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Jazz oggi
Jazz oggi
 
 
 
Dall'agosto del 2012 sono stato nominato dalla Provincia di Lucca quale Direttore artistico del progetto Sonata di Mare, che coinvolge le regioni Toscana, Liguria, Sardegna e Corsica. Il progetto prevede che ogni regione valorizzi il proprio patrimonio di musica autoctona ma non riproposta in maniera filologica ma attraverso il linguaggio aperto del jazz.

Dal 1994 al 1998 sono stato Consulente musicale del Teatro del Giglio di Lucca per il quale ho organizzato concerti in Teatro e nelle belle piazze cittadine, inoltre ho diretto il Festival internazionale Anfiteatro Jazz, dove, in 4 anni, sono passati nomi internazionali, come Petrucciani, Waldron, Konitz e altri, e dove ha suonato tutto il meglio del jazz italiano, compresi i musicisti emergenti toscani. Sia prima di questa esperienza sia oggi ho seguito e continuo a seguire il mondo del jazz (io stesso, anni addietro, ho suonato qualcosa). Amico di Giorgio Gaslini, ho anche altri amici, se non così importanti senz'altro altrettanto cari che mi fanno partecipe all'attualità del jazz italiano, straordinario negli anni Settanta/Ottanta, un po' in calo adesso.
 
Qual è il ruolo della musica nell'epoca della globalizzazione? Quello di far cooperare i vari linguaggi, in modo che ognuno si apra all'accoglienza dell'altro, divenendo il viatico al dialogo fra uomini di culture differenti. Il pensiero occidentale è l'unico ad aver elaborato un sistema di analisi all'infinito (il concetto di complessità, imperante nel secondo dopoguerra), ma a questo pensiero mancano ora nuove energie, quelle che sono portate dalle differenze culturali, poiché ogni diversità è un nuovo valore, un elemento propulsivo che deve creare davvero l'arte dei popoli. Il jazz, e soltanto il jazz ch'è nato bastardo, è la sola musica che ha fatto proprie queste tematiche e che ha capito che per tradurre la materia sonora in senso occorre aprire i linguaggi alla trasversalità, così facendo il musicista diventa un vero viandante, colui che abita il mondo errando, andando e sbagliando, imparando dal viaggio e dagli errori, un viaggio esperiente che più si apre al mondo e più in sé si racchiude, metabolizzando il viaggio esterno in conoscenza e la conoscenza in accoglienza: è l' ethos del pellegrinaggio, in fondo un ethos ch'è l'essenza stessa della vita del jazz e che oggi più di ieri diviene imprescindibile.
 
Queste problematiche erano già presenti fin dagli anni Sessanta, ma, allora, era più difficile saperle leggere e riguardavano più la musica americana che non quella italiana. L'attuale globalizzazione è l'apologia del denaro e dell'egoismo, il cosiddetto “villaggio globale” non è molteplice, ma dominato da un pensiero unico ch'è quello imposto da una sorta di sovra-Stato-azienda che ragiona secondo una logica monetaria La musica deve entrare a cuneo nella grigia compattezza del conformismo e assumere su di sé la responsabilità di un messaggio nuovo, quello di far riflettere la gente sul senso della vita. Per far questo la musica non deve essere autoreferente, deve smetterla di guardarsi allo specchio dicendosi quant'è bella, calandosi, con umiltà, fra la gente. E il jazz fra la gente si è sempre calato, meglio e di più dell'algida musica classica, spesso intellettualistica e formalistica per "adetti ai lavori", meglio e di più delle pop e rock-star, troppo alla moda e troppo legate al soldo delle major.
 
L'opera d'arte del nuovo millennio ha una sfida davanti a sé, quella di dover diventare un polo di connessione fra culture, ciò che il jazz ha sempre tentato e che ora diviene fondamentale per la cultura in genere. L'eurocentrismo è in crisi, siamo tutti extra-comunitari, nel senso che nessuno può più riferirsi a un unico modello forte d'interpretazione della realtà. L'arte è più libera di altre manifestazioni legate ai processi economici, deve sfruttare questa sua (parziale) indipendenza per diventare un modello e(ste)tico di co-esistenza con l'altro e per far questo deve compiere un gesto di pace, contraendo l'estetica in etica. La pace = pactum è un medio, un ponte che connette gli op-posti, l'una cultura all'altra, realizzando un'opera solidale e partecipe ai fatti del mondo. E' certo che questo impegno sociale, pur con referenti diversi, è stato più forte nel passato che nell'oggi, dove i giovani musicisti rampanti sono troppo attratti dagli interessi personali. Non è un caso che dagli anni Novanta a oggi il rapporto del jazz con l'esigenze collettive si sia affievolito, scarso è l'impegno sociale e scarse sono le attenzioni ai bisogni che provengono dal basso.
 
Le culture diverse si connettono fra loro perché all'una manca la verità dell'altra, ma proprio in questa mancanza occorre riconoscere ciò che le accomuna. Le differenze culturali sono un nuovo valore, un elemento propulsivo che deve creare l'arte dei popoli. L'indispensabile capacità di compromesso con la banalità presunta della vita quotidiana è, nella società di massa, un pregio non un difetto, fatta salva, sempre e comunque, la qualità dell'opera. Ma la partecipazione sociale della musica non può configurarsi con quello ch'è stata l'art engagé degli anni Sessanta e Settanta, perché non può essere inchiodata all'attualità, la musica trasfigura la realtà che si rispecchia nell'immediatezza delle cose, è un qualcosa di particolare che sposa senso comune e utopia. Assumere l' utopia significa avere lo sguardo lungo, uno sguardo che permette di andare al di là del proprio orticello, per poter abbracciare il senso generale, per comprendere la molteplicità, per approdare a una sorta di pensiero ecologico, che depura gli interessi personali per andare incontro a quelli collettivi, e per approdare anche a una sorta di geo-arte, di un'arte che più che storia è geografia, solidale alle culture del mondo e relazionata alle tematiche contemporanee.
  
Il pensiero critico, che ci proviene dagli anni Sessanta/Settanta, si pone contro una musica cortigiana, asservita al potere economico, contro una musica easy, che si sintonizza sull'effimero, ma anche contro una musica da museo, da revival. Tutto questo ce lo hanno insegnato quegli anni irrisolti, che hanno gettato le basi per una nuova coscienza critica (purtroppo oggi molto disattesa).
 
Meglio della musica colta, il jazz, in specie quello dei decenni passati, ha saputo tematizzare il rapporto fra la comunicazione psicologica del proprio io collettivo e la forma musicale, autoreferenziale, attenta al suo costrutto, facendo in modo che l'opera non sia né un dirsi né un detto. L'esclusiva attenzione al dirsi (usando una terminologia levissiana) ha condotto a un'opera dicente il dire, che parla solo di se stessa, del come è realizzata, esaurendosi nella propria composizione, senza relazionare il proprio segno all'uomo e al mondo, senza aprire la struttura del logos al lo spazio collettivo dell'ethos. Al dirsi di un jazz molto tecnico s'è contrapposto il detto di un jazz romanticheggiante; la chiusura che nel dire è messa in atto dall'esclusiva ricerca sul testo, nel detto è rappresentata dall'orizzonte angusto, dal rispetto ossequioso della tradizione, dei rischi dell'accademismo e del qualunquismo. La vera opera d'arte deve invece porsi come un dire argomentato che parla agli uomini. Non occorrono più, nell'attuale situazione, approfondimenti tecnici sempre più sofisticati, né ermeneutiche all'infinito, occorre invece una forma mentis meno manageriale e più collegata alla verità del vissuto individuale e collettivo.
 
Il grande jazz del dopoguerra è nato, più o meno esplicitamente, con le stigmate della sofferenza e della ribellione contro i poteri che hanno massificato la polis moderna, contro l'arte ridotta a merce. Le pratiche delle Avanguardie hanno però descritto questa situazione con un atteggiamento sacrificale del linguaggio, mimando con un fare artistico e nevrotico la nevrosi dell'uomo moderno: è una risposta coerente e di grande forza morale che merita rispetto, ma se lo scopo non è solo quello della denunzia, ma anche quello della risposta, allora le ricerche delle Avanguardie hanno offerto responsi negativi oppure astratti e settoriali, in quanto difficilmente comprensibili perfino dagli specialisti. L'artista dev'essere però anche un educatore e il suo atto dev'essere un atto responsabile di fronte agli uomini e non agli addetti ai lavori.
 
Ma chi può fare “una politica culturale attenta alle diversità e al nuovo”? si chiede Paolo Damiani, probabilmente nessuno perché le gestioni politiche di destra sono fuorigioco, in quanto costituzionalmente conservative e legate a un pensiero forte, quindi poco attente al nuovo e poco propense al dialogo con l'altro, con l'extra-comunitario, con i senzaterra, con gli ultimi (con tutti coloro che il jazz ha sempre fatto propri). Ma anche le gestioni di politica culturale di sinistra sono incapaci di una reale dialettica fra culture diverse e fra ricerca e tradizione. Stiamo assistendo a una situazione analoga a quella ricordata da Giorgio Gaslini quando, nel 1976, “una forte avanzata della sinistra indebolì la pulsione all'autogestione”. Così oggi vediamo l'appiattimento sul bonismo, sul perbenismo, sul pensiero unico, un'omologazione verso la massa e il dio denaro: la sinistra al potere vuole conservare il proprio ruolo egemone. Nella palude politica chi può veramente svolgere un'ampia politica culturale a favore delle novità e del dialogo fra le multiculture? Forse potremmo contare solo su piccole vittorie tattiche, vittorie più personalistiche e di settore che di generale strategia culturale.
 
Chi scrive è stato membro fondatore della Federazione Italiana Compositori, costituita per difendere la dignità dei compositori schiacciati dal qualunquismo e dalla merceficazione imperante e per divulgare la musica dotta contemporanea. La Federazione ha trovato molte resistenze (SIAE, poteri istituzionali, major editoriali e discografiche ecc.) e poca collaborazione interna. Ha ragione Gaetano Liguori quando parla di “scarsa coscienza sindacale”, legata a un naturale individualismo degli artisti in genere, non dovrebbero quindi essere gli artisti in prima persona a gestire Federazioni para-sindacali, ma persone affidabili per l'impegno, esperte in problemi economici, politici e sindacali (evitando così anche i sospetti che gli artisti che gestiscono queste Federazioni lo facciano pro domo sua).
 
Gli ideali della sinistra – quella di cui parla Carlo Actis Dato – “quell'atmosfera di grande entusiasmo collettivo” dove sono? Non si tratta di dire “qualcosa di sinistra”, ma di fare qualcosa d'intelligente per la gente, al di qua della “piaga dei mega festival mangiasoldi” e al di là degli interessi personalistici e partitici. Nell'annacquamento dei valori e nel qualunquismo politico generale si punta all'"evento", a un effimero che fa immagine, ma chi elabora progetti di ampia gettata? Chi pensa all'informazione e all'educazione? E chi alla scuola (il progetto dell'AMJ dovrebbe essere solo una base di partenza).
 
“Dialogando s'impara”, dice il titolo dell'inchiesta promossa dalla Rivsta "Musica jazz" (inchiesta che utilizza gli anni Settanta come cartina di tornasole per l'oggi), ma chi dialoga veramente? Molti fanno finta, generosi solo a parole, quando occorrerebbe una reale accoglienza e partecipazione, in tutti, negli operatori culturali e nei politici, nei critici e nei musicisti. Solo se questo dialogo si realizzerà potremmo sperare nella realizzazione di una nuova musica totale. Gaslini docet.
 
 
 
Dalla Rivista "Musica Jazz", Milano 1999.
 
 
 
 Vedi intervista http://federicofavali.wordpress.com/tag/renzo-cresti/http://federicofavali.wordpress.com/tag/renzo-cresti/




Renzo Cresti - sito ufficiale