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Musica, letteratura e arti, testimonianze di 64 compositori
Musica, letteratura e arti
Testimonianze di compositori presenti in Renzo Cresti, Linguaggi della musica e delle arti, Il Molo, Viareggio 2008. Alcune interviste sono parziali per leggerle integralmente prendi il libro.


 
 
Testimonianze
 
Rocco Abate, Claudio Ambrosini, Antonio Anichini, Davide Anzaghi, Guido Baggiani, Roberto Beccaceci, Tiziano Bedetti, Angelo Bellisario, Massimo Berzolla, Silvia Bianchera (con una testimonianza su Bruno Bettinelli), Massimo Biasioni, Michele Biasutti, Sonia Bo, Umberto Bombardelli, Claudio Boncompagni, Gilberto Bosco, Aldo Brizzi, Elisabetta Brusa, Mario Cesa, Paola Ciarlantini, Fabio Cifariello Ciardi, Nicola Cisternino, Osvaldo Coluccino, Giampaolo Coral, Luca Cori, Enrico Correggia, Gianvincenzo Cresta, Paolo De Felice, Girolamo Deraco, Carlo Deri, Fabrizio Fanticini, Bianca Maria Furgeri, Giorgio Gaslini, Gaetano Giani Luporini, Stefano Giannotti, Arduino Gottardo, Mauro Lupone, Carla Magnan, Luigi Manfrin, Pippo Molino, Carlo Pedini, Paolo Perezzani, Gianfranco Pernaiachi, Oronzo Persano, Andrea Pidoto, Biagio Putignano, Davide Remigio, Paolo Ricci, Pietro Rigacci, Paolo Rimoldi, Nicola Sani, Claudio Scannavini, Flavio Emilio Scogna, Matteo Segafreddo, Roberta Silvestrini, Simona Simonini, Alessandro Solbiati, Stefania Spadini, Giuliana Spalletti, Andrea Talmelli, Sara Torquati, Luigi Verdi, Giuliano Zosi
 
 
 
Rocco Abate
A monte di ciascuna forma espressiva artistica, al di là che essa assuma o meno la compiutezza formale nella specificità di ciascuno dei linguaggi – a seconda che essa venga trattata dall'artista consapevole o vagheggiata o semplicemente apprezzata dall'appassionato - la qualità - denominatore comune - che ne “lumeggia” la pur indistinta percettibilità, è una sostanza volatile e impalpabile, una sensibilità non catalogabile, una sorta di artisticità (senso artistico non meglio precisato), una sorta di poeticità (senso poetico…). Mi viene da paragonare tale qualità a un naturale trasudare di cui si può prendere atto, ma ignorarne la ragione, intuirne la biologica necessità non spiegandosene la fenomenologia. Ciò, evidentemente, è condizione imprescindibile perché chi si cimenti con l'arte – vorrei sostituire la parola con un'azione come fare poetico - da qualsiasi livello di competenza egli provenga, di arista militante o di dilettante, o anche solo di destinatario finale del fatto poetico (l'opera d'arte), non possa esserne privo, pena la condanna per “millantato credito”, o per ”falsa testimonianza”. E' tale qualità, dunque, a far sì che l'intrattenere un rapporto di confronto permanente con le altre discipline artistiche sia un fatto quasi naturale.
Pur dall'osservatorio mono-direzionato di una specializzazione – la musica nel mio caso - privilegiata per scelta rispetto ad “aree” creative altre, lo “sguardo” - “il colpo d'occhio” - abbraccia, fagocita e ri/elabora fatalmente la molteplicità degli “accenti” che provengano da tutte le altre forme artistiche, e non solo. Non è raro, infatti, nella fase “fecondativa” di un'idea, “buttare l'occhio” oltre i confini del proprio orticello, alla ricerca di stimoli, collegamenti. Come, poi, detti “accenti” entrino nel “gioco combinatorio” dell'architettura di una mia partitura non è facile (forse neppure utile) indagare… è “delizia” ancor prima che “croce” lo iato che si viene a determinare tra la volontà egemonica della ragione e l'intrusiva irruzione del caso.
Non è forse a causa del caso appunto (elemento destabilizzante - caos - della pianificazione programmata dei procedimenti strutturanti), che qualcuno, ad un certo punto dell'ascolto, possa dire “mi sembra di vedere un …”, “sento una frase che …”, “questo passo mi ricorda la …” ecc., dal momento che le suggestioni soggettive dell'ascoltatore possano essere suggerite da soluzioni strutturali e timbriche, talvolta, niente affatto destinate, a simili finalità, dall'autore? Vi sono, dunque, modalità operative e conseguenti esiti formali che, pur agglutinati sotto una cifra stilistica unificante, sono indubitabilmente frutto di un processo, anche inconscio di contaminazione e, come tali, debitori, deliberati e recidivi, a qualsivoglia altra espressione poetica.
Fin qui la mia personale visione circa la forma indiretta di ipotetica influenza nei processi formanti del mio linguaggio musicale. In anni recenti, però, “zoomando” su un campo specifico, vado indagando le possibilità di trasposizione in musica delle infinite potenzialità di divisione dello spazio operate dal geniale artista grafico olandese Maurits Cornelis Escher. Un larvato tentativo (che ha raggiunto qualche esito accettabile soprattutto nella parte dello strumento solista, ma siamo al balbettio) l'ho realizzato nel recente Concerto per flauto e orchestra scritto dietro commissione di Patrick Gallois. Le difficoltà maggiori nascono dal fatto che essendo la musica un linguaggio che si manifesta (oltre che nello spazio frequenziale) nel tempo, l'impermanenza delle “figure” che essa realizza richiede una capacità percettiva e di memoria auditiva di gran lunga più sviluppate di quelle che occorrono per leggere le “figure” escheriane che invece, pur mutanti nello spazio, soggiacciono, sul foglio, allo sguardo dell'osservatore, senza limitazioni di tempo.
Quanto accennato sull'arte in generale, circa la sua interazione con la mia musica, nell'incontro con la poesia, tutto ciò, rappresenta, né più né meno, che un prolungamento in un ramo specifico, non solo quando, boulezianamente, il testo è “centro-assenza” e, come tale, nucleo interfacciante e ispiratore, ma anche quando è adottato per essere, come si dice volgarmente, “musicato”. Trovo riduttivo oltre che inutile (ma anche presuntuoso) tentare di rappresentare il pensiero poetico o, viceversa, dare voce/parola poetica a quello musicale. Certo la musica ha dalla sua l'astrattezza semantica, e dunque non corre alcun rischio che il tentativo malaugurato di scrivere, imponendola all'ascolto, “l'unica musica possibile” (escludendone infinite altre possibili), possa apparire sensato.
Il pittore spagnolo Pedro Cano, da qualche tempo porta in giro una mostra dal titolo “Le città invisibili”, sì, proprio quelle fantastiche, scaturite dalla visionarietà di Italo Calvino. Ecco allora che quelle città, pur così dettagliatamente descritte ma pur sempre da un punto misterioso di osservazione che era solo quello dell'autore, escono dalla loro dimensione magicamente indefinita, per assumere una forma visiva una, una soltanto fra le tante (e dunque nessuna fra quelle) possibili, figlie soltanto dell'immaginazione che, in quel caso, aveva rinunciato a dar forma e sembianze preferendo de/scriverle. L'artista, di cui non discuto le opere (bellissime) ma l'operazione, forse schermendosi, sostiene di essere stato a ciò indotto dal cortese invito della signora Chichita, moglie dello scrittore che, nel regalargli l'omonimo libro, l'avrebbe invitato a “…leggerlo con cura e di tentare di estrarre materiale per la sua pittura”.
Quando si citano nomi si rischia sempre di ometterne alcuni, in questo caso, ragioni di brevità, mi assolvono da eventuali mancanze. In tutti questi anni ho avuto modo di collaborare con poeti come Antonietta dell'Arte, Ermanno Krumm, Annamaria De Pietro, Guido Oldani, Bruno Pedretti, Dacia Maraini, Gio Ponti, Claudio Angelini, Andrea Zanzotto, (di Alessandro Miano ho utilizzato un bellissimo testo, ma purtroppo non l'ho conosciuto poiché era già deceduto), Lucia De Marchi, altri. In nessuno di questi casi ho fatto ricorso a tentativi di riferimenti “espliciti” che potessero ricondurre a stereotipi di ascolto di tipo “illustrativo”; sono tra coloro che, pur consapevoli che la musica, nelle sue espressioni primordiali si accompagna alla parola e la poesia si prolunga nel canto, ritengono mai risolto l'antagonismo fra le due forme espressive. Quando il testo non si fa esso stesso (come nel libretto d'Opera, per esempio) struttura articolante, pulsazione vitale della figura musicale, esso viene accolto, al di là del suo significato semantico, per la sua funzione puramente sonora. Non alterigia però, ma, semmai, umiltà che mi scoraggia tentazioni di “interpretazioni esaustive” a favore di altro e oltre, come creature di risultanza speculare del problematico (ma intrigante) incontro.
 
 
Claudio Ambrosini
“Mondo classico, mondo anglosassone, lingue morte e lingue vive, musica classica e contemporanea, rendono le composizioni e le realizzazioni delle opere del Maestro espressione di una sorta di sinestesia tra arti visive e musica” – così scrive Cristina Moldi Ravenna sul mensile “Nexus” di maggio-giugno 2005 – “il clima del figlio d'arte ha senza dubbio contribuito ad arricchire il bagaglio culturale di Claudio Ambrosiani: il nonno materno, Carlo Siffi, era scultore, il padre Anton Giulio, artista intellettuale, condivise, fin dal suo nascere, alla Galleria “Il Naviglio” di Carlo Cardazzo, nel 1951, il movimento di arte astratta noto come “Spazialismo”. Come dice la Ravenna sono nato in una famiglia di artisti e, in realtà, da bambino volevo fare lo scultore, come mio nonno. Ho anche ricevuto una medaglia, quando ero alle elementari, per un premio di scultura. La musica è venuta con la frequentazione dei gruppi musicali negli anni '60, del Conservatorio, lo studio degli strumenti antichi. Ho poi iniziato a frequentare il Centro di Sonologia Computerizzata dell'Università di Padova e mi sono occupato attivamente di computer music. Di questo periodo (1979) è la fondazione dell'Ex Novo Ensemble e poi del CIRS, Centro Internazionale per la Ricerca Strumentale (1983). Ho scritto Opere liriche, Oratori e balletti, dove l'immagine e il testo costituiscono parte essenziale del lavoro, fra le ultime cose l'Opera buffa Il Giudizio Universale (1996) su mio libretto; Pandora librante (1997) un balletto lirico-sinfonico ispirato ai testi di Calvino; Big Bang Circus (2002), Opera in due tempi su libretto mio e di Cappelletto; Soliloquy (2003) su testo di Sylvia Plath; Dai Filò (2003) su testo di Zanzotto; Vademecum (2004) costruito su voci autentiche di artisti (quali Marinetti, Fontana, Vedova e altri). Il rapporto con la poesia e dunque strettissimo.
 
Antonio Anichini
La mia attività analitica trasmessa anche con l'attività didattica, come pure la mia esperienza compositiva, mi hanno condotto alla convinzione che le opere del più alto pensiero dell'uomo o la creazione della natura altro non siano che diversi esiti degli stessi principi universali di organizzazione formale sia fisica che metafisica.
Un percorso che è stato segnato fin dall'inizio del mio apprendistato. Mi ha fatto piacere sentire da due dei miei maestri, che occorre “vedere i suoni ed ascoltare i colori” (Berio), oppure “pensare la musica in termini architettonici” (Ligeti). Pezzati poi continuamente effettuava nelle sue lezioni collegamenti con la gestione della forma nella pittura e nella polifonia di suoni. Gaetano Giani Luporini, è anche pittore oltre che il musicista che tutti noi conosciamo.
Questo è un punto fermo a cui prima o poi si deve pervenire, e non solo da musicisti, quanto da Uomini. Nulla è diviso (a parte quello che l'uomo volontariamente e deplorevolmente divide), tutto è interconnesso e interagente nell'essere un'Unità. L'arte, che è una delle più alte espressioni dell'intuizione dell'uomo, non certo si sottrae a questo principio ma ne è l'enunciazione più alta, chiara e convincente. Di questo ne era cosciente anche un uomo che era artista a suo modo, che esprimeva le conquiste della sua intuizione non con le note o con i colori ma con il linguaggio matematico. Albert Einstein infatti, affermava con una folgorante lucidità che “tutte le religioni, le arti e le scienze sono rami di uno stesso albero” e Schönberg, per spiegare ai suoi allievi il concetto di forma, affermava che una composizione musicale è organizzata “come un organismo vivente”.
Il mio rapporto quindi non solo con le altre espressioni artistiche non musicali, ma con la natura e le altre discipline umane è di assoluta interazione e interconnessione perché espressioni diverse di una stessa matrice universale.
La poesia interagisce con una composizione musicale in termini più prevedibili di un'altra manifestazione artistica. Un brano di musica può relazionarsi ad un testo per rappresentarlo, per commentarlo o descriverlo, o per frammentarlo oppure per non enunciarlo esplicitamente, se non per frammenti o fonemi – vedi il problematico rapporto fra parola e suono che i compositori del Novecento hanno spesso manifestato. Ma anche con l'architettura il rapporto è molteplice. Una struttura architettonica può entrare a far parte di una mia composizione in vario modo: può dettare la dislocazione spaziale delle fonti sonore - come è accaduto per Polifonia (1996) o per Symphonema n. 2 per gruppi strumentali (2005) - e quindi gli esiti del tipo si scrittura musicale (ma tutto questo è già proprio di tutta la splendida produzione musicale sacra marciana del XVI-XVII secolo a Venezia). L'architettura può dettare per analogia anche il tipo di proporzioni della composizione stessa. Non tanto nel determinare le proporzioni matematiche e numeriche delle varie sezioni, quanto nel suggerire il principio della proporzione stessa. La facciata della basilica di S. Maria Novella a Firenze è un chiaro esempio di tema e variazioni simultanee. L'Alberti ha inscritto la facciata della basilica in uno spazio quadrato e al cui interno ha organizzato quello spazio attraverso altri quadrati minori, alcuni dei quali, intersecandosi, ne generano altri sia reali che virtuali. E a pensarci bene ha applicato ne più ne meno il principio dell'autosomiglianza.
Pure la prospettiva spaziale su cui si basa la produzione pittorica rinascimentale è un motivo di forte riflessione personale. Nel secondo brano di Requiem (Hymnum), gli archi sono divisi in modo tale che le imitazioni del doppio canone siano di intensità progressivamente sempre più bassa (forte i due duces, il comes 1 mf, il comes 2 p, il comes 3 pp ecc.). Si realizza così uno spazio prospettico sonoro dotato cioè di profondità, quel senso di profondità che ritroviamo in tutta la musica e che è determinato per la maggior parte dal parametro dinamico.
Quando musico un testo mi comporto non sempre nello stesso modo. Dipende se il testo è un libretto per il teatro o per una azione scenica, o se il testo è materiale per una composizione cameristica o sinfonico corale.
Il caso di Requiem è del tutto particolare: le immagini, la provenienza, la concezione mistica ha influenzato la scrittura, la scelta del materiale, la forma. Certamente il rapporto parola suono richiama subito il “madrigalismo”, ma più che illustrare la singola parola, trovo affascinante come Gesualdo o Monteverdi traggono dalla parola e dalla organizzazione della frase, le linee guida per quella rivoluzione della struttura sonora testimoniata dai loro Madrigali.
Lieder vor der Stille (1997) per voce e pianoforte è un esempio di plurivoco rapporto parola suono (voce parlata, sussurrata, cantata, ecc.). Mentre in Madrigale (1995) per coro a cappella a sei voci, il testo di Dante (una sua ennesima maledizione diretta a Firenze) evoca una fissità, una stasi generata dal procrastinare la fine di situazioni che sono ormai giunte al termine del loro ciclo. E' venuto fuori un Madrigale ossessivo, statico nel suo essere internamente dinamico.
Canti dall'orizzonte (2004) per soprano e chitarra si basa su mie poesie, o meglio su frammenti, immagini, parole evocative di situazioni psicologiche ed emotive che si riflettono nella interazione fra suono strumentale e quello vocale. In ogni caso vivo il rapporto tra suono e parola in modo sempre problematico. Ma in fondo è nato in un occidente problematico per la sua vastità di funzione e per la sua ratio ontologica (“glorificare” il Logos in tutta la sua illimitata e illimitabile latitudine).
Nono, con il suo quartetto Fragmente-Stille, testimonianza di questa problematicità si è spinto al limite: “i frammenti, tutti da poesie di Hölderlin, inscritti nella partitura, in nessun caso da esser detti durante l'esecuzione, in nessun caso indicazione naturalistica programmatica per l'esecuzione, ma molteplici attimi pensieri silenzi canti di altri spazi di altri cieli per riscoprire altrimenti il possibile "non dire addio alla speranza".
 
Davide Anzaghi
Qual'è il rapporto in generale con la letteratura, con la pittura e con altre forme artistiche? Non ho subito apprezzabili influenze dalle arti additate dalla domanda. Più significative sono le influenze indirette della saggistica. Come l'arte e in particolare la poesia entra nella tua musica? Della poesia ho utilizzato alcuni testi per liriche, Madrigali ed esperienze di teatro musicale. Ho io stesso approntato versi per l'Opera teatrale Il Luogo della Mente, per Onirama e per Ariette dolenti. Compositivamente come ti comporti quando usi un testo? Ne capto il fremito che intuitivamente riverso nella musica.
 
Guido Baggiani
Le tre domande in oggetto sembrano accennare ad un diagramma della condizione emergente nella pratica del “pensare la musica oggi”. La prima: "il rapporto della musica con le varie altre forme d'arte” sembra aver toccato, nei nostri giorni, il massimo di attualità. La produzione multimediale è la proposta più frequente che troviamo evidenziata perfino nelle pur generiche e laconiche informazioni che ci vengono fornite dai tamburini giornalistici. La “multimedialità” è à la page, sembra essere l'unico sentiero atto a ricondurre delle più ampie frange sociali a godere dell'immaginazione artistica. Immaginazione concepita attraverso l'uso molteplice di una eventuale facoltà allusiva. Questa linea mi è estranea. Detto con molta umiltà: è come uno stimolo a cui non rispondo. Altra cosa è la presenza del testo in una musica: “il rapporto tra letteratura e musica oggi.”. Il tema riporta subito alla celebre discussione tra Nono e Stockhausen sulla opportunità della frammentazione delle parole nei testi di Canto Sospeso. Perché usare le parole se non sono percepibili? Nel rapporto fra musica e testo saremo sempre di fronte all'eterno diaframma tra significante e significato. Qualche anno più tardi Ivanka Stoianova scriveva in proposito: “il senso articolato linguistico, altrimenti detto significato linguistico, non può in alcun caso essere considerato equivalente ad un significato musicale, quale esso sia /.../ il senso musicale potrà essere definito come /.../ ciò che è successivo al senso articolato secondo il modello di logica discorsiva e che risulta dalle operazioni costitutive proprie dell'opera musicale.” Dunque l'architettura della musica e l'architettura della parola generatrice di senso di pongono agli antipodi. Soltanto nei due secoli Sette/Ottocento si è potuti arrivare alla fusione, all'assoggettamento della parola alla musica o della musica alla parola: vedi il fraseggio operistico. Nella musica del nostro tempo la parola avrà due sole possibilità. O potrà essere detta: recitata lanciando il suo significato fuori dal contesto musicale. O potrà essere cantata come suono, come espressione del corpo, come potenzialità di trasmissione di significato al di là della sua articolazione grammaticale.
Leggiamo in un testo di Corrado Bologna: Flatus Vocis: “prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole /.../ nella forma di enunciati verbali la voce ha già da sempre origine: c'è come potenzialità di significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità.”
Il testo avrà una funzione, mitica sarà un'esistenza lontana a cui potrò avvicinare la musica, o meglio il suono: per analogìe ed accenni senza mai coinvolgere la parola in una espressività lirica o tragica. Il fantasma del testo potrà e dovrà governare da lontano quella musica che ad esso si ispira, ma difficilmente potrà confluire davvero in una forma testuale cantata e articolata in modo lineare. Leggiamo in una delle Lezioni americane di Berio: "Un ricordo al futuro", un commento alla sua Sequenza III: “per coordinare e dare coerenza musicale ad un insieme così ampio di comportamenti vocali è stato necessario frantumare il testo, devastarlo per poterne distribuire i frammenti su piani diversi e ricomporli in una prospettiva musicale invece che discorsiva o narrativa.” E questo è ciò che per lo più accade nella musica del nostro tempo.
Nelle mie composizioni vocali, quali Anabasi (quattro voci femminili, testo di Aldo Rostagno), Perso per perso (sei voci , testo di Valerio Magrelli) I corpi minimi del suono (con baritono e soprano testo di Elio Pecora) avrò mantenuto fede a questa mia affermazione ideologica? Sicuramente no o non completamente. Ma come nella disciplina del rapporto musica e testo, ogni affermazione va presa come linea lontana di un riferimento allusivo possibile e probabile.
 
Roberto Beccaceci
Il rapporto che mi lega alle altre discipline artistiche è “relativo”. Intendo dire che la fruizione di un'opera letteraria o figurativa passa attraverso il suono, o – più precisamente – attraverso la mia concezione della musica. Sono affascinato dal movimento, da quel movimento che, forse, solo i suoni sanno creare col loro nascere e morire, col loro trasformarsi uno nell'altro. Devo puntualizzare, però: non un movimento di tipo vettoriale, ma circolare; non unidirezionale, come quello sviluppato nella musica di tradizione classico-romantica che vede, probabilmente, il suo apice nella teoria schönberghiana della variazione in divenire, ma un movimento che “nasconde se stesso”. Da vari anni, ormai, cerco di esprimere con la musica il concetto di stasi nel movimento, un concetto che ha rimandi squisitamente teosofici e che rappresenta il cardine del mio pensiero musicale. L'Universo è espressione di due forze contrastanti e complementari, una – potremmo dire – centrifuga e l'altra centripeta. La saturazione, l'armonia determinata dalla complementarità di questi due moti conduce alla stasi. Ecco, dunque, cosa intendo per movimento circolare. Osservando i fregi di certi capitelli posti sulle colonne delle antiche civiltà elleniche, troviamo, spesso, rappresentate due spirali: una si “espande”, andando dal centro verso l'esterno, l'altra si “concentra”, procedendo in senso contrario. Si tratta della raffigurazione di quanto ho appena detto, di una mentalità che concepisce la Vita non vettorialmente ma, appunto, circolarmente.
Tornando al tema, quindi, per vibrare all'unisono con un'opera artistica che non sia musicale ho bisogno di leggerla in base a tale codice. Per questo mi sento più vicino alla poesia che non alla narrativa; la poesia, per sua natura, ha la capacità di “fermare l'istante”, saturandolo di movimenti complementari, di flussi e riflussi che, armonizzandosi a vicenda, determinano una particolare “sonorità lirica”. Meno possibilità ha – da questo punto di vista – un romanzo o una novella, costretti come sono, in genere, a svolgere una trama, una serie unidirezionale di fatti. In questo senso sono più attratto da quel tipo di tecnica che definirei struttura nella struttura, inaugurata da Joyce e che – sul piano musicale – rimanda all'idea di stratificazione, un altro concetto chiave del mio modo di comporre. Ho letto, recentemente, L'Oratorio di Natale, dello svedese Göran Tunström; si basa su una trama molto complessa, dove le varie fasi della vicenda si svolgono contemporaneamente su più piani temporali. Un evidente esempio di struttura nella struttura è costituito dalla Grande Piramide di Keope, contenente – in base a recenti ricerche - la torre Zed, l'antichissimo monumento denominato anche Torre di Osiride.
Anche nella pittura, secondo me, avviene qualcosa di analogo; esiste pittura che si protende vettorialmente (come non pensare ai Futuristi, per esempio) o che “racconta” qualcosa secondo un piano del tutto naturale di sviluppo di linee, forme e prospettive. C'è, poi, una pittura dove la disgregazione centrifuga della forma suscita, nell'animo dell'osservatore, il desiderio di creare l'energia rifluente atta a determinare l'equilibrio del tutto (penso, in questo caso, alla grande lezione di Picasso) o dove sono evidenti i concetti di stratificazione (di simboli, anche, come in certo Dalì) e di struttura nella struttura. È quest'ultimo il genere di arte figurativa che sento più congeniale, dove ritrovo qualcosa di molto vicino al mio modo di concepire la musica. Conobbi, anni fa, Bizzarri, un pittore umbro forse non notissimo al grande pubblico, il cui lavoro mi ha fortemente preso. In molte sue opere gli oggetti producono una sorta di emanazione di loro stessi, sdoppiandosi come in una specie di meiosi cellulare, quasi si trattasse di antimateria in un universo parallelo. Non ho potuto fare a meno di sentire un modo di intendere l'arte del tutto analogo ai concetti che ho esposto, una pittura che nel mio animo si è trasfigurata in termini decisamente musicali. Ma un nome su tutti, non ho dubbi: Michelangelo!
Decisamente, sono più attratto dalla parola che dall'immagine; ad esempio, ho un rapporto pessimo con la fotografia, forse proprio a causa dell'esigenza di movimento. Ritengo che la fotografia sia un modo innaturale di “fermare l'attimo” e che generi una sorta di paralisi di quei flussi e riflussi che ho bisogno di captare in un'opera d'arte. Ma qui mi fermo, non potendo far altro che ammettere tutti i miei limiti in materia. In ogni caso, la mia “ispirazione” musicale passa principalmente attraverso la parola e, soprattutto, la parola poetica. Non di rado, comunque, mi accade di “mediare” una composizione attraverso immagini virtuali. Il caso più singolare, da questo punto di vista, è stato quello di Selanna, una Cantata per soprano e orchestra su frammenti di Saffo. I testi, tutti dedicati alla luna, pur nella loro brevità (o, forse, proprio in virtù di essa) suscitavano immagini molto precise e nitide nella mia mente; veri e propri quadri di pittori immaginari. Non ho fatto altro che descrivere, con i suoni, quelle raffigurazioni.
Assolutamente musicale è, sempre, il rapporto che ho con la poesia. Non posso fare a meno di leggere una lirica se non pensandola - potenzialmente - come un testo da musicare. Nel momento in cui trovo, in un testo poetico, quegli stessi requisiti che considero fondamentali per la mia concezione musicale, allora – e solo allora – riesco a penetrare la poesia in quanto tale, come pura essenza lirica. E non è affatto detto, a quel punto, che senta la necessità di musicarla. Probabilmente, devo a questo particolare approccio la scelta di musicare anche versi che un critico non definirebbe “autentica poesia”, ma il cui valore, secondo la mia personale ottica, risiede su un piano altro, trascendente le varie questioni di tecnica, di linguaggio e di stile. Non sono un esperto di poesia e rivendico il diritto di considerare tale quella che sa entrare in sintonia con la mia sensibilità di uomo, prima ancora che di musicista.
Schönberg. diceva che nel momento in cui si accostava ad un testo da musicare, la sua attenzione si posava su una piccola parte del testo stesso, la quale evocava, nella sua immaginazione, una particolare sonorità, un evento musicale ancora embrionale da cui, poi, si sarebbe sviluppata la composizione. Per me avviene qualcosa di molto simile. Considero il testo una sorta di “matrice formante” del lavoro che voglio scrivere, nel senso che i versi, oltre ad evocare immagini o sonorità ancora “grezze”, all'interno delle quali intuisco il lavoro finito (e qui potrei tornare a Michelangelo), determinano la struttura metrico-ritmica della composizione, nonché la sua articolazione formale. Generalmente seleziono dall'intero testo un verso o, comunque, una piccolissima porzione di testo che definisco verso/i-chiave. Essi costituiscono la sintesi espressiva dell'intero componimento poetico ed è proprio a partire da tali versi che ricavo le “impalcature” destinate a sorreggere il lavoro musicale. In sostanza, la struttura metrica dei versi-chiave si trasforma in una specie di talea metrica musicale; qualcosa, cioè, di molto vicino alla tecnica dei modi ritmici caratteristica della musica duecentesca. Tale struttura rimane costante, informando di sé l'intero testo e influenzando l'articolazione ritmica del brano, nel senso dell'organizzazione delle durate e degli accenti.
Anche se uso un testo in prosa l'approccio rimane il medesimo. Ad esempio, è in prosa il testo tratto dal Liber de exemplis et similitudinibus rerum del predicatore medievale Giovanni da San Gimignano, utilizzato in Homo similis est…, per voce maschile e complesso da camera. Ricordo che la “traduzione” del testo in strutture metrico-ritmiche è stata particolarmente impegnativa, complicata anche dal fatto che il lavoro si basa sulla recitazione del testo - modulata secondo varie inflessioni - mescolata al canto vero e proprio. Un altro caso particolare è rappresentato da La Leggenda del Vecchio Marinaio, basata su The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge. Si tratta di un lavoro “polimorfo”, in quanto può essere eseguito sia come musica a programma, sia – con l'aggiunta di una voce recitante – come melologo o azione scenica in un atto. Nonostante il brano sia stato concepito come poemetto per complesso da camera, durante la composizione mi sono posto il problema del rapporto col testo. Sapevo, infatti, che la prima esecuzione sarebbe stata in forma scenica e pensavo di realizzare - di concerto con l'attore, l'ottimo Gino Paccagnella - una “partitura recitativa”, come l'abbiamo definita. Sostanzialmente, si tratta di una sorta di “mappa” articolata in tre colonne contenenti il testo (una splendida traduzione e riduzione dell'originale realizzate dallo stesso Gino soltanto a musica ultimata), i riferimenti ai diversi episodi musicali e attacchi strumentali e le didascalie utili all'interpretazione del testo stesso. L'intenzione è guidare nella realizzazione del lavoro un attore che, non essendo esperto di grammatiche musicali, non possa proporre una propria versione dell'opera. Insomma, per dirla con Salieri, “prima la musica poi le parole”!
 
Tiziano Bedetti
Da sempre le varie manifestazioni artistiche per me sono costante fonte di ispirazione e arricchimento, legate in diretto rapporto con la musica. La lettura di un'opera letteraria può stimolare il processo creativo come la visione di un quadro, di una scultura o di immagini in movimento per quanto riguarda il cinema. Dilungarsi nel tentativo di dare spiegazione a questo complesso e misterioso meccanismo è cosa ardua, si tratta di associazioni emozionali che non hanno alcun ché di razionale. Piuttosto, trovo che i riferimenti alle altre arti ci vengono in aiuto per comprendere e spiegare meglio l'estetica, la poetica dei compositori e il loro linguaggio lungo il cammino della storia. Personalmente amo fare spesso paralleli pittorici che a mio avviso sono esemplificativi: Monet-Debussy, Scrjabin-Kandiskij, Webern-Mondrian, Picasso-Strawinskij, Vedova-Nono, Burri-Sciarrino.
All'inizio del processo creativo, ad esempio, alcuni miei brani, come Venetian DNA ed European DNA, posso dire che siano stati influenzati in qualche modo a livello subliminale da intuizioni dell'ultimo periodo pittorico di Dalì, ispirato alla biologia molecolare. Al contrario, varie situazioni del mio balletto The Seasons possono avere qualche riferimento con l'essenzialità delle antiche stampe giapponesi.
Per quanto riguarda in particolare la poesia, certe mie composizioni di apprendistato si ispirano esplicitamente a liriche di Quasimodo o Montale, come Nell'antica luce delle mare, tratta da Oboe sommerso o L'Agave su lo Scoglio, tratto da Ossi di Seppia. In un certo senso l'impressione che ebbi da queste letture determinò la forma del mio pezzo. Per me la musica è amplificazione della parola stessa. Quando scrivo per voce, ad esempio, prima leggo un testo più volte, cercando di assimilarlo. A poco a poco costruisco l'invenzione melodica sul ritmo della parola. La composizione così segue alla fine la struttura del testo, la punteggiatura, le pause, la suddivisione dei versi. Anche l'armonia e lo stile ne sono influenzati. Ricordo che l'ermetico linguaggio del Quaderno Gotico di Mario Luzi aveva dato modo di cimentarmi in una serie di madrigalismi che balzavano agli occhi anche a livello visivo sulla partitura della Lirica dedicata al poeta fiorentino.
 
Angelo Bellisario
Ho sempre avuto grande interesse verso la Poesia e la Pittura , per questo ho sempre cercato "testi" che potessero svegliare in me sensazioni e suggestioni "forti"; testi che da soli potessero suggerirmi equivalenze musicali, immagini e sviluppi (anche estremi) di queste immagini, in una ideale simbiosi con la Musica. Queste forme artistiche, appena recepite (ma solo se ci credo fortemente) diventano "temi", idee musicali già inserite in una precisa Forma e sempre suscettibili di sviluppi, di espansioni; per esempio Goldoniana - Suite Sinfonica per grande orchestra, su 5 Commedie di Goldoni – è una musica che modella i valori tematici sui caratteri di alcuni personaggi principali, tracciando e seguendo un discorso musicale organico, oltre che indipendente, lontano da ogni illustrazione oleografica. La caratura delle scelte melodiche e armoniche, il tipo di elaborazione (che non disdegna il contrappunto in molte sue forme ed il fugato) e il modo di risolvere le dissonanze, nonché il fantasioso trattamento timbrico, sono precisi punti di riferimento e sono consequenziali al tipo di linguaggio adoperato. Le Commedie sono: Le baruffe chiozzotte, La locandiera, Il ventaglio, Il campiello, I rusteghi.
Ed ancora potrei citare fra la mia produzione quella che utilizza testi: Tre liriche (da Quasimodo), Gli uomini vuoti (da Eliot), Il pensiero dominante, (autori vari d'ogni epoca e dei 5 Continenti), Due liriche (da Neruda), Quattro liriche greche (Autori greci contemporanei), Con ali lievi, fragili (da Autori cinesi a.C.).
 
Massimo Berzolla
Ad essere sincero fino in fondo, probabilmente provo una sorta di invidia, o di complesso di inferiorità latente, nei confronti di chi opera nel campo delle arti figurative e della letteratura. L'inafferrabilità del materiale sonoro, la sua dipendenza dall'evento esecutivo, solo in parte mitigata dalle attuali tecnologie di riproduzione, rendono la musica, tra le arti, una sorella “particolare”, come si dice del membro di una famiglia dotato di talenti sorprendenti, ma un po' fuori dalla norma, e quindi guardato sempre con un'attenzione mista a diffidenza, con simpatia velata di sufficienza, perfino con ammirazione mai però rivelatrice di un desiderio di reciproca reale comprensione. Non per ripetere il solito ritornello, ma certamente il fatto che la musica non rientri a pieno titolo nel bagaglio culturale dell'intellettuale medio influenza gli stessi musicisti (e musicologi) non solo nella percezione della propria competenza, ma, direi, soprattutto nel confronto con gli altri campi di espressione artistica. E se è vera la premessa di cui sopra, le conseguenze si possono trarre facilmente. E' questa un'autoanalisi impietosa, forse anche tendenziosa, della mia reazione pressoché costante al confronto con testi letterari o opere d'arte figurativa, che mi porta ogni volta a immaginare di trasporre nel mondo dei suoni elementi linguistici o tematiche o anche solo sensazioni indotte, colti da tale confronto. Come dire, in modo quasi infantile: “Questo lo voglio fare anch'io…”. O peggio, suscitando il sospetto di un inconscio calcolo: “Questo mi servirebbe…” Come ho detto, un'analisi velata di cinismo; ma il rischio di interpretare il forte richiamo all'unità dell'arte in chiave romantica impone una sana autoironia, che, come nella migliore satira, introduce, col richiamo ad una disarmata sincerità, al nocciolo “serio” della questione. Non nego quindi il fumo del sentire, l'ipersensibilità del creativo, la commozione dell'artista di fronte all'opera d'arte: lottando con il pudore, confesso tutto questo come esperienze che riconosco vere, stratificate in ricordi legati a un libro, a una mostra, alla visita di un luogo, a persone e momenti connessi a tutto ciò. Dal momentaneo stato d'animo conseguente al contatto con un'opera d'arte a quel complesso essere sensibile che si crea dall'insieme di tali esperienze, tutto influisce direttamente (direi inevitabilmente) sul mio far musica, anzitutto scriverla ma anche eseguirla.
Un'influenza che opera per analogia ma anche in antitesi, a volta come un'azione taumaturgica; ed è biunivoca. Se è accaduto che la lettura di Calvino mi abbia irresistibilmente indotto a scrivere un brano ispirato direttamente al suo romanzo (vedi Invisibili città), l'impegno nella composizione di un brano sacro mi ha stimolato a leggere un altro libro di Stefano Benni o viceversa a soffermarmi a cogliere il respiro spaziale di una grande basilica romanica (vivere tutto questo è meno banale che scriverlo o anche semplicemente tentare di comunicarlo…). Una visione new age spiegherebbe forse che avviene uno scambio di energia: in effetti continuo ad essere convinto che alla base dell'arte, nel momento creativo così come all'atto della fruizione, s'inneschi una catena reattiva di esperienze: singole e collettive esperienze umane. Va da sé che un musicista possa ricercare e vivere con cosciente attenzione tali esperienze nella potente trasfigurazione dell'espressione artistica. Fin qui un discorso che risulterebbe chiaro ai più, davanti a una classe di liceali come a un uditorio di intellettuali. E potrei addentrarmi nella stessa anedottica che riempie le biografie dei musicisti di ogni epoca. Ma le considerazioni più pregnanti riguardano l'aspetto strettamente linguistico, ammesso che i due piani possano essere disgiunti: musicare un testo è per me lasciarsi condizionare dalla sua struttura. Certo anche dai suoi contenuti, ma anzitutto dal suo ritmo, dalla sua forma, che, appunto, sono tutt'uno con essi: rispetto le strade diverse percorse da altri compositori nel mettere in musica un testo letterario, ma non sono le mie.
Un'altra equazione, a prescindere da un testo cantato, è: forma testuale = libere associazioni a strutture e simboli = forma musicale strumentale (vedi ancora Invisibili città e Porto sepolto). Ma la trasposizione alla musica di forma e linguaggio è altrettanto stimolante nel confronto con le arti figurative: costituiscono per me un richiamo continuo a ripensare, a tracciare e rimodellare con cura una composizione, perfino a mettere in discussione ogni volta il codice comunicativo utilizzato per scrivere musica. Il senso di tutto questo non può naturalmente prescindere dal fatto che rifuggo imposizioni stilistiche e d'altra parte considero un altrettanto vuoto tecnicismo comporre à la manière de: una vetrata gotica o uno Chagall suscitano emozioni liberatorie e diventano, direttamente, quando tutto tenta di tradursi subito in suoni, o indirettamente, più tardi nel tempo e senza un nesso dichiarato, come gocce distillate, nuove parti di un altro insieme.
 
Silvia Bianchera (Vedi sezione Saggi Donne in musica)
(con una testimonianza su  Bruno Bettinelli)
Molto spesso, tentando di spiegare un brano musicale (così come avviene qualora si voglia illustrare un dipinto di fattura egregia o modesta che sia) si parla di “forma”, di “contenuti”, di quanto, cioè, l'autore vi abbia voluto raffigurare, oppure rappresentare, oppure ancora esprimere. Penso invece che un'opera d'arte non debba proprio rappresentare nulla, se non se stessa nella sua unicità pittorica o musicale. Infinite sono le possibilità di colui che crea, e tutte hanno il diritto di essere espresse.
Capitolo a sé, ma che, comunque, non sminuisce il già enunciato, va dedicato alla musica vocale, nella quale troviamo due forme d'arte che si fondano in una sola: musica e letteratura.
Ovviamente è la musica ad essere composta successivamente al testo – ma esistono celebri esempi che attestano il contrario, soprattutto nell'Opera lirica: un celebre esempio di “prima la musica poi le parole” ci viene da Puccini che utilizzò una lunga frase tematica del suo quartetto per archi Crisantemi per il duetto finale di Manon Lescaut “son io che piango”.
Ma cos'è che fa scegliere al compositore un testo invece di un altro? Scritto nella sua lingua materna o in una lingua straniera? Cos'è che gli fa scegliere un semplice frammento o un'interpolazione fra poeti diversi? E quali sono le necessità? Tralasciando le possibili “non scelte”, causate da opere su commissione o d'occasione, la risposta si trova fra i segreti moti dello spirito creativo, cui si è cercato e si cerca con inesauribile insistenza di dare una spiegazione razionale, che io, preferisco lasciare sospeso per non rischiare di essere banale o superficiale.
Il musicista-compositore, che si presuppone persona colta, è sempre amante di ogni forma letteraria: non è quindi difficile che egli si imbatta in un testo che lo affascini in modo significativo e che gli faccia sentire “quel” brivido di eccitazione che, al suo manifestarsi, ogni artista ben conosce. Sarà poi l'inconscio creativo a elaborare il conscio del testo, arricchendolo e riproponendolo, anzi riproponendocelo, intriso di nuovi palpiti: sillabi, vocali, consonanti, fonemi si tradurranno in suoni, colori, e nessuna delle segrete vibrazioni insite nella parola rimarrà celata.
Mio marito Bruno Bettinelli, che alla musica vocale ha dedicato buona parte della sua attività compositiva, leggeva e rileggeva (raramente ad alta voce) testi sacri e profani di ogni Paese (spesso si divertiva a scrivere lui stesso i versi delle sue liriche da camera); amava soprattutto Ungaretti (“il mio Ungaretti” diceva) subito seguito da Montale. Volle in particolar modo musicare alcuni Inni di Sant'Ambrogio perché, diceva, gli davano un suono interiore: “li leggo e li rileggo, ed è come se li sentissi già musicati”.
Ildebrando Pizzetti, che era assai sobrio di parole, raccontò a mio marito come, in un certo periodo della sua vita, i sonetti In morte di Madonna Laura del Petrarca gli “scorressero dentro”, di come lo accompagnassero nella sua mente nel corso della giornata senza che egli lo volesse. Confidò a Bruno come ritenesse inutile e quasi blasfemo rivestire di note simili capolavori: “pur tuttavia, ne musicai tre” – aggiunse Pizzetti con un sorriso – “ma non fu scelta mia” – disse quasi a volersi schermire – “furono loro a chiedermi di essere musicati!”
Scelto dunque il testo, per il compositore si presenta l'enigma dello “stile”. Mi spiego con un esempio; consideriamo i succitati sonetti musicati da Pizzetti: all'epoca del Petrarca il canto profano era soprattutto sillabazione espressiva, derivata dalla cantilena romana, oppure era la vivace canzone a ballo e simili. Pizzetti è riuscito a mixare l'aura vocale trecentesca e la sua propria personalità compositiva, riuscendo superbamente in questa operazione a ritroso nel tempo donandosi tre piccoli gioielli, ove il pianoforte sottolinea ed esalta gli endecasillabi senza mai affossarli o appesantiti. Altra soluzione, che penso sia peraltro la più comune e onesta, è quella di non tentare in alcun modo di accostarsi all'epoca in cui visse il poeta ma di impiegare i propri mezzi compositivi così come fu fatto dai grandi musicisti: da Monteverdi a Mozart, da Palestrina a Cherubini, Schubert, Schumann, Wolf, fino ai recenti Stravinskij, Dallapiccola, Petrassi, Berio, Donatoni, Togni, Bettinelli ecc. Prendiamo ad esempio l'incantevole … ed insieme bussarono per voce femminile e pianoforte di Donatoni, su versi del filosofo indiano Kabir: il compositore talvolta frantuma le parole del testo, anticipa o posticipa l'ordine di successione delle sillabe, lasciandole fluttuare in un apparente disordine per poi ricomporle, là dove il significato semantico delle parole o il loro intento drammatico lo suggeriscano. La lirica del Maestro veronese produce in tal modo nell'ascoltatore un forte impatto emotivo denso di mistica, languida, dolorosa dolcezza.
E' l'inconscio della creatività musicale a svelarci sotto una nuova veste il recondito significato della poesia. Una nuova verità, quella sonora, prova (e spesso ci riesce in maniera sublime) a scrutare l'imperscrutabile del verso, e l'ascoltatore partecipa a sua volta fino in fondo a tale simbiosi, tanto da non riuscire più a separare le due cose, oramai fuse in un nuovo esempio di granitica, miracolosa forma d'espressione artistica.
 
Massimo Biasioni
Nella mia produzione musicale vi è un rapporto privilegiato con la letteratura, fin dalla scelta dei titoli dei brani (da Come? – e parimenti – Dove? da Joyce, a Der Rand der Trauer da Handke). Varie occasioni (fra cui l'importante amicizia e collaborazione con l'attore Giacomo Anderle) mi hanno portato a esperienze di musica con voce recitante e dunque con testi letterari in prosa. La mia non è una produzione vocale, ma la ricerca di un'espressione artistica che comprenda su un piano paritario musica e letteratura, facendosi in tal maniera “teatro”. La prima esperienza in questo senso fu Piktor per viola e due voci recitanti (1990), su una fiaba di Hesse. Subito mi resi conto che operazioni di questo genere richiedono un grosso lavoro sul testo, il quale deve essere alleggerito e ridotto, operazione che trovai impegnativa e che mi prese una bella fetta del tempo dedicato alla realizzazione del brano. Cominciai con questo brano ad affrontare la tematica del rapporto fra musica e “racconto”, alla ricerca di un equilibrio fra le due forme espressive in cui la musica non fungesse da semplice sottolineatura o peggio onomatopea, ma diventasse elemento fondante dell'operazione. Il successivo lavoro di rilievo risale al 2001: si tratta di Nietzsche contra Wagner, per voce recitante e musica elettronica, rappresentato in forma scenica, su testi di Nietzsche scelti e ordinati da Giuseppe Calliari. Qui il problema era il rendere fruibile lo scavo interiore del filosofo polacco intimamente provato dalla delusione provata per la rottura dell'amicizia con il compositore tedesco, utilizzando spesso la musica in senso dialogico: la voce recitante dialoga con la musica, la quale mima le risposte (eventuali…) del compositore, lo fa essere in scena non “fisicamente”, ma “sonicamente”. Un dialogo in cui ognuno agisce con i mezzi a lui più congeniali: le parole per il filosofo, la musica per il compositore.
In Uomini dell'aria (2001) ho elaborato un testo traendolo da Mister Vertigo di Paul Auster e da “Trattato di funambolismo” di Philippe Petit, sperimentando dunque l'uso di due testi diversi all'interno di un progetto unitario. La realizzazione finale prevede due voci recitanti (di cui una registrata), un quartetto con pianoforte e il nastro magnetico. Anche tale brano è stato rappresentato in forma scenica. L'idea è stata quella di agire su vari piani, sia per quanto riguarda il trattamento dei testi, sia quello musicale: il piano della narrazione, con il testo di Auster recitato dall'attore presente in scena e accompagnato dal quartetto, il piano più “poetico” con il testo di Petit presentato dalla voce registrata con musica elettronica, e un terzo piano dato dal convergere nel finale dei due piani. Il successivo progetto – Parole mutanti in campo virtuale su testo di M. Palladini, progetto tuttora incompiuto – prevede l'assenza di una voce recitante reale, a favore del testo espresso con mezzi elettronici tramite tecniche di risintesi vocale, alla ricerca di un teatro in cui sia abolito l'elemento attoriale, sostituito con una danzatrice, proiezioni video ed un sofisticato progetto di light designing. /.../
 
Michele Biasutti
Il rapporto che ho con la letteratura, la pittura e le altre forme artistiche è di stimolo, confronto e collaborazione. Lo stimolo scaturisce dall'analisi delle opere di vari campi per rilevare come si può manifestare la creatività in diversi settori. Mi colpiscono le opere che forniscono sollecitazioni e fanno pensare su come sono state concepite. Il confronto è indotto da un processo di crescita e dalla necessità di verifica del percorso intrapreso. La collaborazione nasce dalla ricerca di momenti di condivisione per sviluppare progetti nei quali trovare insieme soluzioni originali. Il lavorare in gruppo è complesso ma stimolante, e fornisce scelte inaspettate. Nel periodo attuale molti compositori si esprimono con mezzi e tecniche che travalicano la sola musica, collegandola alle altre arti. In questo modo realizzano opere di contaminazione nelle quali la musica non è il solo tramite. I cambiamenti del clima culturale e dei supporti produttivi costringono i compositori a confrontarsi costantemente con ciò che accade a livello artistico nel mondo e il collaborare diventa indispensabile.
Riguardo alla pittura, per me sono molto stimolanti le opere grafiche di Maurits Cornelis Escher basate sull'applicazione artistica di fenomeni studiati nel campo della percezione visiva. Questi lavori disorientano il fruitore per la discrepanza tra ambiente fisico e realtà fenomenica, ma stimolano l'analisi e la riflessione. Si caratterizzano per un notevole lavoro di ricerca sulle proporzioni e sui giochi di prospettiva per creare mondi fantastici e impossibili, che contraddicono le leggi della fisica. Nel mio lavoro di compositore induco questi processi a livello uditivo, agendo sulla sfera spazio temporale della percezione applicando le “illusioni musicali” studiate nel campo della psicologia della musica.
La poesia entra nella mia musica come momento ispiratore, fornendo suggestioni, immagini e stimoli di riflessione. Mi interessano particolarmente i testi scritti da autori viventi, poiché c'è la possibilità di incontrarli e di condividere sensazioni e idee, anche se non disdegno autori “classici”. Nelle mie composizioni utilizzo sovente la voce con più principi: come testo recitato da un attore, come testo intonato da un cantante o come testo per stimolare gli esecutori. Le modalità variano a seconda se l'intendimento è di interpretare o di sperimentare. In lavori come Nding Ndang Ndung Ndeng Ndong (1998), opera didattica per coro, orchestra e due attori, il testo è recitato dagli attori e cantato dal coro avendo come riferimento il rispetto e la perfetta intelligibilità. Anche altri brani sono stati concepiti in maniera strettamente funzionale al testo come Ultimo canto di Saffo (2000) per piano e voce recitante commissionato dal pianista Bernardino Beggio, una serie di immagini musicali in collegamento alle liriche di Giacomo Leopardi, e Foto di Mare (2004), per clarinetto basso, fisarmonica e voce recitante sulle liriche di Umberto Piersanti. In questi brani ho cercato delle assonanze e un contesto musicale per i testi poetici.
In altri brani ho lavorato integralmente sulle parole cercando un'approssimazione tra le necessità espressive del testo e la sua funzionalità musicale. Ad esempio in Anemos (1996) per soprano, viola e clarinetto basso su testi di Cristina D'Onofrio, la poesia diventa soffio, vento, forza sconosciuta della quale l'uomo non conosce alcuna “immagine”. Per ricreare le suggestioni evocate dal testo, la voce è utilizzata con particolari sonorità come suoni parlati, toni afoni, sussurrati in una ricerca continua di onomatopee sonore per richiamare elementi primordiali come il soffio e il respiro. Gli strumenti fanno eco a questo processo indirizzandosi verso timbri eolici e fruscii sonori, amplificando e risuonando alcuni suoni vocalici. Gli strumenti sono utilizzati con “mentalità elettronica”, come se fossero generatori di frequenza più che produttori di note, con l'intento di produrre musica elettronica a partire da strumenti acustici. In questo contesto il timbro diventa una variabile compositiva del processo di scrittura. Per ottenere un simile risultato è necessario avere una conoscenza approfondita degli strumenti musicali e della voce, oltre che al loro utilizzo nell'ambito dell'armonia tradizionale anche per gli aspetti fisici acustici. Ad esempio conoscere come cambiano le caratteristiche dello spettro del suono prodotto dagli strumenti secondo il registro o la dinamica è importante per un utilizzo “spettrale” degli strumenti. I brani possono così nascere ed essere influenzati da uno studio diretto degli strumenti che producono suono, tenendo conto delle loro peculiarità fisico acustiche. Vi è la possibilità di sviluppare una composizione partendo dalla natura sonora degli strumenti piuttosto che cercare di conformarli in rigidi schemi extramusicali come avveniva in passato, ad esempio con il sistema tonale, la politonalità, la serialità e il puntillismo.
In generale quando uso un testo ho la necessità di leggerlo e rileggerlo fino a interiorizzarlo, aspettando che risuoni dentro di me per suggerirmi delle immagini sonore corrispondenti. I testi che ho utilizzato sono stati evocativi e avevano una forte connotazione sonora. In questo ambito alcune parole acquistavano un ruolo chiave. Tuttavia è difficile stabilire dei processi universali, poiché ho scritto ogni brano con modalità originali. In Scatola grigia (2000), per soprano e sassofono, il testo è stato sezionato e articolato in piccoli episodi, ognuno dei quali con una propria fisionomia, con un proprio ambiente sonoro, con una propria atmosfera. L'organizzazione formale del brano seguiva una serie dedotta da due date applicate prima al valore delle pause e in seguito a quello delle note. Lo spazio tonale è stato limitato a intervalli compresi in una terza maggiore per poi ampliarsi progressivamente. Nel brano sono stati proposti particolari effetti con la voce, che riproduce effetti simili a quelli di uno strumento a percussione.
Il mio percorso di sperimentazione sonora sulla voce ha trovato un momento saliente con l'utilizzo di dispositivi elettronici. In Black Angels (1996), per soprano viola, clarinetto basso ed elettronica dal vivo, un canto di solidarietà umana, la voce è stata oggetto delle elaborazioni in tempo reale di dispositivi elettronici. Il brano, con un uso dilatato del materiale, ricreava le atmosfere allucinatorie e angoscianti a rappresentazione dei Black Angels, con l'intento di portare l'ascoltatore in dimensioni altre, nelle quali vi era una modificazione delle capacità sensoriali. Il brano si sviluppava formalmente su piani paralleli:



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