Il punctum e lo studium, l'antimetodologia
Studium - PunctumV'è un'evidente incapacità del sapere accademico, più dottrinale che profondamente consapevole della cultura viva, a leggere con partecipazione e ampiezza di vedute i (f)atti in movimento come quelli contemporanei; si tratta di un nozionismo specialistico che fa ricorso a una fissità ermeneutica legata a schemi preordinati, che prendono autorevolezza proprio dalla storia della loro fissazione (si legittimano da soli). Ma ogni regola nasce e muore, insieme ai sistemi che contribuisce a formare. I metodi eruditi sono storicizzati fermi alla musica (post)seriale, appena rivisti da una spolveratina post-moderna; non sanno inventarsi i percorsi interpretativi in relazione alle dinamiche storico-sociali e portano, anche incosapevolmente, a un revisionismo normalizzante tipico di ogni accademismo. Al contrario è di una metodologia altamente creativa che la musica di oggi abbisogna.
Potrebbe trattarsi di una problematica simile a quella della differenza fra metodologie utilizzate in poesia (o in certa antropologia, per esempio) dove c'è humus e pathos, e metodologie di provenienza filosofica, soprattutto di stampo razionalistico, dove occorre distacco emotivo e controllo del principio di non contrasddizione. Oppure potremmo dire altrimenti, della diversità fra metodi di pensiero che sondano il mistero/misticismo (come quello teologico, per esempio) e che quindi sanno di dover render conto, in partenza, dell'ineffabile, e si pongono in maniera interrogativa, e di procedimenti sistematici (come nella teoretica, per esempio) che puntano alla descrizione e alla risposta. Negli esempi delle prime metodiche si mette in gioco l'uomo con i suoi bisogni primari, nelle esemplificazioni dei secondi criteri si tratta soprattutto di prassi logiche: i primi sono metodi pieni di calore e colori, i secondi volutamente raffreddati e in bianco e nero.
Lo studium è naturalmente necessario che sia attento, sollecito, profondo, intenso, ma se non è colpito dal puntum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes, il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, mi punge e mi prende e mi permette di accedere a un infra-sapere, a un "sapere" esperiente più piccolo e (s)fuggente che l'analisi razionale non coglie, una conoscenza che supera ogni riferimento codificato e mi concede di cogliere ciò che, sempre Barthes chiama, "l'aria di un volto /…/ il supplemento intrattabile dell'identità /…/ il riflesso del valore di una vita /…/ l'ombra luminosa che accompagna l'oggetto", è l'"aria" che il filosofo cerca di cogliere nelle fotografie, come spiega nella sua Camera chiara (Einaudi, Torino 1980), quando l'oggetto diventa un concentrato di sguardi che producono avventura, ossia quell'atto per il quale l'oggetto (d'arte) avviene. L'aria, lo sguardo, la luce dell'occhio, la scintilla dell'avventura, così come tutte le parti che animano l'oggetto, sono "intrattabili" con le metodologie consuete, sono aspetti ineffabili che trattano di un di più che si riferisce non tanto alla forma e alle tecniche con cui l'oggetto viene com-posto, ma alla pienezza dell'Essere che questo oggetto possiede e comunica: non si tratta né di misticismo né di romanticismo, in quanto tale pienezza dell'Essere non è aggiunta, non sta né prima né viene dopo l'oggetto, ma appartiene all'oggetto nel suo costituirsi tecnico-formale, l'Essere è dunque connaturato all'esserci.
E' chiaro che ogni pretesa filologica risulta quasi ridicola, è impossibile analizzare, con i metodi accademici, le influenze, i debiti e le provenienze degli elementi tecnici che l'opera subisce nel momento iniziale e nel suo farsi. Ogni aspetto rimanda a una serie infinita di relazioni, tanto che la pretesa filologica di studiare l'opera come un oggetto saldo e immobile, fa l'effetto sgradevole di una vivisezione, approdando solo a una mera enunciazione. Il rigor mortis metodologico non appartiene solo alla filologia di stampo accademico, ma anche a tutte quelle discipline (sociologia, psicologia, antropologia, filosofia, storiografia ecc.) che non hanno saputo mettersi in discussione, problematizzandosi con la complessità caotica del Moderno e di ciò ch'è stato chiamato il post-Moderno, dottrine perennemente fedeli a se stesse che giacciono beate nella rassicurante cavità della tradizione post-ottocentesca. E' solo una mobile e agile anti-metodologia che può portarci fuori dalle pastoie di schemi e formule, di pensieri già pronti e adattati all'occorrenza, lontano da quella omologazione che spadroneggia fra compositori, interpreti e musicologi, sempre più risucchiati in una melassa dolciastra, tanto più stucchevole quanto ammantata di (falsa) scientificità (in realtà conforme allo standard del pensiero revisionistico).
Le analisi para-scientifiche sono utili per inquadrare l'operare e l'opera, per illustrarne le problematiche, sono funzionali alla spiegazione, ma debbono servire come base rigorosa sulla quale poggiare l'uomo, il suo io plurale e sociale, il suo infinito interiore, altrimenti, se ci si ferma al mero dato di fatto tecnico-analitico ci si adegua al perbenismo del pensiero unico che rimpicciolisce l'uomo, dando spazio alla tecnica, che pare neutra e sopra le parti, quando in realtà è utile più al mercato che ai bisogni primari dell'uomo, il quale non ha più (s)campo. Si corre il rischio che sotto il manto rigoroso (e inibente) della tecnologia non ci sia un'esistenza, ma solo un esserci senza essere, un mero oggetto esposto in termini comparativi e/o descrittivi, una presentazione degli elementi costitutivi la musica che col suono, con la sua vita e natura, col suo protendersi attivo e voglioso d'uomo, poco hanno a che fare e quel poco gira attorno al suono, gli sta prima o a latere, mai gli entra dentro, nelle viscere e nel cuore. L'analisi è dunque la partenza non il fine di una metodologia che tende ad abbracciare l'opera, a com-prenderla nella sua essenza oltreché nella sua presenza.
Non si tratta di essere contro la scienza analitica che deve servire da sponda per non lasciarsi andare a considerazioni volatili che con l'oggetto in questione han poco a che fare, semmai si può essere contro la sua apologia che, dal Positivismo in poi, ha inondato la nostra vita. Si è anche dubbiosi sullo strapotere della tecnica, la quale non è una panacea assoluta, e sull'arroganza del Metodo, che stritola se non compensato dall'intuizione e dalla fantasia. Tematica vecchia, già dal 1927, con I pensieri sulla tecnica di Guardini, e poi con La mobilitazione totale di Junger, L'uomo e la tecnica di Spengler, su su fino alla Crisi delle scienze europee di Husserl (1936), cautele e perplessità rappresentano l'altra faccia della medaglia del secolo XIX, il secolo delle tecnologie e dei Sistemi trionfanti (autoritari in politica, come nella società e nella cultura). Un secolo breve, com'è stato definito (non tanto per la velocità dei fatti, quanto per la rapidità della loro divulgazione, una celerità eccessiva per i ritmi naturali della coscienza), ma la drammaticità di questo secolo lo rende lunghissimo a sopportare. Non abbiamo bisogno di ulteriori approfondimenti da un punto di vista tecnico, scientifico e filologico, ma di profondità umane, anzi gli elementi legati alla tecnica e alla metodologia si sono fatti fin troppo prepotenti e, senza cadere in alcun lido neo-romantico, occorre affermare la libertà da ogni Metodo, l'indipendenza da ogni Scienza, presunta o reale che sia, perché la coerenza di un Sistema è un presupposto necessario all'ordine formale, ma non sufficiente, come dice il Boulez che ha superato il deteminismo meccanicista della fase struttualistica (siamo nel 1975, con Par volonté et par hasard), "l'opera non è valida quando la tecnica non è abbastanza flessibile".
Occorre passare dalla questione del metodo al metodo messo in questione.
Da Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica, l'e(ste)tica della bellezza, Edizioni il Molo, Viareggio 2007.