Abitare la scrittura e il suono
Abitare la scrittura e il suonoL' affondo
Senza la musica la vita sarebbe un errore
(F. Nietzsche, Frammenti postumi)
(F. Nietzsche, Frammenti postumi)
“Si vive in uno stato di guerra permanente” e i singoli cercano rifugio in una “privata fetta di cielo”, non sono parole di questi anni, ma è l'accusa che Hegel scrisse nella sua Estetica, contro la (sua) epoca violenta, prosaica e individualistica, disponibile ai compromessi tra quieto vivere e interessi economici. Si noti che queste considerazioni vengono svolte proprio nell'Estetica , contraendola in etica. L'arte classica, con il suo tranquillo equilibrio, era per Hegel morta sotto le offese della brutalità di un quotidiano sempre più imbarbarito, dispersa nell'irrazionale e nelle tragedie pubbliche e private di un'umanità che sente sopra di sé i mali del Mondo.
E' da Beethoven che l'arte porta il lutto , perché è con la coscienza della Romantik che s'è fatta carico dei mali del mondo, esprimendo il cordoglio per quanto vi è di offeso e di umiliato nella vita (sociale) dell'uomo. Finché la sofferenza farà parte dell'uomo, e sempre ne farà parte, anche l'arte non potrà che essere solidale a questo dolore, un male che però l'arte dovrà cercare di svincolare dalle cause che lo producono, superando Auschwitz attraverso un andare alle radici di quel terrore, metabolizzando e vincendo le angosce e proponendo scenari possibili di un'umanità pacificata. Rispetto alla vecchia posizione adorniana della dialettica negativa, ci deve essere una risposta positiva nuova, una ridente forza utopica, perché, se è vero che l'u-topia parla di un posto che non c'è, è anche vero che quel posto potrebbe esserci, ed è lì, nella Terra dell'Uomo riconciliato con se stesso e col proprio prossimo, che tutta l'umanità dovrebbe incamminarsi.
L'Arte, tutte le arti hanno un alto compito nell'educare l'uomo al bello e al giusto, nel prospettare un tempo-spazio dove può trovare posto la risposta positiva ai mali del mondo, non perché l'arte possa risolversi, ma perché l'arte può rendere l'uomo più ricco interiormente e, quindi, più consapevole e sensibile. Anche la cultura può avere questa balsamica possibilità, ma, a differenza dell'arte è troppo (più) compromessa con i meccanismi del pensare e fare comune, mentre l'arte può andare (più) in profondità grazie al suo spazio concavo e al suo tempo interiore, vicini a quello del senso comune e – contemporaneamente – distanti, intimi, ironici: lo spazio dell'arte si fa vaso per raccogliere le vertigini di un pensiero abissale , il tempo non è quello degli orologi ma tempo sospeso che gira come una spirale ed entra nella voragine di un tempo-senza tempo. Se osservi con tutto te stesso l'arte o se ascolti con attenzione estrema la musica, dopo un po' ti accorgi che non sei tu a fissare i disegni e i colori ma sono loro che scrutano te; non sei tu ad udire la musica ma sono i suoni che ti abbracciano, sono loro gli agenti e tu il passivo. Questo avviene, in maniera così assoluta, solo con l'arte, perché solo l'arte ha il potere di trasportarci in uno spazio-tempo stra-ordinario.
Il cahier de doléances nei confronti del ricco e del troppo della società iper-sviluppata, il disagio della civiltà, riguarda un rinnovato umanesimo, critico e pulsante. Nella sua Lettera sull'Umanesimo, Heidegger aveva però criticato l'assenza di radicalità della cultura umanistica, la quale aveva lasciato molti problemi aperti, proprio per il suo pensiero dolce, troppo legato alla tradizione e a una visione centralizzata dei fatti. Questo rischio l'Umanesimo lo corre, la fatica (ch'è sempre da rispettare quale dimostrazione d'impegno) con cui molti artisti cercano l' affondo lo conferma. Fatica per sganciarsi dalla tradizione e dalle attuali vie maestre e sforzo per mettere in pratica il pensiero critico, per raggiungere un'opera compiutamente indipendente e radicale (nel senso di Heidegger di “rinnovatore” e in quello del suo etimo di “radice”). Da questo punto di vista è del tutto impossibile far distinzioni far le varie arti.
Secondo la tradizione occidentale è il concetto di forma che collega le arti alla società. Ogni struttura rimanda a un'organizzazione della mente, è un meccanismo, congegnato similmente ad altri, dell'organizzazione sociale. Nelle arti la struttura è dunque il complesso degli elementi, razionalmente analizzati e com-posti seguendo il principio di una costruzione logica, che per analogia rinvia al principio di realtà. Su questa configurazione mentale, ancora prima che fattiva, la storia (delle arti) ha costruito un mastodontico edificio culturale auto-referenziale, sul quale il metodo e la tecnica hanno un predominio pressoché assoluto, una strategia tecnica che, sempre più dall'epoca della prima rivoluzione industriale, è al servizio del mercato, una strategia hard che poi, almeno nelle arti più consapevoli, diventa soft, riequilibrando quelle che, secondo Wolfflin, sono le coppie polari di razionalità-istinto, superficie-profondità, esplosione-implosione, chiuso-aperto, coerenza (principio di non contraddizione)-disordine (perturbazioni aleatorie, improvvisative ecc.). Sull'equilibrio di queste coppie complementari si gioca anche il come le arti possono stare unite, spesso l'una si sposta più su un polo per dar agio all'altra di esprimersi al massimo, in un gioco amorevole delle coppie.
Nei suoi aspetti generali, ma profondi, lo scontro fra sostanza e aspetto esteriore, fra profondità e superficie, fra accondiscendenza ai gusti comuni e ricerca di originalità, fra compromesso e innocenza, è un conflitto e(ste)tico ch'è sempre esistito, una costante nella storia (delle arti). Stravinskij, per esempio, nel 1967, diceva che “la cultura in confezione, in scatole sempre più belle e perfezionate (la pubblicità è più vera dell'oggetto reale) non incoraggiano certamente la nuova creatività musicale.” Nella nostra epoca di tardo impero non facciamo altro che rimuginare temi affrontati, già sotto il segno della crisi, da decenni, come “l'amalgamarsi delle individualità” (che ora chiamiamo omologazione delle coscienze), come “l'emigrazione della musica occidentale dall'Ovest, in una crescente fusione tra Est e Ovest”, sono ancora parole di Stravinskij (scritte per la presentazione della Storia della musica moderna , edita dai Fratelli Fabbri nel 1967). Anche la tanto sbandierata globalizzazione altro non è che l'ingigantimento della massificazione e della mercificazione, denunciate con forza fin nei primi decenni del Novecento (Adorno docet). E più tale contesto s'ingigantisce e più l'uomo viene massacrato e più l'arte rimpicciolisce. Anche per sfuggire alla globalizzazione può servire che le arti si uniscano, non solo perché l'unione fa la forza, ma soprattutto perché l'espressione si fa più incisiva e la comunicazione più ampia.
Negli anni Settanta si aveva chiaro tutto il processo socio-politico su cui si fruga adesso, per esempio, nel 1975, Habermas si poneva il problema della partecipazione alla vita pubblica in un sistema spontaneo che passa sopra le teste dei cittadini. E Baudrillard, nel 1979, sviscerava le debolezze della democrazia formale. In tale rimasticamento “siamo già tutti morti”, come scrive Prigogine, l'unica forma che ha la possibilità di sopravvivere è la vera Arte, quella che nasce dall'imploso immaginario e intellettuale dell'artista e crea smagliature impreviste all'interno del sistema sociale e culturale, corto circuiti che accendono scintille e creano nuove energie di scambio , fra arte e Mondo e fra arte e arte. Il pensiero, l'e(ste)tica e la poetica delle arti differenti sono, nel loro porsi nei confronti del Mondo, assolutamente simili.
Nel 1991, Mario Perniola constatava che la nostra epoca si basa sul già sentito, sul déjà vu, gli uomini stessi sono intesi come qualcosa di impersonale e di anonimo, togliendo loro ogni inventiva e indipendenza. Il non concentrarsi sul pensiero, sull' affezione , sul fare autentico porta conseguenze disastrose, non solo per il mummificarsi dell'arte e per l'inautenticità e la volgarità dell'arte mercantile, ma è un sintomo – o simbolo – di un'inciviltà davvero preoccupante, quella con cui siamo costretti a fare i conti nella cultura e nei fatti di tutti i giorni.
Occorre consacrarsi all'opera: il fatto essenziale non è quello di costruire un'opera, ma di abitarla, di abbracciarla, di sentirsi chiamato da lei.
La forma dell'ispirazione è il salto, l'essere gettati dal mormorio dei suoni comuni in un luogo sacro, dove i suoni attendono un vaso che li raccolga. L'autore non è altro che colui che ha la capacità di racogliere. Più la sua volontà sarà debole e più possibilità avrà di farsi contenitore.
Scrivere è lo stato nel quale si apre la commozione dell'ascoltare. Raccogliersi in sè è un atto catartico ma anche di erranza perché il silenzio viene attraverso, esperito. Scrivere non consiste solo nel perfezionare forme e tecniche ma la scrittura è l'approccio a quel punto in cui non si rivela che il suono in sé. Il tempo del suono è una con-temporaneità di essere stato, essere presente, essere immanente, essere futuro. Questo molteplice del tempo si ritrae nel suo dischiudersi. E' proprio nel ritirarsi che sporge e comunica.
Il suono possibile ritorna subito nel silenzio: è dove viene meno, come il Dio ebraico. Questo venir meno del suono, nel momento in cui si concede, è l'autenticità del dire. Troppi musicisti, compositori e interpreti, non sanno ascoltare il suono. La via che conduce alla comunicazione è centro il suono, non è qualcosa che si può programmare.
Da Renzo Cresti, Abitare il suono, in "Confini", rivista semestrale di cultura, Sesto san Giovanni (Mi), giugno 1997.
A Rocco Abate