Al di là dei generi omologati e degli stili consolidati. La Border music è un (f)atto eccentrico che eccede ogni centralità, ogni stare, ogni modo compiuto, per non lasciarsi imbrigliare nelle maglie dei generi omologati e degli stili consolidati.
Negli anni del secondo dopoguerra si è assistito all'affermarsi dello Strutturalismo, propaggine estrema della cultura occidentale, da sempre idealisticamente razionalistica, una tendenza autoreferenziale che si guarda allo specchio. L'esclusiva attenzione al dirsi ha condotto un'opera dicente il dire, che parla solo di se stessa, del come è realizzata, esaurendosi nella propria composizione, senza relazionare il proprio segno all'uomo, senza aprire lo spazio stringente del logos allo spazio collettivo dell'ethos. Come nella filosofia della religione, il termine logos non dev'essere tradotto con ragione, ma con rapporto, essere con, dia-logos. L'opera deve aprirsi alla propria trascendenza, il suo testo non può essere racchiuso negli angusti spazi del formalismo, ma deve co-esistere con differenti testi, col-loquiare con tendenze disparate, co-operare con l'altro al fine di raggiungere un testo che sia anche con-testo, inglobando forze ed energie molteplici, realizzando un'opera plurale.
Oggi siamo pieni di opere ben fatte, che danno un senso di falso, di ricercato: la storia (della musica) è piena di opere siffatte, che non provocano alcuna emozione, che deludano o lasciano indifferenti, perché manca loro il viaggio, quello geografico-culturale e quello interiore. Sono opere sedute, buone per i borghesi soddisfatti, da sempre chiamate "accademiche". Non è vero che il pubblico non sia ricettivo, il fatto è che gli sono state propinate per troppo tempo cose astruse, mentre l'ascoltatore, quando è in presenza di una testimonianza vera, di una musica vissuta, sa apprezzarla e sa collegarsi emotivamente a quell'opera, avviene infatti il miracolo dello scambio del flusso di energie. Il compositore deve parlare sul come l'opera è realizzata, ma anche del cosa e del perché, delle esigenze e degli scopi che lo hanno spinto alla scrittura.
Alla fine del millennio siamo ritornati a temi da tardo impero, assistendo al passaggio dal concetto di libertas a quello di securtas, ossia all'approdo verso l'egoistico possesso, sicuro e garantito, dei propri beni, da godere con ogni comfort, lasciando fuori il nero, lo sporco, l'altro, tutto ciò che non rientra nel perbenismo. La padronanza stilistica è intesa come un bene da godere e da cui trarre vantaggi. La scrittura è stata troppo spesso messa a punto in laboratorio, bianca, pulita, propria, perbenistica, ora questo scrivere che gira intorno a se stesso sembra incepparsi perché non è più in relazione alle coordinate del tempo attuale, e mostra segni di stanchezza. La musica dovrebbe farsi viatico intelligibile di comunicazione fra gli uomini, non nell'ingenuo senso romantico che vede la musica come l'arte universale, ma in quello di dar corpo a una forma plastica che accolga in sé, come forma mentis ancor prima che tecnicamente, il senso della molteplicità, il rispetto dell'elemento contrario, la con-vivenza con le esigenze di tutti, per realizzare la geo-musica, una musica che più che tempo è spazio, più che storia è geografia, solidale alle culture del mondo (1).
Occorre dormire poco sulla pagina e andare molto nel mondo. Chi va in giro per le culture del mondo non abbia paura di perdersi, perché, comunque, ci si porta sempre dietro tutto ciò che abbiamo, anche la febbre. La Terra e l'Aperto del Mondo, direbbe Heidegger, stanno in rapporto fra loro e l'uomo transita in questo "fra". Anche il compositore intraprende un viaggio fra Terra e Mondo. Si prenda il caso della musica a Napoli, città dalla ricchissima, vasta e profonda cultura antropologica, proprio in questa terra dalla sensibilità vibrante verso la musica, le radici profonde hanno fatto crescere un albero vigoroso con tanti rami, producendo un'interessante ramificazione sonora, che ha caratteri di un'altra avanguardia (2), che parte da Eugenio Fels eppoi prosegue con Luciano Cilio, tocca alcuni aspetti della produzione di Gabriele Montagano, Giusto Pappacena, Giancarlo Sica, Carlo Mormile, fino ad arrivare a Girolamo De Simone, catalizzatore di importanti progetti e di musicisti di Border music.
Chi fa della sua opera un viaggio viaggia sempre, anche quando sta seduto davanti alla partitura, perché vede sempre nuovi paesaggi sonori e uomini diversi, utilizzando la fantasia.
L'esperienza del viaggio è interiorizzata, più va verso il mondo e più entra in sé: è un cammino esperiente che pone relazioni fra esterno e interno, un esodo fra le musiche del mondo e che, tuttavia all'interno di sé si compie. Chi viaggia sta fra l'esodo e l'avvento.
Viaggiare alla scoperta delle musiche è alimentare anche un ascolto interiore, perché il viaggio non si estende solo in orizzontale, ma anche in verticale. E' l'ethos del pellegrinaggio che la Border music mette in opera.
Il musicista che viaggia non ha meta, l'unico scopo è il viaggio stesso. Eccede sempre ogni punto di arrivo. Ciò ch'è grande nel musicista non è quello di mettere a punto uno stile o una forma, ma quello di costruire ponti, passaggi, superare demarcazioni. Esaltare l'io plurale.
L'io plurale si mette, naturalmente, in gioco, insieme agli altri, formando una reale comunità di musicisti, producendo un'opera collettiva, come avviene, da sempre, nel migliore jazz, nato bastardo e collettivo, e come avviene oggi nelle contaminazioni intra e infra generi (come per esempio nella musica dell'Harmonia Ensemble), nella musica ambientale (Brian Eno), nella video e computer music (Pietro Grossi), in alcuni settori della contemporanea colta (Part, Gorecki per esempio) e della Minimal (Adams e altri). Interessante è l'attuale scena di Chicago, dove vi sono molti musicisti intenti ad abbandonare gli steccati fra colto e pop, jazz e rock, demodè e up-to-date, passando da un Ensemble all'altro, creando cifre stilistiche mutevoli realizzate grazie al senso di condivisione di una voglia comune di una musica senza confini.
Il problema principale di queste tendenze può risultare quello tecnico, in quanto non sempre la realizzazione degli elementi tecnici-formali risulta impeccabile e se l'arte non fornisce sicurezze dal punto di vista dell'alto artigianato passa per faciloneria. A volte la musica ambientale e quella pop-minimalista (Musical americano, musica cinematografica ecc.) si appiattiscono sulla funzionalità, sull'accompagnamento, fanno tappezzeria che, con buona pace di Satie, non va al cuore dei problemi che l'arte pone.
Il musicista, come l'opera, non è una monade in sé chiusa e compiuta, ma il suo essere è un essere in movimento, fatto di stratificazioni e di molteplicità. Questa dinamica e pluralità produce un'impermanenza che svuota il concetto univoco e statico d'identità. Nel pozzo dell'interiorità non troviamo un'essenza pura, ma un villaggio abitato, dove convivono molti "io", una sorta di nascosti compagni di viaggio. L'opera non può che risultare da queste mille voci.
Fermiamo le voragini speculative e idealistiche e razionalistiche: primum vivere, deinde philosophairi.
La Border music da' suono alle mille voci nascoste in noi e a quelle ancora più numerose che incontriamo nel nostro vagabondare. Chi ha il cuore aperto e la mente libera incontra, nel suo girovagare, tutti quei suoni che chi ha il cuore e la mente chiuse non è in grado di ascoltare. Chi viaggia ringrazia sempre. Ogni musica è un dono.
I compositori che amano la musica e non se stessi sono dei vagabondi, perché solo vagando incontrano la Musica! Insieme indicibile di tutti i suoni del mondo. Questi musicisti sono nomadi nel cuore, guardano con disprezzo gli stanziali e i ricchi, perché il nomade ha una coazione a vagare e a rinunciare. I ninnoli del mercato, le case discografiche, la telecrazia, i portaborse e i faccendieri, i burocrati e gli accademici ostacolano la mobilità e l'erranza. Il pensiero nomade è anarchico, non ama muri e frontiere, reclama sempre il diritto di passo. Il musicista randagio ama solo le cose di pura sussistenza, perché nel viaggio non deve costruire, ma aprire varchi, perciò ben poco può portarsi appresso, sarebbe solo zavorra. E' cercatore e non depositario, per questo ama la Border music. E' adoratore dell'infedeltà, del tradimento, della fantasia.
Chi viaggia fra le musiche della terra ha un umore vagabondo e percorre zone di confine, perché sono quelle che consentono lo sguardo più ampio. Solo sul confine si può osservare a destra e a sinistra, il centro serve per star seduti, va bene quando siamo stanchi.
I Maestri sono stanchi
Con la scomparsa di Nono, Togni, Castiglioni e recentemente di Pennisi, Donatoni, Chailly, Grossi, Petrassi, Berio, Bettinelli, Clementi sta scomparendo un'epoca, un periodo storico che ha prodotto tanto e bene e che ha posto la musica italiana ai vertici della composizione mondiale, ma adesso occorre voltare pagina, perché le esigenze della cultura contemporanea non sono più quelle degli anni Cinquanta-Settanta. Già da una ventina di anni si sono fatte avanti delle pretese nuove e vitali che hanno, progressivamente, minato gli aulici dettami dello Strutturalismo e del neo-formalismo. Sono stati gli anni di Darmstadt (per la precisione del periodo d'oro 1948-1953) che hanno dato forma a un "genere" di musica che, riallacciandosi soprattutto a Webern, dominerà le menti di molti compositori europei, un post-webernismo che, in mille guise, dalla fine degli anni Quaranta continuerà saldo fino a tutti gli anni Settanta. I cambiamenti delle epoche reclamano anche l'abbandono delle vecchie impostazioni, poiché ogni momento storico - per non diventare accademia - deve sintonizzarsi sulle coordinate del tempo. Adorno, per gli allora giovani Maestri di Darmstadt, parlava, già per gli anni Cinquanta della "gratuità del radicalismo che si manifesta nel livellamento e nella neutralizzazione del materiale, e che non costa più nulla / …/ il desiderio della razionalizzazione integrale è arbitrario / …/ vien meno la necessità dei nessi costruttivi / …/ a causa del rilassamento della tensione interiore e della forza formatrice / …/ occorre ridare all'espressione la densità dell'esperienza" (3).
Ogni genere o stile musicale prende vita da fortunate circostanze storiche, sociali, culturali e linguistiche che gli consentono di mettersi a punto e di rafforzarsi in breve tempo. E' una parabola che, per sua natura, tende a scendere quando tali circostanze mutano. Quando un genere o uno stile si afferma stabilisce le sue priorità e tende a espellere tutto ciò che potrebbe modificare la sua costituzione. Si fa cattivo, etimologicamente, "prigioniero di sé".
Il genere o lo stile consolidato si da' come mondo, tende ad assorbire quelli che gravitano nella sua orbita e a delegittimare chi gli sta lontano. Lo Strutturalismo dell'immediato secondo dopoguerra riceve l'apporto di molti compositori e si fa portatore di alcune esigenze storiche innegabili. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta e, in Italia, soprattutto dagli anni Sessanta il suo centro teoretico e linguistico diventa sempre più instabile, il genere degenera, si trasforma in peggio allontanandosi dalle qualità forti della prima ora, acquistando delle inflessioni meno vivaci e vigorose. Così l'evento straordinario della creazione di un nuovo genere e stile si indebolisce e crea l'insopportabile accademismo, suscitando reazioni tanto più forti quanto più si avverte l'inutilità del persistere del genere morente. La contro-reazione di Cage fu strepitosa proprio perché rivolta a un carnevale di zombi.
La poetica di Cage, col suo tornare ai suoni, al di qua di ogni struttura, fu molto salutare, ecologica, ma durò, come ogni cosa, per il suo tempo vitale, poi produsse lo Zen made in Germany, gli ingenui atteggiamenti del vecchio Fluxus, la Body art, l'happening e quant'altro, tutto interessante, che riesce cioè a mettere in contatto l'opera col pubblico ("inter-esse") ma inscindibilmente legato alla cultura degli anni Sessanta. Anche la poetica di Cage invecchiò, insieme ai nipotini di Darmstadt. La contra-posizione di Cage rovescia i termini della questione, ma non mette in questione il gergo caro alle Avanguardie. Come tutti i gerghi, anche quello musicale comunica solo all'interno di una determinata collettività è quindi, costituzionalmente, comune solo a un piccolo gruppo di studiosi. E' dal gergo che nasce il genere, ossia un insieme formale e linguistico costruito su caratteri comuni al gruppo.
Nella sostituzione del linguaggio particolare ed esoterico con la lingua comune, l'importanza di Cage rimane a tutt'oggi indiscutibile, per la sua apertura, così come uno Stravinskij si dimostra più in sintonia col nomadismo della musica di questi anni che uno Schoenberg, rovesciando l'antitesi come l'ha impostata Adorno, che va semmai intesa come contra-posizione, come occupazione di spazi operativi diversi. Non è più l'epoca dei musicisti da lavagna (come diceva Cocteau) e dei messaggi nella bottiglia, dobbiamo sostituire la negativa metafora adorniana con una musica che sappia farsi viatico di collegamento fra uomo e mondo. La disponibilità al confronto con la banalità presunta delle musiche "basse" è, nella società di massa, non un difetto, ma un pregio, fatta salva - ovviamente - la qualità dell'opera.
Il rapporto con la massa è molto delicato, in quanto spesso la diffusione di massa della musica si dimostra essere al servizio del consolidamento dei generi e non del pensiero e dell'ascolto libero. Apparentemente i vari e tanti circuiti di diffusione, dai Cd alla radio, dai teatri ad internet, sembrerebbero favorire la pluralità delle musiche e degli ascolti, il loro attraversamento, ma non è così, perché più aumenta la frequenza con una tipologia musicale e più si instaura la famigliarità e le abitudini si cristallizzano. Questo perché i vari circuiti sono specializzati su segmenti di mercato, spesso chiusi in compartimenti stagno: le radio che mandano solo musica italiana, quelle del rock, del rock morbido e quelle del rock duro, i festival jazz e quelli di classica, gli stessi negozi di dischi sono suddivisi per generi, come le riviste musicali giovanili, così possono incanalare l'ascolto e la pubblicità, creando un circolo ben poco virtuoso, ma molto conveniente economicamente, una spirale che gira sull'asse dell'industria musicale e che ci guadagna dalla pigrizia e dal consumo inconsapevole. Bisogna andare verso quel "consumo adulto" auspicato da Girolamo De Simone: "un consumo che prescinde dall'età del consumatore e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole" (4). Massificazione e progresso sono i termini della questione.
Per non cadere dentro all'omologazione del genere occorre una creatività molto forte, più potente di quella necessaria per restarvi. Difficilissimo è poi uscire da un genere e non fermarsi a un altro, ma proseguire, incessantemente, nel vagabondaggio, realizzando la Border music. Molti compositori hanno mutato genere o stile almeno una volta, ma non è questo il problema. Per esempio, durante gli anni Settanta molti compositori, anche importanti, come Aldo Clementi, hanno mutato alcuni elementi costitutivi del loro modus operandi (Clementi è passato dall'utilizzazione di cellule cromatiche a soggetti diatonici che vanno a generare il suo contrappunto, realizzando anche degli agglomerati armonici più aerei e cantabili): l'essenziale non è dare una svolta al proprio stile o passare da un genere all'altro, ma mettere in moto un perenne pellegrinaggio esistenziale e culturale.
Vi sono anche casi di compositori che una volta individuato il proprio stile lo perpetuano all'infinito, diventa il "loro" genere e cercano di far proseliti. E' il caso di Salvatore Sciarrino e, in generale, della vecchia scuderia della Casa editrice Ricordi, che aveva (ora ha smantellato quasi tutto) compositori uniti in una sorta di clan, musicisti che tendono a chiudersi in un'opera dai tratti ben definiti, in un certo senso vittime del "successo" del proprio marchio. Cosa poi spinga un compositore a rimanere prigioniero di se stesso riguarda la conservazione dei privilegi, di quei piccoli vantaggi che lo hanno imposto agli addetti ai lavori, un po' snob. Continua in un'eterna variazione dell'uguale, per la vanagloria di un po' di fama, di un piccolo potere e di qualche soldo. Ognuno dovrebbe però sapere che quando un genere si fa vittorioso, in quel preciso momento perde la sua importanza storica, perché tende alla conservazione, al perpetuare la solita musica.
"Più che preparare strumenti, l'operatore deve curare una generale attitudine reattiva" - scrive Adriano Accattino - "è in possibile dire con precisione in che cosa consiste l'operare e come si esplica, poiché ogni operatore è un caso d'eccezione che di volta in volta s'inventa. Così, chi vuol cimentarsi entra in un campo indeterminato, dove non esiste un mestiere e tutto gli è rimesso e addossato / …/ operare diventa aereo e veloce nei suoi passaggi / …/ la scelta dell'operare si rivela una scelta esistenziale: attraverso un numero diverso di opere, l'artista conduce l'operare a manifestazioni raffinate e questo affina la sua personale sostanza / …/ dal relativizzare se stesso e il suo lavoro l'artista ricava un gran bene / …/ ogni artista è fedele unicamente al proseguire, per cui sborda da generi affermati per entrare in generi malfermi da cui ancora esce non appena si consolidano, e così via. La coerenza che altri trovano nelle cose, egli trova in una pratica" (5). Contro la concezione da laboratorio dell'opera come formula chimica si scontra l'operare, forte e puro nel suo errare.
Pluriartigianalità
Potremmo riportare l'operare vigoroso e schietto alla poetica dell'artigianalità, espressa più volte nella storia della musica, contro romanticismi, idealismi, teorie e speculazioni, ma precisando che si tratta di un operare stratificato che si rivolge all'eterogeneità dei materiali, una sorta di poliartigianalità, pronta a prendere gli elementi più diversificati per metterli insieme con tecniche miste. Colui che opera a contatto con la molteplicità è un artigiano che non si ferma a lavorare un solo materiale, ma è bravo a realizzare opere con materiali differenti, non con un solo modus operandi ma con la capacità eclettica di incidere sui materiali con strumenti e tecniche varie, scelte via via a seconda della loro funzionalità all'idea di partenza. In ambito delle arti figurative ci sono molti esempi di lavori che utilizzano assieme carta, plastica, vetro, gomma, materiali di recupero oppure legno, ferro, pietra ecc. com-posti con modalità inventive.
Qualcuno ha visto nell'uso indiscriminato dei materiali e nell'attraversamento dei linguaggi operato dalla trans-avanguardia una via d'uscita all'accademismo, ma, in genere, non è (stato) così, soprattutto per quella tendenza musicale che si è auto-battezzata neo-romanticismo (6). Ai generi che l'Avanguardia strutturalistica e post-strutturalistica aveva consacrato, ha risposto ciò ch'è stato chiamato post-Modern che, proprio come aveva fatto la Neue Musik, riproduce al suo interno tutti quei meccanismi che portano all'omologazione del genere e al consolidamento di alcuni sotto-generi.
La stessa situazione, anche se rovesciata, del musicista che si chiude nel proprio studio, che compone per i ghetti dorati dei festival specializzati, si presenta per colui che corre dietro alle mode, fra gli svaghi salottieri e le frivolezze del foyer, è un musicista non del mondo ma della mondanità, furbo e cinico, intende la molteplicità in senso quantitativo e si lascia prendere dal luccichio delle cose, essendo del tutto incapace di approfondire produce una musica easy, da arredo metropolitano, che sta ai bisogni interiori dell'uomo come il supermercato sta alla fame del mondo. E' uno stile che si sintonizza facilmente sull'effimero, produce una musica che ha una linea, indossa un abito, ma non ha valori, è come svuotata, gioca non sulla leggerezza dell'essere ma sulla sua banalizzazione. Nella musica dei rampanti compositori neo-romantici il mare magnum dell'eterogeneità contemporanea è un terminus ad quem, come in certa fusion che fa suoi i termini della globalizzazione, presentando brandelli di musiche di tutto il mondo in una semplice carrellata di suoni sentiti e non vissuti, fagocitando tutto e realizzando un pastiche dall'epicentro totalitario, un mosaico di pietruzze colorate che strizzano l'occhio ora al jazz ora all'etnica, creando un continuum sonoro che ricorda la peggiore musica degli spot pubblicitari. Non si tratta dell'estetica del plagio di cui parla Girolamo De Simone (7), che non ha un epicentro, semmai baricentri mobili, non si può parlare di estetica del plagio perché alle citazioni e alla prassi della contaminazione manca la consapevolezza dell'erranza, quella coscienza del viaggio che fa diventare la musica klezmer, gitana, meticcia, quella voglia di rinviare all'altro che rende la musica vera e partecipata, come accade appunto nella Border music dove si hanno continue accensioni di senso.
Nella new age, si nota una mancanza di vissuto e un'ambiguità di fondo sia a livello culturale sia a livello sociale, con imbarazzanti cadute di qualità e altrettante cadute nel commerciale. Si verifica ciò che Ivan Della Mea denuncia per tante tendenze neo-folk che sono "fuori dal contesto socio-culturale / …/ molti musicisti sanno suonare uno strumento legato alle tradizioni popolari, chitarra, percussioni, fisarmonica, organetto, ma lo fanno senza supporto critico con le dinamiche ambientali e culturali che hanno dato vita a quei suoni" (8). Bisogna dimostrare di essere veramente usciti dal Novecento abbandonando tutte le vecchie norme, generi e stili, tecniche e forme, oltrepassandole. Questo abbandono non coincide col disimpegno, come per gli artisti della yuppie-generation, che non viaggiano più e che hanno tradotto la frenesia On the Road nell'integrazione della società del guadagno: "più che muoverci facciamo la tana" - scrive David Levitt nel suo celebre saggio Our Lost Generation - "vogliamo far carriera, belle case, impegni appaganti, buoni amici di entrambi i sessi. Vogliamo la Gold Cart dell'American Express. Al contrario, oltrepassare le vecchie norme linguistiche ed estetiche, deve significare massima responsabilità, massima attenzione al viaggio che dobbiamo compiere fra Terra e Mondo.
Proprio la Border music sembra avere l'elasticità e la vivacità necessaria a intraprendere il viaggio eccentrico al di là di ogni omologazione, pensando il linguaggio come procedimento plurale, fluttuante e instabile, e pensando a un'anti-metodologia per la costruzione dell'opera che viene intesa come un polo di connessione fra le culture diverse. Occorre abitare la Terra e viaggiare nel Mondo, per realizzare l'ethos del pellegrinaggio. L'eurocentrismo è in crisi, siamo tutti extracomunitari, nella vita come nell'arte. L'io è plurale, com'è fatto di più elementi il linguaggio, questa libera disposizione a strati dovrebbe aprire tutto ciò ch'è stato chiuso nel formalismo, per consentire nuove riflessioni e nuove operatività, approdando a un'e(ste)tica del dialogo, a un'estetica che si contrae in un'etica della cooperazione, dove il musicista vive davvero il mondo dei suoni, partecipando alle gioie di un'umanità rappacificata nel segno di una musica che non conosce confini.
NOTE
- Cfr. R. Cresti, Trasversalità e geo-musica, in "Konsequenz" n. 3-4, Liguori Editore, Napoli 2000.
2) Cfr. G. De Simone, L'altra avanguardia, in "Konsequenz" n. 1, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996.
3) Th. W. Adorno, Invecchiamento della nuova musica, in “Dissonanze”, Feltrinelli, Milano 1974. Girolamo De Simone, in un suo bel articolo, Le ali di pietra, in "Konsequenz" n. 2, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, individua in Adorno "l'idiosincrasia per il sistematico / …/ Adorno consiglia cautela per le questioni di metodo / …/ in Minima moralia, in difesa della forma aforistica e contro la pretesa sistematica e pansistematica, Adorno aveva posto il problema di un metodo che "polemizza contro il puro essere-per-sé della soggettività in tutti i suoi stadi" /…/ dalla critica di Hegel emergono idee poi divenute centrali nelle teorie di Foucault. L'accento posto sulla relazione tra individui, il nomadismo del soggetto, la ricerca affannosa di un'uscita del pensiero da tutto quanto sembrerebbe ridurlo nei limiti della norma".
4) G. De Simone, Musiche per ogni consumo, in "Konsequenz" n. 3-4, Napoli 2000. Da bravo studente (non studioso!) sono andato su internet, per tentare di documentarmi e quasi nulla ho trovato nei siti italiani che riguardi la Border music, a parte gli articoli già apparsi su "Konsequenz", davvero l'unica rivista che si occupi costantemente e in modo serio dell'argomento, c'è solo spazzatura o qualche cartellone di rassegne di musica di confine fra rock e jazz.
5) A. Accatino, La disfatta dell'opera, ASEFI, Milano 2001.
6) Il dibattito sul neo-romanticismo è iniziato negli anni 1981-82, con la presenza di alcuni giovani Autori a festival di musica contemporanea, come "Luglio Musica" di Certaldo, "Proposte musicali" di Acqui Terme e Biennale di Venezia. Sulla Rivista "Musica/Realtà", dell'Aprile del 1981, Marco Tutino così scriveva: "noi ne-romantici nutriamo un'avversione atavica e giurata per il linguaggio preciso e scientifico /…/ l'unica maniera di esser capiti e strettamente legata all'unica maniera di essere graditi." Si notano tre aspetti, il primo dei quali è che l'etichetta se la sono appicciata addosso da soli "noi neo-romantici" per un'esigenza di riconoscibilità commerciale; il secondo aspetto è l'atteggiamento acritico "un'avversione atavica e giurata" che vuole contrapporsi ingenuamente a tutto l'apparato speculativo prodotto dalla musica d'avanguardia; il terzo aspetto sposta la questione su un'estetica della piacevolezza (per questo aspetto noi li chiamammo anche neo-galanti), riscontrabile anche linguisticamente con l'uso di certi tic settecenteschi, come abbellimenti e cadenze, dell'abuso di stilemi à la maniere de e di un Puccini revisited, fra neo-classico e leggero.
7) Cfr. G. De Simone, Il senso del discorso, in "Konsequenz", n. 1, Liguori Editore, Napoli 1999.
8) L'altra Italia che canta, intervista di Gabriele Rizza a Ivan Della Mea, in "il manifesto" del 9 Giugno 2001.
Dalla Rivista "Konsequenz", n. 2, Napoli 2001.