre, consentendo all'opera, a un tempo, di essere e divenire, di stare in sé e di relazionarsi al collettivo, allo sguardo che ti sta di fronte. Il termine "posizione" rimanda all' istante, come etimo latino di "in-stans", stasi in, nella quale l'uomo può scoprirsi nella sua identità che però, a ogni istante, è il cominciamento di un rapporto. Il teatro su nastro di Bivio (1968), può essere una prima prova, da cui partirà una nuova fase compositiva. Se esistenza ed esistente procedono parallelamente, allora l'opera mette in movimento, fin da subito, una relazione con ciò che la eccede, realizzando una epifania del visage altrui. Per questo l'operare di Paccagnini è severo e rigoroso, e l'Opera è plurale e sociale.
 
Paccagnini prende le distanze dalla struttura, non lasciandosi certo andare a un procedere rapsodico, ma bilanciandola con gesti ora improvvisativi ora intimistici, come nella produzione degli anni Ottanta e Novanta. La sua musica resta legata al costruttivismo, ma viene scritta "con grande esuberanza, forza espressiva, fantasia ritmica e grande varietà di figurazioni", come ha scritto Bonaguri (3). In ogni caso, la struttura è - da sempre - in Paccagnini non il simbolo dei meccanismi del capitalismo maturo, ma un modello che, per analogia, rimanda a una collettività in cui l'uomo ragiona con il suo prossimo, è una struttura dolce e comunicativa. Il Maestro s'è sempre preso cura del mondo e degli uomini, del suo mondo e di quello storico (come dimostrano i suoi interessi verso la musica antica), è cià che Ranica chiama "tesi di salvataggio".
 
Le Opere teatrali e radiofoniche di Paccagnini sono una sedimentazione di testi e contesti, narrano attraverso il suono che, non è concetto né sentimento, ma esperienza pulsante, vibrante. Il senso eccede ogni contenuto e ogni portato referenziale, s'incarna nel corpo, batte col cuore e si richiama alle direttive della mente che lo purifica da un eventuale eccesso di pathos. Il suono è così battezzato col nome del suo Autore.
 
Nessuna filosofia, se non intesa come ricerca della verità interiore e della saggezza di vita, interessa Paccagnini, del tutto sganciato da ogni disciplina sistematica, estetica o generalistica, consapevole che è piuttosto l'arte a indicare alla filosofia i percorsi più indipendenti ed emancipati dal pensiero unico, una traccia di cui la filosofia, se non vuole girare a vuoto nel masticare logori concetti, deve tener conto per uscire dall'omologazione attraverso il fare, il gesto, il colore, il suono, la pulsione, quell'agire sottile e incontaminato che appartiene solo alla vera e grande arte.
 
Lui, che pure era un anticipatore della musica elettronica italiana, che aveva diretto lo Studio di fonologia della RAI di Milano e aveva fondato la prima Cattedra di musica elettronica al Conservatorio "Verdi", si rendeva conto che le analisi scientifiche, sotto il manto rigoroso, possono nascondere una vita asfittica e con la vita, quella vera e quella del suono, poco hanno a che fare. Sapeva che non abbiamo bisogno di ulteriori approfondimenti da un punto di vista tecnico, scientifico e filologico, ma di profondità umane. Il Metodo, l'atteggiamento scientista, la coerenza di un Sistema sono presupposti necessari all'ordine formale, ma non sufficienti.
 
Già dalla fine degli anni Cinquanta, i grandi compositori si posero il problema di come dare un senso sonoro al loro operare, compiendo delle scelte all'interno del sistema in funzione dell'ascolto e dell'affrontare temi sociali, come aveva fatto Nono fin dal 1953 e come, poco dopo, farà Paccagnini. Si passa così da una teoria incentrata a un puro conoscere sperimentale a una poetica della forma e della percezione. L'aver realizzato musica per teatro, fin dal 1959, eppoi musica per la radio e per la televisione, dimostra quanto profonda sia stata in Paccagnini l'esigenza comunicativa, la quale lo portava ad allontanarsi dalla purezza del post-webernismo e a "sporcarsi le mani" con le tematiche espressive e a "rivestire le narrazioni di suoni" (come ci dice lui stesso).
 
Paccagnini non ha avuto una considerazione adeguata ai suoi meriti, che sono tanti e non solo legati alla composizione, ma anche alla didattica, come dimostrano le commosse testimonianze raccolte in questo volume, alla direzione di Conservatori e alla cultura in genere, di cui fu, bisogna riconoscerlo, un sincero protagonista (il fatto è che, ieri come oggi, sono più i portaborse a far carriera…). Da qualche tempo s'è manifestata un'esigenza, sempre più pressante, di riconsiderare, con modalità critiche diverse, certe impostazioni codificate della cosiddetta musica contemporanea. Ermanno Migliorini, nel 1969 (sono gli anni d'oro della ricerca di Paccagnini), scriveva un testo intitolato Miseria della critica, se un'affermazione del genere la si poteva sostenere per la critica d'arte, figuriamoci per quella musicale, davvero miserrima. Mila, anche lui uomo indipendente, insieme ai soli Gentilucci e Zanetti (oltre ad alcuni allievi, come dimostra questa straordinaria iniziativa di Gabriele Ranica), si sono interessati davvero alla musica di Paccagnini. L'esigenza di un ripensamento e di un più giusto ricollocamento della sua figura è imprescindibile.



NOTE
1) Gabriele Ranica, Lo scontento cosmico, Angelo Paccagnini, Raccolto Edizioni, Robecchetto con Induno (Mi) 2005.
2) Armando Gentilucci, Guida all'ascolto della musica contemporanea, Feltrinelli, Milano 1973.
3) Piero Bonaguri, in Lo Scontento cosmico..., cit.



Dalla Prefazione di Renzo Cresti al libro di Gabriele Ranica, Lo scontento cosmico, Angelo Paccagnini, cit.



A Gabriele Ranica


 
 http://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Paccagnini

 





Renzo Cresti - sito ufficiale