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Incongruenze fra progetto e comunicazione
Sulle difficoltà del comporre
 



Cosa e come scrivere nell'età del Postmoderno? 
 
Il Postmoderno ha avuto l'indubbio merito di storicizzare definitivamente lo Strutturalismo e i suoi derivati del costruttivismo, l'idolatria nel sistema e nella ratio, oggi, nell'epoca della comunicazione, il Logos viene sciolto in un dia-logos in un'esigenza di comprensione. Il soliloquio della musica di ricerca non è più ammissibile, la ricerca non deve venir meno ma deve perdere la durezza dell'artificio e farsi ricerca dello scambio di idee e di energie vitali.
 
Il Postmoderno ha però sopravalutato la superficie delle cose preferendola all'essenza, l'estensione più che la sostanza, la chiacchiera più del colloquio, la tecnologia come gioco più che come mezzo progettuale, il tutto soggiacente alla logica del mercato in una massificazione dei corpi e delle anime. Ma è in ciò che chiamiamo Postmoderno che viviamo e operiamo dunque non ha senso sbandierare vecchie ideologie legate al Moderno, è fra le coordinate socio-culturali delle espressioni artistiche generalizzate che occorre trovare il punctum, la scintilla, il suono giusto (direbbe Monteverdi), la vitalità della scrittura. È inevitabile abitare il clima culturale della nostra epoca cercando di mettere a frutto il patrimonio di conoscenze, lontane e contemporanee, verso una musica che all'inizio del terzo millennio deve ancora mostrare i tratti tipici del proprio carattere.
 
Come operare (scrivere) in maniera impeccabile da punto di vista delle esigenze autoreferenziali della progettualità e, al contempo, far funzionare l'opera quale prodotto massificato? Negli Stati Uniti l'attitudine compositiva e le analisi sono legate al funzionalismo ossia non sono inerenti alla scrittura ma al suo effetto; l'attenzione si pone non sulla consequenzialità delle strutture ma sul loro esito all'ascolto, non su statistiche intervallari, armoniche, formali etc. ma sulla ricettività limpida e immediata. Al di là del funzionalismo è evidente che le vecchie impostazioni messe a punto dal pensiero eurocentrico nei decenni passati sono inadeguate a leggere le partiture di oggi nelle quali è il punto di vista dell'ascoltatore a predominare, anche a scapito della costruzione interna: è il sound finale che deve funzionare e per funzionare deve attrarre il (grande) pubblico: sta qui la sfida pragmatica del Postmoderno per il quale la riuscita di un prodotto si misura in termini quantitativi ovviamente senza rinunciare alla bontà del prodotto stesso. Qualità (dell'opera) e quantità (di pubblico), esigenze costruttive e comunicative, il tutto dev'essere sempre direttamente proporzionale.
 
Il sapere formale, para-scientifico, esige l'isolamento dei giochi linguistici, è denotativo quindi è fuori luogo nella cultura postmoderna che esige investigazioni in movimento e “impure”: autoreferenzialità contro eclettismo, ma attenzione, l'apertura multidisciplinare non è un lasciarsi andare all'empirismo dei dati di fatto ma è una conquista fatta con capacità di scelta critica. Il “nuovo Mozart” Allevi dichiara la morte del sapere scientifico in musica e, dal punto di vista postmoderno, ha ragione, ma il Postmoderno non teorizza la bassa qualità del pensiero e del fare artistico! Una musica popular e di atmosfera non significa affatto una musica banale: le idee e l'abilità non appartengono né al Moderno né al Postmoderno sono semplicemente necessarie a ogni operatività artistica.

Una parentisi personale... ecco perché ne so un po' di musica contemporanea...
Nono, Messinis, Bortolotto, Rognoni, Berio, Firenze e altre meraviglie

 
La mia fortuna sia a livello professionale sia biografico è stata quella di aver frequentato tutti i Maestri della grande generazione dei compositori italiani nati negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Ho avuto così la possibilità di vivere dall'interno le problematiche della musica nuova, lavorando a stretto contatto di gomito con coloro che hanno fatto grande la musica italiana contemporanea (1). Luigi Nono me l'ha presentato Mario Messinis a Venezia, si era alla fine degli anni Settanta ed io ero poco più di un ragazzo e stavo sostituendo Messinis come bibliotecario al Conservatorio “Marcello” abitando in casa sua per diversi mesi; Messinis fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta era anche il Direttore della Biennale Musica; in quegli anni Nono stava suscitando polemiche per il suo cambio di rotta, aveva infatti abbandonato la musique engagée e si era diretto verso la scoperta di un suono nascente (2). È proprio nella seconda metà degli anni Settanta che i musicisti con le antenne più sensibili hanno iniziato a meditare delle svolte nei confronti delle tendenze allora costituite (musique engagée, Strutturalismo, aleatorietà, Minimalismo).
 
Mario Messinis è un musicologo dal quale ho appreso molte cose, così come da Mario Bortolotto – l'intelligenza più tagliente che abbia conosciuto - e soprattutto da Luigi Rognoni che ho frequentato sia nella sua casa di Milano sia in quella che aveva al mare a Linguiglietta, riconosco solo in questi tre nomi i miei riferimenti a livello “musicologico” (parola che giustamente a Rognoni dava fastidio). Rognoni è stato il primo a presentare in Italia la Scuola di Vienna e a insegnare a tutti noi come il fatto artistico sia strettamente legato all'etica (sociale).
 
Luciano Berio l'ho conosciuto a Firenze, mia città natale, nella quale ho iniziato a frequentare anche Giani Luporini (poi incontrato pressoché tutti i giorni quando è diventato Direttore dell'Istituto “Boccherini”) e Armando Gentilucci (ne ho fatto la conoscenza ai Corsi del G.A.M.O. dove ho insegnato per diversi anni), ovviamente ho frequentato tutti i compositori fiorentini da Arrigo Benvenuti a Carlo Prosperi (3), da Pietro Grossi a Sylvano Bussotti, per il quale ho scritto la prolusione ai festeggiamenti ai suoi 70 anni; insieme a loro molti altri compositori-interpreti quali Giancarlo Cardini, Daniele Lombardi, Alvaro Company e i componenti del Trio Chitarristico Italiano, Saldarelli, Frosali e Borghese tutti amici carissimi, e ancora i compositori più giovani (fra i quali m'è caro citare Claudio Boncompagni). Firenze nel momento dell'affermazione della Neue Musik era musicalmente arretrata ma dagli anni Sessanta – grazie anche alla presenza di Luigi Dallapiccola – ha recuperato il tempo perduto proponendo un'interessante linea umanistica che rendeva più morbido il rigore strutturalista, aprendosi anche all'influenza cageana, con Giuseppe Chiari per esempio che invitai al Festival di Certaldo “Luglio Musica” (che dirigevo nella prima metà degli anni Ottanta) a realizzare una performance che coinvolse tutto il paese. Da qualche anno la situazione s'è fatta piatta perché, scomparsa la grande generazione dei Maestri, i nuovi compositori si sono mossi in una terra di nessuno senza punti di riferimento né Strutturalismo né aleatorietà però neanche adesioni al Postmoderno muovendosi in una sorta di via di mezzo che in arte non paga. Questa situazione di disorientamento – ovviamente non solo fiorentina - ha fatto smettere di comporre molti musicisti e altri farebbero meglio a smettere perché non riescono a interessare ossia a proporre musiche intelligenti ma facilmente decodificabili che sono le uniche che fanno progredire il circolo dei messaggi sociali: la stessa parola “interessante” mette in evidenza il processo comunicativo “inter-esse”, fra chi parla e chi ascolta.
  
Incongruenze fra progetto e comunicazione
 
È vero che Heidegger nella sua Lettera sull'Umanesimo critica l'assenza di radicalità della cultura umanistica, ma è altrettanto storicamente vero che dalla morfologia dominante fino agli anni Settanta, quella che derivava dal principio seriale e che tendeva a ricostruire un linguaggio partendo dalla microstruttura che passava per gradi ai livelli strutturali superiori, occorre passare a un'evidenza dell'ascolto. Vi è un'incongruenza nel rapporto fra la complessità del livello progettuale e le articolazioni indifferenziate che portano a negare l'ascolto, già nel 1959 Ruwert diceva che se il sistema garantisce coerenza al governo di tutti gli elementi che lo compongono non fornisce altrettante garanzie da un punto di vista percettivo, inoltre, potremmo aggiungere, senza far ricorso a Cage, che il dogma della coerenza razionale non ha più oggi quella forza d'attrazione che ha sempre avuto per la cultura occidentale, la stessa teoria analitica, insieme al pensiero forte, sono caduti in disgrazia così come l'estetica, a favore di una poetica vitalistica e libertaria. Torna alla mente la celebre frase di Nietzsche: «bisogna ancora portare il caos dentro di sé, per poter generare una stella danzante» ovvero bisogna essere uomini ricchi di umori, passioni ed esperienze per fare arte!
 
Lo studium è naturalmente importante che sia attento, sollecito, profondo e intenso, ma se non è colpito dal punctum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, mi punge e mi prende e mi permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente diverso da quello dell'analisi razionale; è quel supplemento intrattabile dell'identità che ti permette di cogliere l'aria di un volto, la luce di uno sguardo, la scintilla dell'avventura, è quel quid che anima ogni riuscita opera d'arte che comunica la pienezza dell'Essere. In arte si parlava di “ispirazione”, parola proibita dai guardiani di una concezione iper-analitica ma anche dagli ideologi della sociologia dell'arte per i quali l'operare doveva essere relazionato pressoché esclusivamente al contesto socio-politico e l'opera risultava essere un rispecchiamento del mondo ad essa circostante. Nella condizione postmoderna si può finalmente tornare a parlare di capacità creativa, di talento, di fervore, di estro e perché no? Di “genio”, ovviamente senza i contorni romantici ma intendendolo in maniera etimologica ossia come una vocazione, una dote insita nei fortunati, una grazia ch'è molto difficile da descrivere ma che si sente benissimo! È per questa ragione che alcuni grandi artisti, non solo musicisti, sostengono che l'arte non si insegna perché è un dono ovvero la preparazione tecnica e culturale è condizione necessaria ma non sufficiente alla creazione.
 
Donatoni diceva che era impossibile insegnare a comporre, detto dal più influente didatta degli ultimi decenni appare frase strana, ovviamente il Maestro non intendeva che è irrealizzabile un'educazione alla scrittura, si può infatti imparare benissimo come si costruiscono le forme classiche, il sistema dodecafonico e molto altro, ma è impraticabile un'educazione a render vive e originali queste forme, non si può insegnare come usare il talento perché se uno ha la fortuna di possederlo lo utilizzerà inevitabilmente in maniera insolita e soprattutto autentica, se non lo possiede nulla glielo potrà far avere. Da qui la noia delle troppe composizioni inutili che si sentono in giro proposte da chi ha più doti di commerciante che di artista.

La mia vita fra i giganti...
 I Festival, Petrassi, Donatoni, Clementi, Castiglioni, Gaslini

 
Negli anni Ottanta sono stato molto impegnato come organizzatore e oltre a dirigere il Festival di Certaldo dirigevo quello di Acqui Terme “Prospettive Musicali” insieme ad Aldo Brizzi ed ero Direttore artistico dell'Associazione “Musica Futura” di La Spezia (Presidente era il caro Piero Luigi Zangelmi), oltre a collaborare assiduamente con il GAMO di Firenze, così ho avuto la possibilità di vedere e ascoltare tantissima musica e di conoscere praticamente tutti i compositori italiani; in modo particolare ad Acqui Terme facemmo uno dei primi Convegni sul cosiddetto “neo-romanticismo” (versione bonaria di quello che i tedeschi chiamano “nuova-semplicità”), ricordo un Tutino e un Mosca particolarmente gasati all'epoca nel rinnegare le esperienze di pieno Novecento per recuperare quelle ottocentesche; Donatoni e Bortolotto erano visti come il fumo negli occhi. Ferrero lo incontrai anche successivamente al Cantiere d'Arte di Montepulciano e molti di questi che aderirono – più o meno furbescamente – a questa tendenza neo-romantica si son tenuti a galla soprattutto entrando nel mondo politico dell'organizzazione teatrale, come Paolo Arca' e Matteo D'Amico tanto per fare un esempio di musicisti seri (4). Al di qua delle sciocchezze en rose c'è comunque da dire che i migliori dei cosiddetti neo-romantici sanno scrivere bene e hanno capito che il sapere postmoderno ha molto a che vedere con la percezione immediata, con il concetto di double coding, con il topos retorico che si lega all'ironia intertestuale e con il costume sociale (oltre ai citati compositori mi vengono in mente Carlo Pedini, Testoni e Ugoletti).
 
In quegli anni ho frequentato anche l'Associazione di Enrico Correggia “Antidogma Musica” e successivamente a Torino anche l'ambiente jazzistico (in modo particolare ho frequentato la casa di Igor Sciavolino, lui sassofonista, il padre scultore e la madre fotografa (5). Ho incontrato sia a Torino sia a Roma e sia da altre parti Goffredo Petrassi, giungemmo perfino a ipotizzare un mio libro su di lui, cosa che poi non riuscii a compiere ed è il più grande rammarico della mia storia professionale. Petrassi, come pure Clementi, era un grande amante e collezionista d'arte, un mondo, quello delle arti figurative, a me molto caro avendo diversi amici pittori e avendo scritto per loro diversi saggi su Cataloghi d'arte. Già dalla fine dell'Ottocento con l'Impressionismo la pittura ha, per molti aspetti, anticipato le tematiche e(ste)tiche poi riprese dalla musica e certe tendenze compositive non si comprendono bene se non vengono correlate alle altre arti e alla filosofia, al pensiero che soggiace a qualsiasi (f)atto, ma purtroppo vige un'ignoranza generalizzata anche nell'ambiente dei Conservatori e delle Università.
 
Sono stato allievo di Franco Donatoni e di Aldo Clementi, due grandissimi dai quali ho imparato tante cose – una su tutte l'importanza dell'artigianato – anche cose al di là delle tematiche del comporre – che musica e vita sono collegate attraverso il gesto. Donatoni l'ho frequentato assiduamente durante gli anni Ottanta, Clementi un po' dopo. Ho scritto su di loro i primi libri che analizzano i percorsi musicali delle rispettive produzioni, editi dalla Suvini Zerboni (6) che, fino alla metà degli anni Novanta era insieme alla Ricordi un punto di riferimento essenziale per il mondo della musica contemporanea, ora – ahimé – stampa pressoché soltanto musica leggera. A Roma erano molto attive le Edizioni Edipan che hanno stampato tanti compositori più giovani e nella capitale la RAI , soprattutto RadioTre, trasmetteva molta musica nuova. A Roma ho frequentato i musicisti della storica Associazione Nuova Consonanza e ora sono in stretto contatto con Ada Gentile. Il mondo della musica a Roma è stato e lo è ancora diverso da quello di Milano (ma negli ultimi anni c'è stato un forte processo di omologazione) semmai più vicino a quello fiorentino meno legato al costruttivismo lombardo (ed emiliano) di stampo mitteleuropeo e più eclettico. Con lo sguardo di oggi direi che c'è stata una sorta di rivincita del Sud che negli ultimi anni ha proposto situazioni variegate e interessanti (7), mentre il Nord continua a battere il passo dividendosi fra la vecchia tendenza strutturalistica e quella “neo” (neo-romantica e neo classica in specie nell'ambiente torinese).
 
Un altro compositore che ho frequentato, durante gli anni Novanta fino alla sua prematura scomparsa, è stato Niccolò Castiglioni (8) il compositore più dotato di musicalità che abbia conosciuto, respirava veramente musica! Mentre i miei primi Maestri, Donatoni e Clementi, avevano una forma mentis più speculativa, Castiglioni mi ha sorpreso per la sua genuinità; ho scritto un libro su di lui ed è stato per me molto importante perché ho capito che cosa sono le doti naturali di un musicista, doti che stanno al di qua di ogni tecnica e che vanno al di là di ogni concetto culturale. Per esempio un altro grande Maestro che ho avuto la fortuna di conoscere è stato Camillo Togni, lui aveva un atteggiamento molto tecnico-formale basato sull'articolazione della serialità di derivazione schoenberghiana, un compositore così – pur nella sua indiscutibile grandezza – mi appare oggi, dopo che ho metabolizzato il cosiddetto Postmodern , un Maestro assolutamente storicizzato, mentre nella musica di Castiglioni trovo quel quid necessario a dare al brano musicale un'essenza profonda, una stranezza del percorso formale, una libertà di scrittura, una singolarità espressiva che rende attualissima la sua musica. Qui tocchiamo un punto fondamentale: per i dettami della cultura generalizzata degli ultimi decenni arte e cultura non sempre vanno a braccetto, l'arte può anche fare a meno della cultura (non nel senso antropologico ma in quello accademico); pensiero compositivo e sua realizzazione sonora non sempre dipendono da contesti culturali ma possono aver agio di sbizzarrirsi in traiettorie strane (lo stesso Boulez dice che le strutture «devono prendere aria»). L'analisi (culturale) è importante ma bisogna tener presente che non è il particolare che fa il capolavoro ma il suo insieme, il quale non è affatto la somma dei particolari e comprende inoltre anche gli umori, le inclinazioni, le fantasie, gli stati d'animo…. Jung dice che quando si osservano le pietre di una cattedrale non si ha un'idea della maestosità dell'architettura e Adorno scrive che più ci si concentra sulla microstruttura è più l'opera diventa astratta, perdendo di vista il valore dell'unità stilistica ch'è forma e messaggio, tecnica ed espressione. La tecnica è condizione indispensabile per creare una vera opera d'arte che deve dar ragione del suo costituirsi, del suo come , ma anche e soprattutto del suo cosa e del suo perché (non in maniera letteraria ma vissuta).
 
Lo Strutturalismo ha prodotto un'opera dicente il dire , l'aleatorietà – l'altra faccia della medaglia – ha negato il dire, ma l'opera d'arte è semplicemente un dire argomentato agli uomini, un ponte che viene gettato per comunicare. Attenzione: comunicare significa entrare in comunità, nella comunità degli ascoltatori, è differente dall' esprimersi che ha un significato individuale. Molti compositori si esprimono – ammesso che abbiamo cose da dire - ovvero dicono la loro ma non comunicano, non hanno un vero auditorio, il quale è spesso formato solo da poche persone, addetti ai lavori, amici e parenti. Questi compositori sono i responsabili del distacco che, durante la seconda parte del Novecento, si è perpetuato fra opera e pubblico. L'espressione di molti compositori delle ultime generazioni non ha una reale consistenza è vaniloquio. I compositori costruttivisti di oggi non hanno metabolizzato il cambiamento epocale ch'è avvenuto fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, non è una caso che sono proprio i musicisti che hanno studiato in questo periodo che manifestano forti difficoltà, tanto da far affermare che la generazione dei nati negli anni Sessanta è pressoché inesistente. D'altra parte la velocità della storicizzazione dei materiali mette in difficoltà chi non ha mente prensile e pronta.
 
L'esigenza di legittimazione purtroppo fa credere all'homunculus di essere chissà chi perché ha scritto un pezzo che viene eseguito da un amico esecutore in qualche posto di provincia; chiunque frequenti il mondo della musica contemporanea sa bene quanta pazienza occorra nell'ascoltare i vaniloqui di coloro che si credono compositori! Bisogna però parlar chiaro: la legittimazione per il compositore avviene in soli due modi, attraverso le critiche positive della musicologia specializzata e attraverso le esecuzioni in luoghi assolutamente prestigiosi (Metropolitan, Teatro alla Scala, Opèra di Parigi ecc.) è sempre stato così e tutto il resto lascia il tempo che trova. Faccio anche dei nomi di compositori italiani della generazione successiva a quella dei grandi Maestri che hanno ottenuto la legittimazione: Sciarrino, Vacchi, Battistelli, Fedele, Francesconi… e davvero pochi altri.
 
Giorgio Gaslini (9) è un amico di una forza eccezionale, un amico dal quale ho imparato la nonchalance necessaria al fare musica; la sua musica, che percorre strade fra colta e jazz, propone alcune soluzioni alle contaminazioni di moda, alla nostra società multiculturale e multietnica, alla globalizzazione. Non a caso il jazz italiano è molto maturato negli ultimi vent'anni trovandosi in sintonia con la molteplicità quale soggetto dell'operare contemporaneo (10).
 
 La morte dei Maestri e l'interrogativo sul futuro
 
Se fino agli anni Ottanta la grande generazione dei Maestri ha fatto grande la composizione italiana, dagli anni Novanta, con la progressiva scomparsa fisica dei protagonisti, la situazione è peggiorata, la generazione nata fra la fine degli anni Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta è stata l'ultima che, nel suo complesso, ha prodotto compositori importanti: Salvatore Sciarrino, Ada Gentile, Giampaolo Coral, Alessandro Sbordoni, Fernando Mencherini… tanto per citarne alcuni da me conosciuti e alcuni molto stimati (Coral) e amati (Mencherini), sul dopo l'omologazione ha steso un sudario. Certo ci sono eccezioni (11), ma in generale i giovani compositori o sono ancora legati a un costruttivismo fine a se stesso – e sono i compositori più inutili – o sono presi dal ritorno a una musica tonale tanto banale quanto debole – e sono i giovani che più di altri sono cascati nelle lusinghe della commercializzazione. – Bisognerebbe ricordare anche il cosiddetto Rinascimento strumentale ossia la ricerca di nuove tecniche di esecuzione finalizzate ad ampliare i confine dell'atto compositivo, in tal senso la Rassegna di Nuova Musica di Macerata, diretta dal compianto amico Stefano Scodanibbio, è stata, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, un centro fondamentale.
 
Qualche anno fa ho conosciuto e collaborato con Azio Corghi e anche la sua vicenda artistica sta a dimostrare come oggi non sia possibile stringere l'orizzonte compositivo focalizzandolo su problematiche tecnico-formali anzi sia richiesta un'apertura verso il composito, l'eterogeneo, il variegato sia esso il mondo popolare o il mondo del fantastico o quello del teatro, con un andare avanti che guarda al passato senza remore, con rispetto ma anche con fantasia. Può sembrare più semplice o semplicistico com-porre in maniera disparata che non in uno stile severo e compatto, non è così perché lo scrivere in modo omogeneo viene garantito da piani preparatori all'opera che servono a poco se ci si concede all'estro dove il vissuto umano ha molto più rilievo e deve possedere una forza che permetta di tenere collegati gli elementi del molteplice. Proprio la mancanza di questa forza del vissuto fa di molti pezzi postmodern solo dei ninnoli sonori, i giovani compositori sono bravi nel distribuire i materiali in superficie ma manca loro quell' affondo che i grandi Maestri sapevano realizzare con un'energia che combinava l'Esserci con l'Essere, la scrittura con ciò che veniva percepito, provato, sentito, vissuto.
 
La musica non è una vera e propria forma di linguaggio, non solo per la sua a-semanticità ma per la sua stessa fisiologia, per il suo modo di essere costituzionalmente altro rispetto al vero linguaggio ch'è quello parlato (e pensato). La prospettiva orizzontale che vede la musica quale discorso o narrazione è solo una possibile angolatura, ve ne sono altre che intendono la musica in verticale come ricerca di ciò che il linguaggio verbale non può dire. La musica è una riduzione rispetto al linguaggio concreto e concettuale delle parole, ma proprio questa riduzione consente un'ulteriore apertura, un'amplificazione degli aspetti emotivi. La musica è dunque un' eccedenza linguistica in quanto riesce a comunicare un tempo sospeso e stra -ordinario, fuori dal tempo quotidiano: il tempo si spazializza e diventa un tempo/spazio estatico dove il linguaggio sui generis dei suoni diventa rivelativo ossia dice di più di quanto non dica testualmente. La musica si avvicina al “linguaggio” delle favole e delle leggende, dei miti e dei riti e come il rito il tempo della musica è tempo sacro , tempo assoluto e non degli orologi. Tempo del misticismo che ha parentela con “mistero”, quindi la musica ci porta nelle prossimità di quel mistero che ciascuno di noi è per se stesso, mistero che nessuna parola comune può raggiungere, perché la profondità del nostro intimo è linguisticamente impraticabile (12).
 
I Maestri italiani iniziando da Petrassi, Dallapiccola, Scelsi, Lupi, Bettinelli per proseguire con quelli della generazione successiva che ho citato avevano intuito (qualcuno anche capito) che la tecnica, le regole, il sistema, il processo erano sì indispensabili ma non bastevoli alla completezza dell'opera che doveva esprimere un' aura che non deriva solo o non tanto dalla maestria e dalla metodologia ma soprattutto dal talento, dalla capacità di rendere eccezionale il regolare, di motivare direzioni strane, di praticare il disordine all'interno della struttura, consapevoli che la complessità porta sempre con sé elementi inconoscibili (il linguisticamente impraticabile, il caos citato da Nietzsche, l' enigma che ogni grande opera d'arte nasconde in sé). Soprattutto il pensiero doveva essere corroborato dall'esperienza, la vita stessa era l'inizio e la fine del pensare e del fare musica. L'energia vitale, con i suoi collegamenti al vivere sociale, era l'irrinunciabile principio di ogni creatività. Ma chi oggi abita la creatività?
 
 
 
 P. S. È tipicamente italiano parlare di musica contemporanea come se fosse un settore separato dalla musica in quanto tale. Negli altri Paesi se si parla di “musica contemporanea” è per intendersi velocemente non per indicare una musica particolare dai connotati prevalentemente negativi (difficile, noiosa ecc.). Anche su questo aspetto spetterà ai compositori delle ultime generazioni lavorare in modo da superare lo steccato.
 
 
 
NOTE
  
1) In generale s'intende il termine “musica contemporanea” in maniera estensiva ossia la musica colta dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi. Il termine è legato alle ideologie del Moderno e si presta a equivoci, infatti viene definito intendendo il “contemporaneo” in antitesti allo storico, ma con l'affermarsi del Postmoderno la musica del passato torna a essere viva e utilizzata nei processi compositivi, inoltre oggi si fa rientrare nel “contemporaneo” tutte le esperienze musicali anche quelle extra colte e si tende alla multidisciplinarietà, mentre prima, in nome di una concezione che vedeva l'opera come un prodotto da laboratorio, si aspirava all'omogeneità stilistica (riprendendo la lezione di Webern). Inoltre v'è un'incongruenza nell'uso del termine “contemporaneo” in quanto la musica a cui si riferisce è oggi assolutamente storicizzata. Infine occorre stare attenti al contesto in cui il termine si presenta perché esiste anche la possibilità che sia usato in senso stretto ovvero intendendo quella musica che si compone e/o si esegue simultaneamente alla riflessione che si svolge attorno ad essa, in questa accezione – ch'è quella che preferisco - la musica contemporanea coincide con l'attualità stretta. Cfr. il Nostro articolo Il concetto di musica contemporanea, in “Contemporaneo: 99 definizioni”, Ernesto Paleani Editore, Cagli 2006.
 2) Cfr. R. Cresti, Il suono nascente, per una nuova lettura e(ste)tica dell'opera di Luigi Nono, in “L'ascolto del pensiero, Rugginenti, Milano 2002.
 3) R. Cresti, Gaetano Giani Luporini, musica tra utopia e tradizione, LIM Antiqua, Lucca 2005.
  Idem, Carlo Prosperi , GIMC, Firenze 1993.
  Idem, Il gesto eccentrico di Sylvano Bussotti , Tempo Reale, Merano 2001.
  R. Cresti – E. Negri, Firenze e la musica italiana del secondo Novecento, LoGisma, Firenze 2004 (Menzione d'onore al Premio Firenze 2004).
4) R. Cresti, Verso il 2000, Il Grandevetro, Pisa 1990.
 Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di R. Cresti, Pagano, Napoli 1992.
 Enciclopedia Italiana dei Compositori Contemporanei , III voll. e 10 compact-disc , a cura di
 R. Cresti, Pagano, Napoli 1999-2000. Avendo avuto, per 20 anni, sotto controllo l'intero panorama
 della composizione italiana posso ben affermare sia il calo qualitativo registrato nell'ultimo decennio
 sia come la presenza di molti sedicenti compositori sia assai discutibile e per alcuni perfino ridicola.
 5) Le foto di Elsa Mezzano sono state riprodotte nel mio libro La terra che canta, Jaca Book, Milano 1999 (romanzo finalista al Premio Pisa). L'altro mio romanzo, Nella notte, la fiamma , Ibiskos, Empoli 1995 si avvale della copertina del pittore Carlo Romiti. M'è caro citare un altro pittore, Mauro Corbani, con il quale ho fatto molte chiacchierate sull'arte e la musica e per il quale ho scritto diversi saggi in Cataloghi riguardanti la sua pittura.
 6) R. Cresti, Franco Donatoni , Suvini-Zerboni, Milano 1983.
 Idem, Aldo Clementi , Suvini-Zerboni, Milano 1990.
 7) R. Cresti, L'Arte innocente, con cdrom , Rugginenti, Milano 2004.
 8) R. Cresti, Linguaggio musicale di Niccolò Castiglioni , Miano, Milano 1991. Sui compositori citati ho scritto molti articoli sulle Riviste “Piano Time” (Roma), “Sonus” (Potenza), “Musica Attuale” (Bologna), “1985 La Musica ” (Roma) e su altre Riviste anche straniere.
 9) R. Cresti, Linguaggio musicale di Giorgio Gaslini , Miano, Milano 1996. Da un punto di vista organizzativo sul jazz, quando ero al Teatro del Giglio di Lucca dal 1994 al 1998, ho organizzato un grosso Festival che portava il nome di una delle piazze più suggestive di Lucca “Anfiteatro jazz”, qui ho conosciuto quasi tutti i jazzisti italiani dagli “storici” Basso, Rava, Intra, Cerri… ai giovani che mi paiono perfino più preparati – nell'insieme – dei musicisti delle generazioni passate.
 10) R. Cresti, Il cuore del suono, scritti di e(ste)tica musicale , Feeria, Panzano in Chianti 2001. Cfr. anche R. Cresti, La Vita della Musica, ipertesto di Storia della Musica , VI ed., Feeria, Panzano in Chianti 2008.
 11) R. Cresti, I linguaggi delle arti e della musica. L'e(ste)tica della bellezza. Con 64 testimonianze di compositori, Il Molo, Viareggio 2007.
 12) Il potere della musica è immenso e quanta tristezza fanno i politicanti giullari di un potere senz'anima.
 



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