Carlo Pedini, con un'intervista e una sua testimonianza
Gli occhi stratificati del tempoPersona immediata e diretta, Carlo Pedini (Perugia 1956) ha il grande pregio di affrontare la vita e l'arte così come gli viene, lasciandosi prendere dai suoi amori, dal suono come dalla moto, dal colore come dal Perugia calcio, senza mai, ovviamente, perdere di vista le ragioni e le finalità del fare, senza mai cedere nella qualità. Questo mi piace e per questa sua autenticità apprezzo anche il suo avvicinarsi al Minimalismo e al neo-Romanticismo, in fondo la schiettezza, la genuinità, è il vero a priori dell'arte come della vita, prima di qualsiasi idea e impostazione. Là dove questi movimenti artistici sono il frutto di speculazioni e di furberie producono una musica falsa, fatta per réclame di se stessi, mentre in Pedini sgorga con immediatezza, rapida, con un gesto preciso e al contempo spontaneo e fresco. Ho un bellissimo suo quadro angolare, appeso nel mio ingresso di casa, me lo guardo con attenzione spesso e sempre meglio capisco la sua arte, la sua musica, la sua personalità. Grazie, caro Carlo, è stato un dono bellissimo.
Recentemente (2005) Pedini ha adottato un bambino, scelta che dimostra, se ce n'era bisogno, ancora una volta la sua nobiltà d'animo e la sua genuinità che dall'uomo passa alla sua arte e alla sua musica.
Durante gli anni Ottanta, Pedini persegue una frammentazione serrata del suono (con trilli, tremoli, note ribattute etc.) che porta a un brulicare sonoro e a uno scintillio armonico. La ricerca delle capacità di gestire le situazioni armoniche e ritmiche conduce a una musica fatta per dissolvenze incrociate, dove le modificazioni armonico-timbriche avvengono per una trascolorazione progressiva, con mutamenti graduali, come nel finale de Il mistero di Jacopone, Oratorio drammatico per recitanti, baritono, coro e orchestra, su testi di Claudio Novelli e Lucio Lironi. Lo strumentario comprende anche un concertino di strumenti tardo medioevali.
Il Prologo è un Saltarello che porta alla Introduzione e quindi alla Prima Scena, dove si presenta la voce di Jacopo. Il sentimento dell’attesa è quello che predomina. Le parti alternano aspetti densi ad altri più rarefatti, climi espressivi furiosi o dolcissimi. La scorrevolezza del fraseggio fornisce al lavoro una placida gradevolezza, anche nei momenti più incalzanti. Si ascoltano Mottetti, Laudi e Misereri, ma non in uno spirito accademico neo-classico, ma filtrate attraverso idee e maglie armonico-timbriche del tutto personali. Il mistero di Jacopone viene preparato da Adagio, uno studio per Jacopone (1991), un lavoro per orchestra d’archi che poi servirà da schizzo per il finale dell’Oratorio. Note lunghe creano un clima sospeso, dal quale piccoli ostinati e brevi figurazioni legate portano a un luminoso finale.
Negli anni Novanta, dopo la depurazione degli ultimi sciarrinismi, Pedini si avvicina a un suono puro (vicino a Ligeti). Inoltre è da sottolineare lo stilema delle due quinte vuote sovrapposte a distanza di semitono, già presente nell’ Oratorio su Jacopone e che verrà utilizzato in molti pezzi successivi. Questo bicordo-base contiene molti elementi che possono svilupparsi in direzioni diverse. Infine anche il parametro ritmico viene visto con maggiore attenzione, parametro fondamentale negli ultimi anni.
Nella continuità degli elementi compositivi che provengono dagli anni Ottanta, Pedini giunge alla messa a punto di stilemi ritmici, timbrici e armonici del tutto originali, in una fusione che sa metabolizzare il patrimonio del passato, grazie anche a una gestualità personale, approdando a una serie di lavori che, soprattutto dalla fine degli anni Ottanta a oggi, si pongono fra i più interessanti del panorama nazionale.
Un'armonia di timbri che trascolora, lentamente. Così nella sua musica come nella sua pittura.
Negli ultimi lavori Pedini sembra fare ciò che vuole, manipola la storia, si diverte con i suoni, si abbandona alla sua vena melodica, scrive accordi consonanti senza aver timori reverenziali nei confronti dei Maestri e con il gusto del bel colore. Si avvicina a volte a un certo post-minimalismo e\o a un neo-romanticismo figurativo ma un po' stralunato. Il ricorso alle parole e a storie (sacre) lo avvicina alla musica descrittiva, stile poema sinfonico post-modern, come ne I colori del Perugino. Per la musica religiosa si ascolti il plastico Te Deum e i due Magnificat, quello grande in 6 sezioni e quello piccolo in 3.
Citiamo ancora lavori di stupefacente qualità e musicalità, come Canone per archi e Non svegliate Verdi per orchestra (entrambi del 2001). Per il teatro, povero nella realizzazione ma non nella ricchezza delle idee, vanno almeno segnalati l'Opera in un atto su testo del figlio Carlo e di Gino Vizzini, Un giorno qualunque, e il balletto in un atto, su soggetto di Claudio Novelli, Il pranzo (2002).
Le modificazioni progressive che in musica portano a un trascolorare armonico-timbrico vengono riprese anche nella recente attività pittorica, a cui merita far cenno, non solo perché di qualità, ma anche perché aiuta meglio a capire l'uomo di cultura e il musicista: si tratta di paesaggi senza presenza umana, ma solo animale, in particolare si tratta di greggi che brucano in tranquillità in spazi molto grandi, colorati di gradazioni di giallo, in lentissima metamorfosi, simile a quella del minimalismo musicale. Il figurativismo, che meglio esprime il particolare nella forma e nel colore, è in parallelo fra questi quadri e gli ultimi lavori musicali che alla figura\melodia ricorrono in maniera diretta, inquadrandola in contesti ritmici e armonici che la rafforzano.
Da R. Cresti, Gli occhi stratificati del tempo, in "Linguaggi della musica contemporanea III", Collana "Il Cammeo blu", diretta da Renzo Cresti, Miano, Milano 1999.
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Intervista a Carlo Pedini
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Le definizioni in genere vanno strette agli autori, ma risultano utili all’ascoltatore. Neo romanticismo è un termine coniato dagli stessi autori italiani nel 1980 ed era usato in modo polemico in opposizione ad “avanguardia”, ma non credo corrisponda realmente alla volontà degli autori (forse l’unico caso, isolato, è quello di Gianpaolo Testoni). Quello di nuova semplicità è fondamentalmente legato agli autori mitteleuropei ma non mi sembra adatto alla situazione italiana. Ritengo più corrispondente alla situazione italiana post 1980 il termine post-avanguardia indicando con questo una pluralità di approcci al fatto compositivo difficilmente riconducibili ad una matrice comune. Per quel che riguarda una buona parte della mia produzione (soprattutto quella orchestrale e strumentale in genere) l’adesione alle tematiche del post-moderno (uso di strutture storicizzate riutilizzate in modo “non innocente” – la definizione è di Umberto Eco [vedi: Postille a Il nome della rosa]) è apertamente dichiarata.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
Particolarmente ricca di potenzialità di sviluppo, libera da dogmatismi e aperta ad ogni apporto, anche di diversissima origine ed esito.
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Il decadimento del concetto di cultura come mezzo primario per la crescita individuale e collettiva, che ha portato non solo al punto più basso nella storia dei finanziamenti pubblici alla cultura stessa, ma ad un equivoco generalizzato dove vengono fatti passare per “culturali” contenuti e contenitori di puro intrattenimento senza valori (se non genericamente “di costume”) meritevoli di trasmissione alle generazioni future. La conseguenza evidente è il progressivo “imbarbarimento” del pubblico potenziale.
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Mi è difficile rispondere a questa domanda. Personalmente non credo di voler cercare approcci comunicativi a discapito della ricerca (magari però la mia musica può indurre a pensarlo…). Posso solo fare una confessione: lessi una volta (molti anni fa) che Stravinskij alla domanda di quale fosse la musica che preferiva rispose: «La mia». Riflettei che non potevo dire altrettanto. Da allora mi sono impegnato sempre in questo senso. Posso dire che spesso ci sono riuscito (preferisco il mio Te Deum a quello di ogni altro autore della storia della musica, così come per il mio Magnificat e sei dei sette numeri del mio Requiem – tranne il Dies Irae, dove pur avendo cercato di fare del mio meglio, continuo a preferire quello di Mozart e l’attacco di quello di Verdi.)
- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio etc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Col senno di poi, a distanza ormai di molti anni, ho in parte mutato il giudizio su autori che nel mio apprendistato erano punti di riferimento; continuo a pensare a Ligeti come il maggiore autore del novecento. Ritengo un grande teorico della musica Franco Donatoni, ma con esiti musicali modesti. Penso che Berio sia stato un grandissimo compositore nato nell’epoca sbagliata, Luigi Nono un grande improvvisatore più che un compositore in senso tradizionale (lo dico in senso positivo, non come valore negativo). Sylvano Bussotti, uno dei miei idoli di gioventù, al contrario oggi mi è totalmente indifferente e la sua musica, ascoltata e analizzata oggi, un caos produttore di noia. Così come Petrassi un grande autore, ma con una fase fortemente discendente dalla metà degli anni cinquanta in avanti (eccezion fatta per i Concerti per orchestra n. 7 e n. 8, superiori, dal mio punto di vista a quelli dal 2 al 6). Fra gli autori internazionali, oltre il citato Ligeti, pongo sullo stesso piano di grandezza Benjamin Britten, che i nostri maestri ci proibivano solo di nominare. Mentre ritengo ormai marginale l’opera di Boulez e ininfluente quella di Stockhausen. Credo che un giovane di oggi debba guardare con senso critico tutta questa evoluzione degli autori del secondo novecento. Per quel che mi riguarda penso che uno dei massimi esempi per un compositore d’oggi sia l’americano John Adams. Gli esempi che ho dato, evidentemente, non sono mossi da generiche considerazioni emotive, ma dall’analisi approfondita fatta sulle partiture di questi autori in tanti anni di esperienza.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Ho iniziato a comporre a 13 anni, solo con pochi rudimentali nozioni di musica. Ho svolto la mia formazione musicale come compositore autodidatta. Solo più tardi ho avuto studi musicali accademici. Penso che si possa insegnare quel che hanno fatto i compositori nel corso della storia della musica (il mio libro Le Forme della Musica, scritto col collega Piero Caraba, appena pubblicato, ha questo scopo dichiarato). La rielaborazione di quanto appreso spetta all’esperienza individuale e non può certo essere insegnata.
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Penso che le due cose si equivalgano, anche perché se si studia senza avere la curiosità per ciò che non viene insegnato sarebbe dimostrazione evidente di non interesse a superare la fase accademica. Nella storia, anche recente, ci sono grandi compositori autodidatti (da Berlioz a Sciarrino) e compositori di rigorosa formazione accademica che hanno continuato a studiare per tutta la vita (Schubert è l’esempio più significativo).
- Sulle difficoltà nel rapporto fra la cultura (musicale) locale e quella nazionale (e internazionale). Pensi di aver risentito della cultura della zona in cui vivi? Hai avuto influenze dirette o indirette a livello di zone geografico-culturali nazionali? E le esperienze internazionali come le poni?
Non credo di avere avuto alcun tipo di influenza di questo tipo. L’approccio con la musica d’altri è sempre avvenuto tramite partitura, indipendentemente dalla provenienza dell’autore. Tuttavia, pur essendo stato interessato all’esperienza di autori come Arvo Pärt o Philip Glass, li ritengo fortemente connotati dal contesto geografico nel quale operano. Ragione per cui non ho mai pensato ad adottarne formule o stilemi (atteggiamento, peraltro, che credo di non avere con nessun autore in genere). Se influenze ci sono state non sono avvenute in modo voluto o consapevole.
- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
Non so. Penso sempre che tutto sia possibile e che un atteggiamento dogmatico non faccia mai bene a chi scrive. Però credo che l’abuso delle contaminazioni, prodotto negli ultimi vent’anni, contrariamente allo scopo dichiarato di avvicinare alla musica colta un maggior numero di ascoltatori si sia risolto solo nel far appassionare alla musica leggera (un genere che disprezzavano per punto preso) molti cultori, magari poco informati, di musica classica.
- Progetti.
Attualmente non accetto più commissioni verso le quali non abbia un reale interesse. Oggi scrivo solo per il piacere di comporre. In genere non vado oltre i due o tre lavori l’anno. Attualmente sto terminando di scrivere un Vespro di Santa Veronica (prima esecuzione il 1° maggio 2011) per voci bianche, coro e orchestra. Poi inizierò l’opera lirica The Buffalo Soldier che andrà in scena negli Stati Uniti nell’estate del 2011.
Da Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.
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Testimonianza di Carlo Pedini sulla sua attività pittorica
Sul ciclo pittorico Greggi
Sono nato a Perugia il 19 giugno 1956, in via Brunamonti, nel quartiere di Monteluce. Ho iniziato lo studio della musica a 13 anni da autodidatta. Prima ho imparato a sonicchiare la chitarra e poi, sempre in modo maldestro, il pianoforte. Contemporaneamente coltivavo l'interesse per il disegno e la grafica, realizzando fumetti e vignette umoristiche.
La mia prima passione musicale sono stati i Beatles: del loro esempio rimane traccia nella tecnica delle stratificazioni armoniche e strumentali di molti brani che ho composto successivamente (sul modello delle loro incisioni degli anni '67-'69); dell'aspetto, la forma tonda di tutti i miei occhiali, come John Lennon. Nel 1976, mi sono iscritto nella classe di Composizione del Conservatorio. Senza troppa convinzione ho seguito anche studi giuridici all'Università di Perugia, laureandomi in Giurisprudenza. Nonostante in Conservatorio venissi soprannominato "l'avvocato Pedini" non ho mai svolto questa attività, abbandonando questo campo subito dopo la laurea. Viceversa ho iniziato subito il mestiere di compositore e, dal 1981, quello di insegnante in vari Conservatori italiani.
Molti conoscono il mio impegno come organizzatore musicale. Pochi conoscono invece la mia molto più recente attività nel campo delle arti figurative. In realtà fin da piccolo sono stato abituato alla presenza di tele, pennelli e cavalletti per casa: chi conosce mio padre, Bruno ("Brupe"), conosce anche i suoi quadri (sparsi in case private e Istituti universitari di mezza Italia, nonostante non siano mai stati presentati in pubbliche esposizioni), quadri che ho visto nascere, modificarsi nello stile, e in mezzo ai quali sono cresciuto. Così come presto ho iniziato a scandagliare le innumerevoli pubblicazioni d'arte che costituivano una delle parti più cospicue della biblioteca di casa.
E' per questo che, tecnicamente parlando, non posso dire di essermi avvicinato alla pittura senza conoscenze specifiche. Tuttavia, a parte l'antica passione per la grafica a inchiostro di china (travasata anche nelle mie partiture degli anni '80, prima che il computer si sostituisse all'arte musical-amanuense), non avevo mai affrontato in modo serio o, se si preferisce, sistematico, la tecnica pittorica. E quindi, in particolare, l'uso del colore.
L'occasione è venuta quando Piero Ostali mi chiese una fotografia "ben fatta" per il catalogo dei miei lavori pubblicati da Casa Sonzogno. Pensai che meglio di una fotografia sarebbe stato un ritratto e così me ne feci uno. Mi rendo conto che può sembrare inverosimile ma è andata proprio così.
Che un autore di musica si dedichi parallelamente alla pittura non è una novità: l'esempio più illustre è senz'altro quello di Arnold Schönberg. Amico di Kandiskij e collaboratore del Blaue Reiter, manifesto dell'espressionismo, Schönberg diede a questo movimento un apporto decisivo. Celebri sono gli autoritratti, gli sguardi allucinati delle sue "visioni", o il famoso ritratto dell'amico e allievo Alban Berg: esempi pittorici che affiancano, se non anticipano, il clima espressivo della sua musica. Ma le analogie fra musica e pittura non sono solo dirette, come in questo caso: non sfugge a nessuno l'affinità stilistica fra la mobilità armonica degli arpeggi sgranati dei Reflets dans l'eau di Debussy e la scomposizione dell'immagine nei riflessi acquatici di Monet (sarebbe molto più difficile rintracciare analoghe affinità fra le complesse geometrie bachiane e l'esteriorità decorativa dell'arte barocca, a testimonianza di come non sia sufficiente una semplice "sigla" a creare simmetrie fra i diversi campi dell'arte).
Oltre che nei ritratti qui esposti mi sono impegnato in una serie di studi paesaggistici, tutti su toni variati di ocre gialle e di terre. Non so se quanto sostiene Johannes Itten sia vero (Kunst der Farbe, 1961), e cioè che ognuno, inconsciamente, è spinto ad avvicinarsi ai propri colori naturali (intesi soprattutto in senso fisico, del proprio aspetto), ma questi colori, credo, siano davvero molto vicini ai miei colori naturali (degli occhi e dei capelli, per esempio).
L'unica presenza "viva", in questi paesaggi, è quella di greggi di pecore: la scelta è principalmente di ordine tecnico, per dare una dimensione chiara agli spazi riprodotti (ossia per capire che si tratta di monti e colline tanto più grandi quanto più piccoli sono gli animali). Quindi, in linea di principio, cavalli o mucche sarebbero andati bene ugualmente. Tuttavia devo ammettere che la pecora, pacifica e indifferente, che continua a brucare tranquilla in file ordinate sotto l'addensarsi calmo o minaccioso delle nubi, mi sembrava l'animale più adatto per realizzare una sorta di contrasto tra il movimento della natura, per definizione "inanimata", e la quasi staticità di animali, mobili per definizione. Non è mai presente la figura umana: darebbe una connotazione bucolica che vorrei davvero evitare, oltre che una collocazione temporale troppo definita. Così, da sole, potrebbero essere pecore di oggi o di diecimila anni fa.
Nel progettare e realizzare questi studi pittorici ho trovato fortissimi legami con lo scrivere musica. A parte il diverso linguaggio, la costruzione di un'idea progettuale e la ricerca delle soluzioni necessarie alla sua realizzazione richiede un'impostazione mentale sostanzialmente identica. Tuttavia vi è una differenza essenziale: mentre un'opera musicale si articola lungo una scansione temporale durante la quale avvengono movimenti all'interno della stessa, l'arte figurativa è statica, il singolo dipinto è "bloccato" nella sua realizzazione finale. Come un'istantanea.
E' una differenza che impone un confronto non tanto fra singole opere, ma sul lavoro compositivo in generale (ma anche di un singolo brano di musica) e l'esame specifico di più realizzazioni pittoriche considerate in un preciso arco temporale. Scrivere musica è molto più laborioso che dipingere. Ed è anche molto più complesso nella strutturazione complessiva del lavoro (è un assunto che non è stato sempre valido in ogni epoca, ma che è diventato tale almeno da Beethoven in poi). E' per questo che gli svolgimenti che possiamo trovare in un unico brano musicale, nel lavoro pittorico è necessario confrontarli su tempi lunghi e più opere. Ho parlato di studi perché lavorando su questi quadri (ma anche meditando in senso più generale) mi sono convinto che ogni dipinto non fosse finito in se stesso, ma costituisse una singola tappa di un discorso in divenire, dove la ricerca del colore e della forma dovesse essere continuamente modificata, rifinita, aggiornata (in questo senso l'esperienza pittorica di Franco Passalacqua resta esemplare). Una sorta di lentissima metamorfosi, in qualche modo simile al concetto del "variare" in musica (in cui è poi racchiuso tutto il senso dello sviluppo musicale), dove il soggetto prescelto (un paesaggio con pecore) viene ogni volta ripreso per essere continuamente sottoposto a microvariazioni successive. Quasi come singoli fotogrammi di una pellicola cinematografica. Ogni dipinto non sarà quindi mai uguale ad un altro (anche volendo non sarei in grado di realizzare due quadri assolutamente identici), ma una singola tappa di una variazione in divenire.
Non sfuggirà, a chi conosce questi aspetti, l'affinità costruttiva con il "minimalismo", la corrente estetica americana che maggiormente ha influito nelle diverse produzioni artistiche, insegnando a porre una nuova, maggiore, talvolta sistematica attenzione al particolare. Di qui la scelta del figurativismo, in grado di meglio definire, rispetto all'astrattismo, il soggetto analizzato (soprattutto nella forma, oltre che nel colore). Una scelta certamente analoga a quella dei musicisti minimalisti e post-minimalisti che nei propri lavori utilizzano sempre soluzioni armoniche semplici e chiare (di solito di derivazione tonale), per rendere evidente all'ascolto le trasformazioni musicali operate (cosa che non era mai potuta riuscire alle ipertrofiche costruzioni degli strutturalisti degli anni '50 e '60).
A questi studi sull'ocra se ne sono poi affiancati altri su toni più rossi o aranciati, spesso con la sola silhouette della pecora in controluce. A posteriori mi sono accorto che in questo modo veniva invertito quel rapporto moto/stasi fra l'ambiente e gli animali realizzato nei dipinti descritti in precedenza: a cieli tersi e immobili si contrappongono le figure delle pecore che, in questo caso, lasciano intuire un lento movimento sullo sfondo luminoso. Sotto questo aspetto considero questi studi "rossi" una sorta di "negativo" stilistico degli altri. Tuttavia vedo maggiori margini di elaborazione della prima tipologia piuttosto che di quest'ultima, forse perché non è fatta dei "miei" colori naturali.
Carlo Pedini, novembre 2000.
http://www.carlopedini.org/