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L'opera fra esodo e avvento
L’Ospite che è in noi
 
 
 
Nel silenzio della solitudine creativa che accompagna l'artista, al di qua di ogni apparenza, tutto ciò che è altro da noi entra in rapporto con l'intimità, diventa viso (s)conosciuto, fantasma, sogno, incubo, realtà diversa. E' in questo rapporto fra identità e differenza che si forma il nostro "io" plurale.
 
L'Ospite ci collega alla nostra origine, alla Madre Terra, ai nostri Padri. Nel fare Opera d'arte si accoglie l'Ospite che sta nascosto in noi.
 
L'autore altro non è che colui che ha la capacità di dare alloggio al visitatore non invitato ma che sempre alberga in noi, è colui che sa accogliere le istanze della differenza e le sa decifrare e mettere in opera. L'artista sa farsi contenitore, vaso che raccoglie ciò che (ac)cade fra Cielo, Terra e Mondo, dimostrando disponibilità all'impermanenza, condizione essenziale per accettare con fiducia l'amico/nemico che dimora in noi.
 
L'impermanenza produce uno smarrimento dei confini che rinvia a una pluralità di dimensioni, creando un unicum arte/mondo del tutto particolare, realizzando un gesto dell'empietà che ci redime dal tempo/spazio ordinario: la temporalità e la spazialità dell'arte sono "religiose" in quanto creano un legame fra il nostro io plurale e il suo contesto sociale, sono assolute e universali pur essendo legate al reale e al senso comune. Quello dell'arte è un tempo/spazio del misticismo che ha parentela con "mistero", dalla parola greca mustérion (dal verbo muo, celare, nascondere), quindi potremmo dire che il tempo/spazio dell'arte porta nelle vicinanze di quel mistero che ciascuno di noi è per se stesso, mistero che nessuna parola raggiunge perché la profondità del nostro intimo è linguisticamente impraticabile. L'arte non solo è l'utopia del linguaggio, ma è il luogo di mistero, il topos dell'u-topia di noi stessi.
 
L'Opera ci porta sempre a casa, nella prossimità di noi con noi stessi, ma la prossimità non è il centro, ovvero rimane un nocciolo duro non-conoscibile, è lo scarto fra il noi-vero e ciò che ne sappiamo: in questo residuo risiede l'Ospite.
 
L'arte è un gestus, un fare segreto di cui l'Opera ne è la traccia. Dal gesto precipita l'Opera. Il gesto è rituale, è l'evocazione di un nome, del nome sconosciuto dell'Altro. Il nominare avvicina ciò che chiama. Chiamare è avvicinarsi. Nel gesto regna il mistero, il mistero della sua forza, di quel suo quid che sostiene l'Opera nel suo esserci. L'artista fa così esperienza di una forza che non è possibile pensare.
 
Quale sguardo ha l'artista? Quello della sua Opera. Che c'è nel suo cuore? La fuggevole proiezione di un volto sconosciuto. Quale morte l'attende? Quella che lo riconduce all'origine dell'io plurale. Al padre e alla madre.
 
Ogni artista crede di sognare l'Opera, invece è sognato da Lei.
 
L'Opera aspetta se stessa su una soglia enigmatica, dove sta in sé, chiusa nel proprio testo e, al contempo, è tesa verso un luogo altro. L'arte è un essere-possibile, un essere in viaggio, un viaggio particolare, riflessivo, nel quale più si cammina e più ci si addentra all'interno, un esodo dal noi per ritornarci costantemente, un aspettarsi, un attendere il proprio sé al ritorno dal viaggio.
 
Fra esodo e avvento si situa l'arte.
 
Il tema della soglia si collega a quello della morte. La soglia non ha un tempo determinato, non ha un luogo preciso, si sottrae ai confini, sta semmai sul confine. Sta ai limiti della verità, come la morte. E' lei la nostra vera ospite e l'artista ne coglie l'essenza, lasciandoci in dono un'Opera che allude alla fine quale inizio di un nuovo viaggio durante il quale diventeremo una cosa sola col nostro Ospite.
 
 
 
Da Renzo Cresti, nella Rivista "Il Grandevetro" (Pisa 2002).
 
 
 



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