Miseria della critica
Miseria della criticaLa critica (musicale), quella che avrebbe il compito d’introdurre al fatto d’arte, di spiegarne le ragioni e le finalità, di cercare di far capire al pubblico com’è costruito e qual è il modo migliore per ascoltarlo, è sempre stata rarissima, da qualche anno è pressoché scomparsa, sia per colpa specifica dei giornali stessi che concedono sempre meno spazio alla musica d’arte e sempre più rincorrono quella giovanilistica (il caso dell’inserto “Musica!” de "La Repubblica" fu esemplare), sia perché i tempi sono mutati e la cultura s’è ancor più banalizzata fra mass-media e mercato, sia per negligenza dei critici stessi, che raramente sono dei bravi giornalisti (più spesso musicologi falliti ma supponenti), professionalmente asserviti ai padroni editoriali, poco indipendenti rispetto ai poteri forti delle Case discografiche, degli Enti lirici e delle Agenzie che organizzano i concerti, e molto focalizzati sui cosidetti “eventi”. Su una Rivista romana che non esiste più, La musica 1985, nel 1988 scrivevo un articolo che iniziava con una frase lapidaria: “la critica musicale non esiste”, riferendomi già allora all’incapacità di presentare o recensire con chiarezza e competenza, ma soprattutto con onestà, gli avvenimenti musicali, correndo dietro alle mode e parlandosi fra loro in un gergo incomprensibile per chi non è addentro ai meccanismi delle ripicche e gelosie incrociate! (Onestà non solo intellettuale ma etica, in quanto troppo spesso i critici scrivono o non scrivono, parlano bene o male se sono pagati o no).
Sempre sulla stessa Rivista un critico militante, Gianfranco Zaccaro, diceva che i critici giornalistici “è difficile che si perdano una prima all’opera” perché troppo attaccati al presenzialismo e che comunque “non c’è identità fra critico è giornalista, perché alcuni critici sono mediocri giornalisti”. Sono passati una quindicina di anni da queste considerazioni e la situazione è senz’altro peggiorata: grandi firme non ce ne sono mai state (eccetto Massimo Mila) e quelle poche decenti appartengono alle vecchie generazioni, facciamo alcuni esempi: il prof. Giovanni Carli Ballola su "L’Espresso" fa algide riflessioni; così come Giorgio Pestelli su "La Stampa", Lorenzo Arruga su "Il giorno" e Adriano Cavicchi su "Il resto del Carlino"; le pagine di Duilio Courir su "Il corriere della sera" hanno fatto scuola e quelle di Quirino Principe su "Il sole 24 ore" (non così quelle retoriche di Paolo Isotta che, in buona compagnia di tanti altri colleghi, ama ingarbugliare le cose parlandosi addosso per colonne e colonne, figliastri di Piero Buscaroli).
"La Repubblica" ha una serie di critici, quello ufficiale, che alla vecchia maniera stronca o esalta, è Michelangelo Zurletti, poi Angelo Foletto nelle pagine milanesi, Landa Ketoff a Roma, Dino Villatico a Venezia, Marcello De Angelis a Firenze, dove Leonardo Pinzauti su "La Nazione" (di cui fu anche Direttore) ha fatto il bello e cattivo tempo, ahimé (personalmente ho nostalgia di "Paese sera" su cui scriveva Fiamma Nicolodi); Mario Messinis su "Il Gazzettino" di Venezia è forse il critico più attento alla contemporaneità, come pure Gianpiero Cane su "Il Manifesto", ma sul versante della critica rivolta alla musica afro-americana. Vecchi, in tutti i sensi, critici della sinistra sono Luigi Pestalozza (leggilo su "Avvenimenti", sic!), Paolo Petazzi e Rubens Tedeschi su "L’Unità". Nei giornali di provincia la critica è un mero fatto di cronaca, descritto da spesso improvvisati giornalisti generici. Non è un granché, in generale, ma giovani bravi davvero non ce ne sono, non perché manchi loro la preparazione critica e giornalistica, ma perché questa preparazione non è vissuta, è tutta improntata a un perbenismo che alla prima riga ti par di aver già letto tutto l’articolo. Sui critici radiofonici è meglio stendere un velo pietoso. Che differenza fra la situazione della musica, a livello compositivo e interpretativo viva e ricca di proposte diversifiate, e il deserto della critica attuale.
Bisogna riconoscere che nella condizione caotica, sia a livello politico-sociale (tempi tristi di guerra e di miserie), sia a livello culturale (dove l’opera è sempre più un’opera al nero, nella quale il posto dell’alchimia è preso dal Cyberspazio, dal Web, dall’omologazione, dal pensiero unico e da un gigantesco Mc World, dove viene venduta la fast Art), fare critica (musicale) è davvero un’impresa difficilissima. Sulla stampa e non solo (sia di quella omologata di destra o di sinistra, ma anche in quella underground) si fa un gran parlare di comunicazione e si va alla ricerca di una trasmissione immedita di (f)atti e di idee (poche): non si tratta di una posizione ingenua, quanto di un cinico atteggiamento che vuol sfruttare i meccanismi leggeri della società dei consumi, regolata dallo strapotere dei mass-media. La comunicazione è comunque dispersa nel mare magnum della ridondanza condivisa. Più le parole vengono ripetute, i suoni moltiplicati e le immagini ingrandite e più aumenta la nostra solitudine. Il critico dovrebbe essere colui che abita la distanza da questa comunicazione che non comunica, dall’espressione programmata, dalla leggerezza dell’essere e dalla pesantezza del pensiero burocratico (o “politicamente corretto”). Al contrario il critico è immerso nella miseria dei compromessi e ciò che scrive non si basa affatto sulla distanza critica, ma sulla convenienza (del giornale e sua personale).
E’ quella musicale una critica ancora basata su schemi storicistici. Sulla miseria dello storicismo ha già detto Propper, sono decenni che si sente l’esigenza di uscire dal “bordello dello storicismo” (Benjamin), al fine di una nuova creazione di senso, ma critica e musicologia ne sono ancora sostanzialmente avvinghiati. Lo storicismo ha creato mostri, come ben si vede e si ascolta nei fatturati Postmodern (dove l’opera è una costante e furbesca rivisitazione degli stilemi storici che formano un puzzle, un vestito di Arlecchino, ch’è come il personaggio, malizioso e leggero, cialtrone ma gradevole). La critica (musicale) parla molto e ascolta poco, mentre dovrebbe stare con le orecchie ben aperte e aspirare al rispetto, alla discrezione, alla generosità, alla tolleranza, all’indipendenza nei confronti dei troppi prodotti ben confezionati che si spacciano per “creativi”. V’è un’evidente incapacità della critica ufficiale, più dottrinale che profondamente consapevole della cultura viva, a leggere con partecipazione e ampiezza di vedute i (f)atti in movimento come quelli contemporanei; si tratta di un nozionismo specialistico che fa ricorso a una fissità ermeneutica legata a schemi preordinati, che prendono autorevolezza proprio dalla storia della loro fissazione (si legittimano da soli). Ma ogni regola nasce e muore, insieme ai sistemi che contribuisce a formare. I metodi eruditi sono storicizzati fermi alla musica (post)seriale, in qualche caso ripresentati con una spolveratina post-moderna; non sanno inventarsi i percorsi interpretativi in relazione alle dinamiche storico-sociali e portano, anche incosapevolmente, a un revisionismo normalizzante tipico di ogni accademismo. Al contrario è di un’anti-metodologia veramente creativa che la critica (musicale) di oggi abbisogna.
Ma al di qua dei problemi metodologici c’è una diffusa ignoranza. Purtroppo molti critici, non conoscono le situazioni (sociali, culturali, musicali…), si affidano a pochi nomi imposti dalle agenzie (dal mercato) così i concerti e i musicisti da presentare o recensire sono scelti per amicizia, per tessera di partito, perché consigliati da qualche guru, perché portaborse, perché corrono di più di altri arraffando di qua e di là (e quindi vincenti nei tempi brevi, ma dal respiro molto corto), perché politicamente corretti ecc., si assiste così a una triste situazione dequalificata, dove pochi nomi di musicisti grandi (o presunti tali), sempre i soliti, girano nelle programmazioni musicali, tenendosi ben strette le amicizie influenti ed eventuali poltrone, mentre la maggioranza dei musicisti, fra i quali alcuni più interessanti e senz’altro più originali e indipendenti degli “omologati”, fatica a trovare spazio sulla stampa, le cui pagine “culturali” sono prevalentemente occupate dalla TV, dalle star e stelline del cinema e da qualche letterato alla moda. Le colpe personali dei critici cialtroni, così come quelle dei musicologi incompetenti o in malafede, dei direttori artistici impreparati, e le colpe istituzionali, di soldi sperperati dai baracconi RAI, di soldi regalati dai Ministeri ad Associazioni musicali che sono gestite a livello personalistico, di Case editrici fallimentari e di Case discografiche fantasma, sono colpe gravissime che hanno nuociuto e stanno ancora facendo molto male alla vera cultura musicale che però non è solo quella dei clan, ma esiste anche una musica più viva, partecipata, indipendente, libera, fuori dal pensiero unico e dagli interessi personalistici, il fatto è che non la si conosce. Non la conoscono i pochi addetti ai lavori per trascuratezza e perché fa loro comodo insistere solo su alcuni Autori, non la conoscono gli appassionati perché non ne hanno le occasioni. Che la miseria della critica (musicale) sia uno dei più fedeli specchi della miseria della capacità di ragionare sulle cose dell’uomo nell’era della telecrazia?
Da Renzo Cresti, La critica musicale, in "La musica 1985", Roma 1988; e da "Il Grandevetro" n. 60, Santa Croce sull’Arno Estate 2003.