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Testimonianze (parte terza)
Testimonianze di compositori presenti in Renzo Cresti, Linguaggi della musica e delle arti, Il Molo, Viareggio 2008. Alcune interviste sono parziali per leggerle integralmente prendi il libro.



Paolo De Felice, Girolamo Deraco, Carlo Deri, Fabrizio Fanticini, Biancamaria Furgeri, Giorgio Gaslini, Gaetano Giani Luporini, Stefano Giannotti, Arduini Gottardo, Mauro Lupone, Carla Magnan, Luigi Manfrin, Pippo Molino, Carlo Pedini



Paolo De Felice

Fin da bambino avevo l'abitudine di associare ciò che stavo suonando ad una storia, spesso di fantasia, che immaginavo durante l'esecuzione di un brano. Questo esercizio mentale mi aiutava a contestualizzare lo svolgimento della musica all'interno di una semplice trama che, seppure di libera invenzione, aveva origini letterarie. L'abitudine, col tempo, è diventata necessità, tanto che ancora oggi concedo alla fantasia - sebbene con intenzioni e finalità assai diversa da allora - uno spazio mentale che mi permette di tradurre eventi, radicati nella memoria e che rifioriscono mentre sto suonando, in emozioni e stati d'animo. Gli studi scolastici sostenuti (dapprima quelli umanistici e in seguito, ma molto più tardi, quelli artistici) mi hanno permesso di allargare l'orizzonte soprattutto in campo letterario e pittorico e di approfondire lo studio di tecniche, forme linguistiche e di espressione diverse dalla musica, ma non per questo inconciliabili. Molto stimolanti, in tal senso, sono state le letture di autori come Tabucchi ed Eco: l'uno per la sua particolare capacità di "dipingere", con tratti morbidi ma incisivi, i suoi personaggi; l'altro per il senso della struttura temporale che, in storie di ampio respiro è particolarmente importante. In questo momento sono impegnato in una lettura proustiana, una piacevole impresa dato che prima d'ora non avevo mai letto niente dell'autore di Alla ricerca del tempo perduto.
Per quanto mi è possibile, ogni giorno cerco di leggere qualsiasi cosa mi capiti sottomano e che, ovviamente, susciti in me un interesse particolare. Ultimamente sono attratto dalle forme geometriche che esistono in natura, come quelle di minerali o organismi viventi, le cui dimensioni sono insospettabilmente governate da rapporti numerici che l'uomo è riuscito a scoprire. Ma la cosa più affascinante è come civiltà diverse abbiano da sempre cercato di imitare, più o meno consapevolmente, la natura, sviluppando tecniche sempre più complesse e raffinate. Personalmente ritengo che possa esserci una certa affinità tra la "fillotassi" e le entrate delle voci in una fuga di Bach, così come può esserci affinità tra la forma unica e inimitabile di un frutto e un preludio di Chopin. Nella mia attività di compositore la necessità di cui parlavo prima è ancora più viscerale. Tutto ciò che leggo o osservo viene captato e filtrato dal mio inconscio che rielabora gli stimoli esterni trasformandoli in energia sonora. È come se il mio corpo fosse un trasformatore biologico, in grado di approssimare un certo tipo di segnale ad una determinata sequenza di suoni. Perciò posso ritenere che il rapporto che instauro con le varie arti, in particolare con la letteratura, sia di natura elettrosensoriale. Anche la conoscenza di lingue straniere è per me fattore di non secondaria importanza. Lo studio del francese, del tedesco e dell'inglese può aprirti un universo di espressioni, modi di esprimersi, assai diverse tra loro. Spesso ci si accorge che certe parole appartenenti a un'altra lingua, certe locuzioni, quando non addirittura intere frasi, sono intraducibili in italiano perché manca il significato corrispondente. Tutto questo può essere determinante per l'esecuzione di un brano quanto lo è per la stesura di una nuova composizione. /.../
L'uso di un testo nei miei lavori richiede, quasi sempre, un lungo periodo di gestazione. Dapprima lascio che sia la poesia a svelarmi la sua musicalità intrinseca, concentrandomi, attraverso varie letture ripetute, sulle potenzialità della struttura semantica e sull'accostamento ritmico-fonetico delle parole. Generalmente prediligo componimenti liberi, dove l'estensione del verso varia di volta in volta da una a molte sillabe. In genere, dopo tre o quattro letture, riesco a familiarizzare con il "tempo" di declamazione dei versi, grazie al quale ricavo quello che sarà il "tempo" musicale più appropriato. Quando ho scritto i Canti in versi su poesie di Giuseppe Bonamici, mi è stato particolarmente d'aiuto conoscere la sua personalità musicale attraverso i suoi brani strumentali, nonché la sua propensione per repentini cambi di umore, stati d'animo (anche qui il vocabolo tedesco Stimmung, più appropriato, non ha un preciso corrispondente in italiano), che nei suoi componimenti poetici è più raro trovare. La messa in musica dei versi invece l'affido alle dita che, come antenne mobili, trasmettono, dalla tastiera al cervello, i suoni allo stato puro, l'ascolto e l'interiorizzazione dei quali sono importanti per apportare piccole, ma opportune modifiche e integrare le qualità fonetiche della parola con quelle timbriche del suono: è quasi una costante, nei miei lavori, l'accostamento di interi versi intonati con altri semplicemente declamati; questo perché ritengo che la voce, se usata nel modo adeguato, abbia già in sé una natura espressiva che rende superfluo il canto. Talvolta, queste prime due fasi nascono contemporaneamente. Ciò avviene quando il testo poetico contiene una spiccata musicalità, tale da offrire un approccio immediato tra parola e suono. È questo il caso di alcune canzoni per voce e pianoforte scritte su componimenti di Niki Mazziotta (Sentimental journey, Rimembrance, Who wrote these letters?), su testi di vari autori (Lo sfiorar della sua voce, Guerra, ... E allora scrivo versi) musicati in occasione di un premio letterario poetico e su una poesia di Margherita Sergardi (Poesia delle minime cose) per voce e strumenti. Le condizioni necessarie, alle quali mi è difficile rinunciare per musicare una poesia, sono: l'atmosfera creata dai versi (con particolare predilezione per i toni scuri) e la proprietà evocativa creata dalle allitterazioni talvolta presenti. Il testo su cui sto lavorando è particolarmente ricco dell'una e dell'altra componente. Si tratta del Somnium Scipionis di Cicerone, un monologo della durata di poco più di mezz'ora. In quest'occasione il testo sarà interamente declamato da una voce recitante registrata, mentre gli strumenti (flauto, oboe, clarinetto, violino, violoncello e clavicembalo) creeranno, dal vivo e attraverso sonorità ora dense, ora rarefatte, un climax quasi ipnotico in simbiosi con l'atmosfera onirica del testo. Come sostenevo precedentemente, la maggior parte delle mie composizioni nasce direttamente dalle dita ma, in questo brano, scritto quasi interamente "a tavolino", svolge un ruolo importante la Memoria coadiuvata dall'orecchio interno. Per sonorità e polifonie complesse (in tutto ho scritto quattro lavori per coro misto), è importante la collaborazione stretta tra i due sensi (tatto e udito) soggiacenti alla supervisione del Ricordo, in altre parole di quella parte della nostra mente preposta alla memorizzazione delle "idee", capace di azionare il meccanismo dell'invenzione e della poesia.
 
Girolamo Deraco
Sono una persona curiosa, quindi come posso, o se capita in qualche uscita turistica, cerco di visitare musei e di conseguenza tutto quello che gira intorno alle forme artistiche. Di fatto, per quel che riguarda il mio personale rapporto con la l'arte e specificatamente con la letteratura, mi è sempre piaciuto sia osservare-leggere che produrre-scrivere. Leggere, senza distinzione alcuna, poiché personalmente tante idee possono crearmisi da minimi particolari; scrivere, perché è un'azione che si fa anche con la musica e non poche volte mi è capitato di lavorare sul testo al fine di produrne una stretta relazione, oppure il suo contrario.
Sono sempre stato attratto dall'utilizzo del testo, soprattutto per le componenti foniche, quindi musicali, che possiede intrinsecamente e che si possono trasformare per valutarne le diverse possibilità d'impiego, che, non significa affatto metterlo in musica. Nel caso, invece, di un testo che aspiro a musicare, mi diverte creare il “congegno” che può parallelamente aprire porte altre, con la logica che una goccia d'acqua più una goccia d'acqua non fa due gocce d'acqua, ma una un po' più grossa… Di fatto, divertendomi attraverso i diversi espedienti, cerco di attuare una “distrazione” per andare a produrre visioni, oppure azioni sceniche, o, lanciare segnali che attivano la personale fantasia dell'ascoltatore… “son tali i giochi dell'estro che, per cogliere una gioia, si è capaci di crearsene una ragione, e che di notte si può, per lo spavento, arrivare a credere che un cespuglio sia una belva! (W. Shakespeare)”. Concludendo, l'utilizzo di un testo lo relaziono alla funzione che deve assumere nell'opera-azione creativa, con forte componente drammaturgica, che personalmente, è il filo conduttore che sta al di sopra di tutto (una goccia d'acqua), dal nonsense al Lieder, all'azione scenica teatrale.
Nella storia, spesso la “penna” è stata la matrice che ha alimentato l'ispirazione musicale di molti compositori e sicuramente non è cosa dei nostri giorni, ma è figlia di tempi lontani, di quando la penna era la bocca e la bocca era il suono.
 
Carlo Deri
Sono incuriosito e affascinato da tutte le forme artistiche, dalla pittura alla letteratura, all'architettura, alla scultura. La pittura, in particolare, mi prende molto e spesso mi scopro a leggere un'immagine in relazione alla musica. La fantasia si mette in moto e la fruizione dell'opera acquista uno spessore particolare quando il pensiero, vagando liberamente, mi porta a fare involontari collegamenti alla musica che si faceva al tempo in cui il dipinto è stato concepito, a ciò che quel dato artista potrebbe aver ascoltato. Si potrebbe pensare che l'approccio fosse di tipo fondamentalmente storicistico (e a questo livello un discorso analogo lo potrei fare in riferimento anche alle altre espressioni artistiche), ma questo è solo un aspetto della questione; a volte - e qui il coinvolgimento si attua su un piano di maggiore profondità - guardo i colori, le forme, le linee di fuga e mi sgorga una sorta di "traduzione musicale" di quel che vedo. Mi capita soprattutto di fronte ad immagini astratte o circonfuse di aloni particolari che rendano i contorni indefiniti; sarà perché questo genere costituisce gran parte dell'arte del mio tempo, quindi per una sorta di vicinanza temporale; o forse - e qui la spiegazione mi convince di più - perché lo sento come la forma pittorica più "musicale", cioè è quella che grazie all'allontanamento o all'abbandono della figura si avvicina maggiormente alla più astratta in assoluto delle arti, la musica, riportandomi sul terreno del linguaggio che per me è il più familiare.
Anche se il coinvolgimento emotivo della pittura è molto forte, pure il riferimento pratico, oggettivo, produttivo, l'ho ricercato nella poesia. Ho scritto musica su testi poetici di vario genere, ma mai su opere che presentassero un linguaggio soffuso di un estetismo estremizzato, niente che mi sembrasse patinato da un'atmosfera aulica che poco si addice al mio modo di sentire. Così mi sono accostato al linguaggio del Pascoli "sperimentale" di Italy - permeato di un sentimento popolare che si percepisce nei termini mutuati dalla lingua della gente umile (un'operazione peraltro condotta con spirito gentile, rispettoso, ben lontana da quel senso di sufficienza e superiorità nei confronti delle espressioni del popolino illetterato che invece si riscontra in altri autori) - all'ermetismo di Ungaretti, così affascinante nell'essenzialità scarna dei suoi versi, alla poesia angosciosa di Pavese, spesso fatta di immagini dure, di una crudezza dolorosa. La narrativa invece mi colpisce per le situazioni, per le storie che si mettono in gioco. Benché ritenga che alcuni aspetti del mio carattere siano di natura gioviale, tutto sommato allegra, mi scopro a pensare il mio rapporto artistico con la letteratura orientato esclusivamente su temi seri, tragici, che mettano in moto grandi dilacerazioni. E così, proiettandomi in una dimensione creativa, escono fuori dal profondo elementi che mi dicono che la mia natura è un'altra, venata di tristezza, certo meno leggera e piacevole per me da sopportare.
Parlando della lirica cameristica per canto e pianoforte, che è il genere che fin dall'inizio del mio cammino mi ha maggiormente affascinato, il percorso si avvia con un primo momento di meditazione del testo poetico la cui durata non è quantificabile e che può essere anche piuttosto lungo; ad un certo punto scatta qualche meccanismo che mi porta ad un contatto con l'opera poetica più “sciolto”, sempre rispettoso, sì, ma meno ­ o, forse, non più ­ timoroso, per cui si può innescare l'atto creativo vero e proprio. Un compositore, infatti, nel rivestire di musica una poesia non si limita ad un fatto tecnico, ma ne dà la sua interpretazione e così facendo le dona una sorta di “seconda vita”. Si crea, cioè, un'opera d'arte differente, che non è più la poesia iniziale, ma un qualcosa di nuovo, nel quale va messa per forza di cose in preventivo, senza falsi pudori o reticenze, anche la possibilità di mettere in luce, sottolineare e addirittura modificare o anche aggiungere ­ con sola forza della musica, e quindi senza intervenire con modifiche testuali ­elementi appena accennati o anche tralasciati dal poeta. E' insomma lo stesso concetto di interpretazione con il quale ogni strumentista che non sia un semplice esecutore deve confrontarsi ogni volta che ridà vita ad un brano, ma in forma molto potenziata: stavolta questo processo è fissato sulla carta della partitura, e si raggiunge solo dopo che si è creata una comunione spirituale con il testo poetico tanto da sentirlo come proprio. Prescindendo da questa idea costruttiva ­faticosa, sì, ma affascinante nel suo evolversi, la composizione diviene solo un fatto artigianale che non mi interessa più di tanto.
 
Fabrizio Fanticini
Il mio è il rapporto consueto di un curioso frequentatore delle “altre” forme di espressione, che a volte, quando trovo una qualche forma di affinità con ciò che ricerco musicalmente (comunicativamente) in quel determinato momento, assume forme in parte desuete; intendo che ad una fascinazione estetica per un'opera, a volte può sostituirsi il cieco innamoramento che travalica gli ambiti di lettura specifici di quella forma artistica.
Soprattutto la poesia entra fortemente nella mia opera, oltre e più che come evocatrice, come processo comunicativo parallelo più che in ogni altra espressione artistica. Trovo nella poesia una sorta di “affinità elettiva“ che coinvolge i meccanismi più profondi e intimi del comporre musicale.
Cerco di lasciare che “agisca” in profondo, rifuggendo da sottolineature letterali, usandone eventualmente i caratteri foneticamente più interessanti da un lato e dall'altro facendolo divenire evocatore di fenomeni sonori ad un livello formalmente alto in cui possano crearsi anche cortocircuiti temporali tra i due linguaggi.
 
Biancamaria Furgeri
Il rapporto privilegiato è con la letteratura e più in particolare con la poesia, più che con le altre forme artistiche. Beninteso, amo le arti figurative e il teatro, ma, almeno fino ad oggi non ne ho ricevuto un particolare impulso a scrivere. Mi attrae e mi accende la fantasia, invece, l' immagine ricevuta attraverso la parola. A tale proposito ricordo anzi che una delle suggestioni più profonde (anche visive, tanto da farmi accarezzare per lungo tempo l'idea di ricavarne una sorta di "Oratorio scenico") la ricevetti dalla lettura di Eine kaiserliche botschaft, un breve testo di Franz Kafka, che mi era stato chiesto di musicare dal Teatro dello Specchio di Castelfranco Veneto, in occasione di una serie di manifestazioni a tema, intitolata appunto "Effetto Kafka". Tali manifestazioni avrebbero occupato un intero mese, coinvolgendo musica, poesia, arti figurative e teatro. Il compito affidato a me era di trarre dalla breve "parabola" circa quaranta minuti di musica, con l'uso di due cantanti, una voce recitante e organo. Lo studio del testo e la sua realizzazione musicale mi coinvolsero a tal punto che, per anni, dopo l'esecuzione di Castelfranco, accarezzai l'idea di riprendere in mano il lavoro, anche modificandolo profondamente e dandogli una più ricca veste orchestrale. In pari tempo sentivo che il solo ampliamento sonoro non mi bastava: doveva esserci anche un completamento visivo dell'azione narrata, una sorta di "quadro vivo" che esplicitasse con l'evidenza coinvolgente della visione scenica tutta la tensione generata dal testo. Non ne feci nulla, anche per l'evidente difficoltà di realizzare in pratica un simile progetto, ma ne conservo tuttora i pochi appunti fatti e mi rimane dentro un sotterraneo rimpianto per il frutto non maturato.
Nel parlare di questa mia esperienza passata mi accorgo che forse ho in parte risposto anche a come l'arte e in particolare la poesia entra nella mia musica: c'è prima di tutto un coinvolgimento emotivo datomi dalla parola, o dal verso. In un secondo tempo prende forma il progetto musicale, che non sempre si estrinseca nell' impiego di un testo. Due esempi di tale unione sotterranea tra la poesia e la mia musica strumentale sono contenuti rispettivamente in due lavori appartenenti a stagioni tra loro molto lontane della mia attività: nel primo caso si tratta di Iuvenilia, un mio vecchio lavoro per pianoforte a quattro mani, un solo verso di una poesia di Quasimodo: Nel tempo triste della giovinezza si era, per così dire, staccato dal suo contesto, divenendo dolorosa riflessione a sé stante, quasi paradigma di un oscuro stato esistenziale... è inutile qui che io parli dei riflessi autobiografici che sicuramente mi fecero soffermare su quel particolare verso. Vale piuttosto la duratura impressione che esso mi fece, al punto da farne l'emblema nascosto della composizione.
Il secondo pezzo di cui mi pare valga la pena di parlare è abbastanza recente: risale al 2003 ed è stato scritto per trio d'archi, su commissione della Società di Concerti "Francesco Venezze" in occasione dell'ottantesimo anno dalla fondazione. Anche qui l'organico è soltanto strumentale, ma il suo periodo, per così dire, di "gestazione" è contemporaneo ad un altro lavoro che in quel tempo mi occupava: una serie di brani per coro che doveva uscire nel maggio successivo. L'ultimo pezzo della raccolta era stato concepito come un'invocazione di pace su Gerusalemme, e a tale scopo avevo scelto dei versetti da due Salmi, il 120 della Vulgata e il 122 dalla Bibbia di Gerusalemme, alternando perciò e sovrapponendo tra loro le due lingue, latina e italiana. I versetti erano scelti in modo da dare complessivamente un'alternanza di stati d'animo, come un sogno di volta in volta illuminato di speranza oppure turbato da interrogativi angosciosi. Alcune frasi di quel testo si erano talmente impossessate della mia mente che pensai di "reinventarle" in altro modo nella nuova composizione, trasformate e pensate, ora, come invocazioni senza parole, nelle quali il puro suono strumentale diventasse, esso stesso, parola e invocazione. Anche il secondo tempo del trio è stato scritto sotto il medesimo segno ispiratore: è sempre la parola dei Salmi (Propter fratres meos loquebar pacem dee) a guidarne idealmente la struttura musicale, ma, poiché in questo movimento è prevalente il compianto, connotato musicalmente su una serie di quattro dolenti accordi, una specie di trenodia per i tanti morti di quella terra, che nessun Orfeo potrà più far rinascere alla vita, un secondo riferimento interno mi è con forza riaffiorato alla mente: un frammento virgiliano (IV delle Georgiche) "At cantu commotae umbrae ibant tenues ..." e mi è parso spontaneo metterlo come sottotitolo dell'intero movimento. Ecco, forse sono riuscita, con questi esempi, a spiegare la natura dell'apporto della poesia al mio scrivere musica: si tratta in genere di una forte commozione che si accende in me per la profondità di un pensiero o per l'intima assonanza tra un mio progetto ideale e l'idea espressa dal poeta. In genere sono attratta da pensieri o poesie brevi, che mi colpiscono come dardi, per la loro bellezza e che mi invitano a trarne paralleli pensieri musicali.
 Quando uso un testo, cerco di avere sempre un grande rispetto per la parola, per il suo significato. Non mi piace la scomposizione in fonemi, il caos in cui si perde, volutamente, la pregnanza dei significati. Cerco invece di capire qual'è il culmine espressivo del testo che impiego e cerco conseguentemente che da esso sgorghi il climax del pezzo che sto scrivendo. Quanto alle scelte, ormai da tempo mi accade naturalmente di assemblare tra loro testi che mi sembrano complementari, spesso in lingue diverse. Molto probabilmente si tratta di una scelta anche di tipo culturale, in quanto il Medioevo (e quello musicale in particolare) mi hanno sempre affascinato; così, nelle composizioni corali uno dei miei modelli ricorrenti è il Mottetto medioevale. Spesso impiego uno dei due testi scelti come cornice sonora (in lunghi accordi lontani) entro cui si dipana il secondo testo, ma anche in questi casi è mia costante preoccupazione la percezione dalle parole, così come accade anche quando uso sovrapposti il suono e il parlato, anche quest'ultimo spesso presente nei miei brani per coro.
Lo stesso amore della parola e della sua pregnanza espressiva si ritrova anche nelle mie pagine per voce solista. Ho usato in più casi le varie modalità di emissione vocale, parlato, sprachgesang, grido e canto non vibrato, canto normale, ma sempre avendo cura di dare rilievo al testo e al suo significato.
 
Giorgio Gaslini
Ho sempre concepito il mio percorso artistico in sintonia con quello delle altre arti in un continuo incontro-scontro. Fermo restando il pensiero musicale come primario per me, ho sperimentato la pittura, la parola scritta, i testi poetici per la composizione, il teatro con tante mie musiche di scena, il cinema e la televisione con decine di colonne sonore. Un rapporto stretto quindi.
Ho avuto il privilegio di avere, in Conservatorio, come docente di Letteratura italiana, il premio Nobel Salvatore Quasimodo, che mi fece dono di tre sue poesie inedite che io misi in musica. Fu il mio primo vero incontro con la poesia, rapporto che dura tutt'oggi. In molti miei lavori l'opera del pittori del '900 è entrata sia come fonte di ispirazione sia come più incisiva influenza stilistica. Ad esempio in Skies of Europe (Duchamp, Kandinski) o nel recente Peintres au Café Sonnant (Fontana, Balla, Ligabue, Matisse, Munch, Mirò, Bacon, Basquiat). Inoltre devo al grande poeta Giovanni Raboni la stesura del libretto della mia Opera Thel.
Un testo poetico preesistente al lavoro di composizione musicale ha in sé tali e tante componenti strutturali che solo attraverso l'umiltà di un approfondimento si può metterne in musica l'essenza. Ovvero spesso è già musicale di per sé.
 
Gaetano Giani Luporini
Un ex allievo di mio nonno materno, Gustavo Giovannetti, diventa il mio primo insegnante di armonia, sia lui che mia madre si dilettavano con profitto a dipingere e così mi trasmisero l'amore per la pittura, che sarà incrementato dalla conoscenza del pittore lucchese Vincenzo Barsotti, amico del nonno (importante compositore e Direttore dell'Istituto "Boccherini" di Lucca, ndr.). I miei primi quadri riprendono certi tratti dei Macchiaioli, ma in maniera del tutto istintiva, senza aver mai visto le opere dei Maestri livornesi. Dipingo inoltre suggestive marine, mentre i quadri astatti li ho dipinti prevalentemente fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, sono delle trasparenze musicali, a volte sembrano costruiti come un Corale, altre volte come un Divertimento, con giochi di armonie e un sotterraneo senso drammatico, altre volte ancora come un Notturno: blu, grigi, verdi e violacei sono i colori preminenti che creano atmosferi trasognate, acquatiche o minerali. E' il colore che genera la forma. I quadri sono grandi, anche se vi sono bozzetti di piccole dimensioni, schizzi da cui nascono le idee (anche musicali). In molti di questi lavori c'è un elemento generatore che si espande e che rimanda al concetto di nascita (importante anche per la musica). La luce si pone in maniera dialettica con l'oscurità, perché anche le tenebre possiedono la loro energia. La ricerca pittorica è sempre materica, poche le tele, lavoro soprattutto con faesite e compensato; sulla superficie degli olii si susseguono bruciature e sabbiature, rendendo il quadro molto granuloso, mosso e drammatico.
Dopo una Mostra nel 1966 la pittura viene abbandonata e questo abbandono viene compensato da un'intensa attività poetica. Le prime poesie le ho scritte all'età di poco più di vent'anni, ma sui trenta ci torno con più consapevolezza. Anche di recente, dal 2000 a oggi, ho ripreso a scrivere molte poesie, alcune pubblicate, per la prima volta, nel libro che Renzo Cresti ha scritto su di me (Gaetano Giani Luporini, musica fra utopia e tradizione, LimAntiqua, Lucca 2005). La pittura esprime il senso spaziale del gesto e del colore, la poesia comunica lo scorrere delle immagini e dei pensieri, la musica sollecita il tempo interiore e il mistero profondo delle cose. Molto spazio ho dato ai testi nelle mie composizioni, per accrescere le suggestioni della comunicabilità, testi che vengono forgiati dalla mia fantasia musicale, legata alla forza magica dell'intervallo, inteso quale elemento vivificante e comunicatore della musica.
Anche per il teatro (come per i tanti spettacoli di Carmelo Bene per i quali ho scritto la musica) si deve espletare l'evento nelle sue componenti strutturali: non trame avvincenti o fatti suscitatori di epidermiche emozioni, ma proiezioni di stati interiori.
 
Stefano Giannotti
Facendo il punto della situazione, dopo più di 30 anni che scrivo, potrei suddividere questo lungo arco di tempo in 3 periodi. Nel primo, che va da quando avevo 11 anni fino all'età di 20 ho prevalentemente scritto canzoni, basandomi molto sul testo che agli inizi, da poco più che bambino accompagnavo nella tradizione dei miei idoli (Bob Dylan, Beatles, Rolling Stones, David Bowie); dal periodo del liceo ho iniziato ad introdurre strutture più elaborate e ricerca sonora più raffinata, imparando ad impiegare, sempre nelle canzoni, anche strumenti alternativi alla chitarra e al piano, come percussioni e oggetti, sintetizzatore, e soprattutto negli ultimi anni, suoni trattati attraverso l'elaborazione del nastro (in modo ovviamente rudimentale, poiché possedevo solo registratori a cassette); questi primi 10 anni sono stati importantissimi per tutta la mia produzione successiva, giacché la mia musica prendeva pian piano la forma di opera, una specie di teatro musicale su cassetta audio, paragonabile agli album-concept del rock progressivo inglese (Genesis, Pink Floyd, Emerson Lake & Palmer Van Der Graaf, Gong, ecc.); raccontavo storie a sfondo mistico, romantico, metafisico, utilizzando i testi sia come elemento lirico, sia come elemento narrativo, con ampie zone strumentali, ricche (nella loro frequente ingenuità) di immagini (boschi acustici, organi di cattedrali, tamburelli ad imitazione di ritmi tribali universali, dunque non necessariamente africani o aztechi, ma etnici in quanto il timbro suonava etnico) e ancora oltre echi e riverberi, tremolo boxes e così via. L'esperienza più entusiasmante era per me poter creare un album (cassetta), la cui storia continuava nei seguenti due o tre lavori; a quel punto le mie storie, di cui realizzavo tutto, dai testi ai disegni (e successivamente le foto), dalle musiche alla registrazione, diventavano un contenitore per lo svilupparsi di una vera e propria mitologia di personaggi, un diario dei miei amori di teen-ager, una raccolta di storie, e una geografia di azioni sonore e visive. Tutte queste esperienze sconfinarono dopo i venti anni nello spettacolo Il Teatro del faro, che sancì anche la mia vera uscita in pubblico, fuori Lucca e all'estero; conteneva tutte le suggestioni dei lavori del primo periodo, sostituendo la forma canzone con il narrato, e aggiungendo finalmente immagini (su diapositiva) che collocavano il lavoro a metà fra un teatro marionette e un cartone animato; avendo evitato la canzone, la musica seguiva fedelmente in modo descrittivo la narrazione, ma si sostituiva anche ad essa; il risultato finale era un tutt'uno inscindibile di musica, immagini e poesia; se si toglievano le immagini allora il brano diventava una specie di radio-dramma piuttosto sperimentale (almeno nella mia idea, poiché non conoscevo i grandi fermenti internazionali nel campo specifico).
Il primo lavoro che mi inserì nel mondo della radio di cui ancora oggi faccio parte in parte, fu Ritratto di paese, dove un testo scritto e narrato da attori professionisti, viene totalmente evitato e sostituito con racconti fatti da voci di contadini e paesani sulla loro gioventù e sui bei tempi; portai ad estreme conseguenze l'idea già sperimentata ne Il teatro del faro, e cioè, che il racconto può diventare un elemento compositivo al pari della musica; utilizzare frasi spontanee come melodie e i suoni del paesaggio come armonie, evitando questa volta l'uso di strumenti suonati, ma semplicemente trattando i suoni esistenti in chiave elettroacustica; inoltre utilizzare il documentario come opera d'arte; questo lavoro rivoluzionò la mia esistenza, anche perché vinse un premio della Polskie Radio come documentario radiofonico (genere di cui non avevo la minima conoscenza) e mi procurò i contatti con alcuni di coloro che ancora oggi sono i miei produttori. Negli anni successivi ho prodotto molte opere radiofoniche sviluppando ulteriormente queste strategie di combinazione dei testi e dei suoni, spostandomi più recentemente su di un piano meno narrativo e più astratto; tale astrazione la noto ancor di più nelle canzoni che dal 1990 (dopo 7 anni di abbandono della forma ed il passaggio dall'Inglese all'Italiano) ho ricominciato a scrivere. Con la radio, in questi ultimi anni mi sono reso conto dell'inutilità del verbo, visto che si può narrare attraverso suoni, rumori e in caso di allestimento scenico, immagini.
Ho la sensazione che nel 2003 sia iniziato il terzo periodo; il passaggio non ancora completo dalla radio al video e dunque alla media-art in genere, secondo le nuove tecnologie; tale passaggio è avvenuto in maniera naturale, è bastato trattare le immagini video allo stesso modo in cui tratto i testi o i suoni; nella radio molto spesso ho raccontato storie evitando il testo, dunque utilizzando il microfono e l'editing come nel cinema si usa la macchina da presa ed il montaggio - in altre parole affidandomi ad azioni acustiche che contengano in sé la narrazione, magari illogica, surreale, ma consequenziale; nel video opero allo stesso modo, creando storie per immagini e suoni, limitando i testi al minimo indispensabile; il montaggio è molto simile, solo più complesso nella gestione dei materiali e ovviamente nella parte tecnica. Successive applicazioni di questo mio tragitto potrebbero essere il cinema di animazione, il vero cinema, o l'esplorazione delle enormi potenzialità dell'arte interattiva, dei giochi di ruolo, del web-design e di chissà quali altre esperienze. Utilizzare diversi media come musica, immagini, testo, azione scenica, performance, mi fa sentire molto bene; mi dà quel senso di completezza che la sola musica non mi ha mai dato. Un modo di percepire la propria esistenza nella completezza di ciò che il mondo ci mette a disposizione, strizzando l'occhio sia al futuro che alla tradizione.
 
Arduino Gottardo
Posso ricordare chiaramente quale fu l'inizio del mio interessarmi di letteratura, soprattutto di romanzi e di poesia, una volta superato l'impatto scolastico con le letture d'obbligo: intorno ai vent'anni; questo interesse era nato come valvola di sfogo, come superamento di un periodo abbastanza pesante dal punto di vista affettivo, vissuto negli anni precedenti. Il primo Autore in assoluto che ha colpito la mia attenzione è stato Joyce e partendo dai Dubliners, fino al capolavoro che è l'Ulisse, credo di avere letteralmente divorato in un anno ciò che potevo di questo Autore; la cosa poi è continuata per una decina di anni (fino all'inizio degli anni '80) rivisitando più volte il testo dell'Ulisse, perché ho trovato alle successive riletture sempre qualcosa di nuovo; questi nuovi, successivi, stimoli creativi credo si siano riversati anche sul piano della ricerca e scrittura musicale.
Non è un caso se uno dei miei primi pezzi di sperimentazione sul suono (suono trattato elettronicamente e elettro-acusticamente) Fluxus, del 1979, si basava proprio su un testo tratto dai Dubliners di Joyce! Questa rivisitazione è stata per anni intercalata con la frequentazione di autori latinoamericani come Manuel Puig, Adolfo Bioy Casares, Julio Cortázar, José Maria Arguedas, Julio Ramon Ribeyro, fino a culminare più tardi nei romanzi di Gabriel Garcia Marquez, senza dimenticare le epopee narrative di alcuni scrittori meno conosciuti in Europa, come Ignácio Loyola Brandão con il suo romanzo di testimonianza e di lotta rivoluzionaria Zero, uscito nel 1974 da Feltrinelli e tradotto da un giovanissimo e già bravo Antonio Tabucchi, oppure i romanzi di Mario Vargas Llosa o di Jorge Amado. Contemporaneamente a questi scrittori, una frequentazione dei poeti sudamericani, nordamericani della Beat-generation e tedeschi, dava un senso compiuto alla mia ricerca linguistica che, credo, abbia avuto una ricaduta effettiva anche sulla mia ricerca musicale. Sono di questo periodo le sperimentazioni sui suoni multipli, sul flusso sonoro continuo, sulle performances audio-visuali e teatrali intorno ai miti classici e moderni assieme al gruppo “Officina del Raptus” (già il nome era un programma!) di Firenze.
Tra le carte ammonticchiate nella soffitta ritrovo spesso e sposto, mettendole da parte sempre con “un certo non so che”, le copie di una mia pubblicazione poetica di quel periodo, inopinatamente giunta anche ad una finale del Premio Viareggio del 1978 o 79 (non ricordo) poiché sono stato anche un frequentatore di poesia non solo come lettore ma purtroppo, come la metà più uno degli italiani, anche come scrittore! Ironia da una parte e insonnia dall'altra, la frequentazione poetica ha continuato negli anni con scelte sempre diverse, non seguendo fili logici predefiniti come nelle prime letture, ma affidandosi al caso come evento predeterminato: all'innamoramento e alla curiosità.
Nei rapporti con la composizione, il testo poetico o letterario è comunque sempre stato altra cosa, in pratica ho trattato il testo stesso come un elemento di partenza da cui far scaturire la composizione, come uno strumento da scardinare, stravolgere oppure dimenticare, proprio cercando di far prevalere prepotentemente solo il con-testo musicale. Ovviamente ciò non in senso assoluto, dipendeva sempre dal tipo di composizione che mi era stata richiesta o che mi ero riproposto di scrivere: da qui la frequentazione di Autori come Gianni Rodari, di cui ho messo in scena diversi testi per il teatro didattico per ragazzi, o di Frank L. Baum per la novella Il mago di Oz.
Tra gli autori italiani, ormai classici come Gadda, Calvino, Ripellino, o altri, che ho frequentato dagli anni '80, devo assegnare un posto particolare ad Alberto Savinio (interesse sia sul piano letterario sia su quello musicale) di cui penso di avere letto quasi tutto e che mi ha colpito, oltre che per le vicende umane, per quell'ironia velata di malinconia e di leggerezza che ho ritrovato poi così ben descritta da Calvino nelle Lezioni americane, senza dimenticare il Barthes di Roland Barthes, di frammenti di vita analitici con un sapore leggermente proustiano. Ma non posso dimenticare, appunto, la frequentazione con i poeti americani e sudamericani, che ha lasciato tracce indelebili anche in particolari strumenti tecnici della mia scrittura musicale, mentre dall'altra parte la figura strutturale compositiva di un testo come l'Ulisse di Joyce ha sicuramente influito nelle scelte operative compiute in quegli anni e successivamente.
Tuttora nella composizione musicale applico spesso il "flusso di coscienza" yoiciano (stream of consciousness), quando invece non mi faccio prendere dall'antica passione del gioco situazionale e concettuale, collaborando alle Mostre della Galleria "Il Gabbiano" di La Spezia con partiture che hanno una doppia o tripla valenza di lettura musicale, concettuale e/o visiva perché il bello del gioco è giocare...
 
Mauro Lupone
Fin dalle prime esperienze del “repertare” elettroacustico, così come appreso dalla lezione di Nono trasmessami da Alvise Vidolin, in quel luogo risuonante di pietra e acqua che è la Venezia del Conservatorio “Benedetto Marcello” – in cui esploravamo tecniche estese, risonanze strumentali elettroacustiche ed interiori, incontrando come lui la pittura di Turner, il tempo fenomenologico di Bergson, Hoelderlin (che adesso incontrerò nuovamente in una imminente prossima produzione di teatro intermediale) -, ho voluto riporre la mia attenzione verso ciò che anche Varèse amava definire “l'intelligenza presente nel suono”. Il suono portatore di significato, simbolo, memoria e preveggenza. I miei lavori iniziali per strumento e nastro magnetico o live electronics riflettevano questo spirito, alla ricerca di un archetipo profondo, di una simbologia immanente (Numen, Prismi, Ur.. ) , come ha sottolineato il critico A. Romanini “agisce sulle morfologie profonde dell'ambito sonoro, selezionate in mezzo al flusso, analizzate, scomposte e riproposte, acquisendo statuto nuovo per la percezione. Il concetto di flusso come volontà di generare un processo piuttosto che un prodotto in cui l'ascolto diventa ruolo motore della sequenzialità narrativa, ruolo attivo e di coautorialità”. Questa ricerca si è rafforzata poi nei mie lavori successivi, in cui il suono ha esteso il suo campo di azione incontrando il segno visivo, la parola e il corpo, lo spazio e le elaborazioni della tecnologia digitale, talvolta in esperienze tecnoteatrali (OvMMO, Storie Mandaliche. Hamelin), altre volte in installazioni multimediali e interattive (X-8x8-X, Effetto Neve, Flussi), in prodotti audiovisivi (Solo Limoni, Deep Noise) o in esperienze di ricerca tecnologica applicata alla totalità sensoriale (Flussi, 3D-DanceAudioSpace, DjSet alchemico). Del resto, la convergenza automatica delle informazioni è la forma più diffusa di conoscenza. La natura multidimensionale dell'incontro dialogico tra segno visivo, suono e spazio-forma trasforma profondamente l'ordine del sensibile e offre allo spirito e all'immaginazione altri supporti, altri mezzi, altre prospettive e altre ambizioni, generando codici che devono tradurre l'informazione in un simbolismo chiaro, sia a livello di determinazione di segni che di regole di collegamento, permettendoci di passare da un registro sensoriale all'altro, coordinando dimensioni diverse della realtà.
Andiamo cioè a incontrare quella che Nattiez definisce una competenza comune, ovvero una correlazione reciproca tra senso e forma che rimanda ad un'unità culturale codificata, ma che in particolar modo riconduce anche alla individuazione dei cosiddetti “universali”, non più cercati a livello delle strutture immanenti ma a livello più profondo, a livello dei processi e dei comportamenti comuni, dei principi di funzionamento. Il mio tentativo è, in sintesi, quello di analizzare i criteri di pertinenza tra senso/forma, significato/significante, alla ricerca di un codice comune che uniformi l'esperienza in una semiosi cosciente, così come ben espresso dal critico Oliviero Ponte di Pino in merito al lavoro tecnoteatrale OvMMO (Produzione ZoneGemma-Xear) “è un'operazione di transito fra linguaggi, una session in una zona instabile di trasformazioni dal corpo d'uomo alle tecnologie applicate alle immagini, all'elaborazione dei rumori” . Un'esperienza che investe lo spazio e si svolge nella memoria e nei processi di percezione delle sinestesie presenti nei materiali, non dimenticandosi mai del dettaglio “uomo”.
 
Carla Magnan
Forma, colore, spazio, tempo - valori costitutivi e costituenti il mondo delle arti - si fondono e confondono in uno scambio posizionale per poi tracciare molteplici corrispondenze. Così scrittura, pittura, scultura, ma anche architettura, matematica, come qualsiasi forma d'espressione, provocano un'implosione dell'arte nella percezione emotiva. E come l'occhio articola lo spazio, scindendo e ricomponendo le immagini, come una sorta di lente, modellando visioni e illusioni, l'orecchio capta la voce interna di queste costruzioni continuamente in evoluzione. La forza del segno e l'energia del suono, in una sorta di simbiosi, vanno così a creare continue percezioni e stimoli. Del resto obiettivo primario dell'arte è suscitare impressioni, emozioni e sinergie che se pur contrastanti, possono – e devono - condurre a nuove ideazioni. In particolare suono e parola hanno in comune il fascino e la potenza di espressione di qualcosa che non deve necessariamente essere “fisicamente” presente, ma che al tempo stesso è quasi controllabile, proprio mediante la forza dell'espressione e del canto, quindi tramite la parola e le figure retoriche, il verso e il suono. Heine descrive perfettamente questo delicato equilibrio: “ La musica è una cosa strana. Oserei dire che è un miracolo, perché sta a metà strada fra pensiero e fenomeno, fra spirito e materia, una sorta di nebuloso mediatore uguale e diverso da ciascuna delle cose che media – spirito che necessita di una manifestazione nel tempo e materia che può fare a meno dello spazio” .
Poesia e musica hanno percorsi e origini comuni. Non soltanto perché la parola è suono, molto prima che segno o immagine scritta, ma perché entrambe obbligano al lavoro formale: possiedono il fascino per il controllo su qualcosa creato dall'uomo e contemporaneamente misterioso, a cui non sfugge l'imprevedibilità apportata dal “mezzo” sonoro che trova nel timbro espressivo del cantante - del parlante - eterogeneità, compiutezza o increspature. La reiterazione e la ritmicità dei suoni, unite alle nuove possibilità fonetiche e timbriche, risultano non soltanto efficaci per la trasmissione del messaggio compositivo, ma inducono anche ad un gioco intenso tra il tangibile sonoro e l'astrazione del pensiero. Il modo di utilizzare i segni, e quindi le espressioni, facendoli tornare ad essere intrinsecamente netti, sbalzati e cesellati, fa sì che si tramutino in attori protagonisti di una nuova avventura formale. Ogni loro gestualità, ogni loro presenza o trasformazione, va considerata non più – o non solo – come facente parte del calcolo strumentale del modello di un'opera musicale, ma come parti integranti di un'opera narrante. Come il suono modula il divenire, compiendo o smentendo le attese, la parola divenuta segno, vuol mantenere la funzione di provocare e guidare l'intuito dell'ascoltatore nel percorso creativo del lavoro, servendo da trampolino verso i limiti del comprensibile, tra le immagini isolate evocate laddove suonano le parole.
 
Luigi Manfrin
Il rapporto tra musica e altre forme d'arte prepone una serie di questioni strettamente interrelate, inerenti al complesso significato di produzione artistica. Quest'ultima è una forma di pensiero accanto alla filosofia e alla scienza; queste forme sono divergenti nonostante le numerose intersecazioni continuamente poste tra loro, poiché da una parte l'attività artistica opera con il rigore dell'immaginazione (da non confondersi con la fantasia soggettiva) costruendo oggetti attraversati da puri dinamismi sensoriali, mentre dall'altra la scienza inventa funzioni, variabili e proposizioni referenziali che definiscono fatti o stati di cose. Ciò non significa che l'arte non attinga dai paradigmi scientifici concezioni e conoscenze importanti, si pensi ad esempio allo studio del suono, della luce e dei colori, oppure agli apporti derivati dalle discipline cosiddette morbide o umanistiche che si occupano dei segni linguistici o dei processi storici sottostanti alle formazioni artistiche; inoltre, la recente rivoluzione digitale ha segnato un irreversibile “contributo scientifico” nell'arte introducendo l'impiego di sofisticati strumenti tecnologici per il trattamento dell'immagine e del suono, come dimostrano gli esempi attuali dell'elettronica.
Tutt'altro è il discorso concernente la relazione tra le diverse espressioni artistiche, dato che sussiste una convergenza basilare che definirei di tipo “plastico-scultoreo”: l'arte “scolpisce” ovunque le sensazioni dell'immaginazione in modo da creare esseri sensoriali puri, esistenti per sé, e ciò rende ogni particolare forma artistica attraente per tutte le altre; infatti, ci si può anche chiedere cosa può esserci d'attraente nella musica per un artista figurativo che opera con le immagini visive o per la scrittura di un letterato. Si tratta di una questione filosofica che spesso pongo a me stesso riguardo alla mia musica; ciò in conseguenza del fatto che avverto continuamente la necessità di decentrare il mio agire creativo, non solo dal contesto compositivo musicale, ma soprattutto da me stesso, non per spersonalizzarmi ma – come scrive Deleuze a proposito dell'arte – per eccedere “gli stati percettivi e i paesaggi affettivi del vissuto” nella misura in cui l'opera d'arte “è un essere di sensazione e nient'altro”, ossia un “composto di percetti e affetti” esistente in sé.
È perciò tramite l'interrogazione filosofica sull'arte che muove la mia ricerca sulle correlazioni espressive, anche se la filosofia diverge dalla sfera artistica in quanto riflessione che ritaglia e articola concetti su concetti che fanno pensare alla sensazione senza coincidere con essa; dunque, una metariflessione filosofica che separa la filosofia dall'arte nel momento stesso in cui fa della filosofia sull'arte individuandone la sua potenza espressiva autonoma.
In molte opere di poesia contemporanea sono individuabili dinamismi testuali che mettono in gioco vettori segnici, alludenti a sensazioni ed immagini continuamente deformate, spostate od oscillanti su piani semantici parziali, interrotti e autoreferenziali. Una scrittura, quindi, che non consente alcuna immediatezza, che non rinvia ad un mondo che le preesiste, ma – come teorizza Derrida a proposito di Mallarmé – “che è essa stessa un mondo concluso, autonomo, insieme di segni organizzato sintatticamente senza referente esterno o interno, oggettivo o soggettivo”.
La dissoluzione poetica dell'idea tradizionale di rappresentazione mimetica è stata espressa bene da Montale: “nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire”. Tale “tensione da dissonanza” così disorientante, così carica di suggestione derivante da forze linguistiche sensibili al ritmo e al suono, con riverberazioni semantiche poste nelle zone marginali di una parola o da un collegamento anomalo di parole, suscita una forte attrazione sulla musica e sull'arte in generale. Sono proprio queste suggestioni sintattiche sensibili della poesia a stimolare spesso la produzione di una mia composizione anche se poi essa procede autonomamente, vale a dire senza dover necessariamente tradursi in un testo musicato, mantenendosi invece sul piano della musica strumentale pura; inoltre l'attività poetica-letteraria esprime soventemente una polimorfia di sensazioni, ciascuna con un proprio divenire interno, facendo irrompere nella creazione d'immagini verbali processi di corrosione a volte rapidi e improvvisi, suggerendo così la presenza di un doppio registro dell'immaginazione artistica: essa non sarebbe altro che un'attività formatrice di sensazioni pure slegate dalla sfera soggettiva, o una “plastica della percezione” quale fabbricazione di percetti nuovi a partire dalla scelta di agire su un determinato materiale, un'attività formatrice attraversata tuttavia da una sorta di «vettore folle» dall'apertura disorientante e corrusiva delle strutture definite, quindi deformante o tendente al caos.
Dunque, l'attenzione all'arte passata e soprattutto contemporanea entra nella mia musica tramite l'interrogazione continua sui modi e sulle dinamiche produttrici contrarie sottostanti alle singole opere in cui avverto affinità poietiche, un'investigazione che si concretizza nell'elaborazione di tecniche compositive analoghe alle procedure delle arti plastiche, linguistiche e pure cinematografiche, pur restando nell'ambito strettamente musicale.
L'impiego di un testo non può limitarsi ad essere un semplice rivestimento musicale della parola tramite il ricorso al canto accompagnato da strumenti; al contrario, è necessaria una creazione ex novo attraverso cui far interagire il testo con il suono della voce, il timbro strumentale ed, eventualmente, con quello sintetico, per la realizzazione di un mondo estetico autonomamente sussistente. /.../
 
Pippo Molino
Mi è sempre piaciuto comporre musica, e già da questa prima affermazione, forse un po' troppo sincera o confidenziale, vorrei che si capisse che non mi interessa esprimere concetti che sembrino intelligenti, ma dire molto semplicemente cose vissute. Da un lato mi è sempre piaciuto, dall'altro, e questa seconda attitudine in verità è maturata gradualmente nel tempo, ogni mio scritto musicale è legato a uno spunto emozionale, -si potrebbe dire- a un'idea molto delineata, che deriva da qualcosa di necessario che tale scritto provoca, ispira, richiede. Per necessario intendo per esempio: il pezzo deve, o vuole, essere per un determinato strumento o insieme di strumenti; da questa semplice premessa parte già da qualcosa di necessario, che la limita. Il rapporto con questo tipo di necessità mi è sempre piaciuto, è una specie di sfida ogni volta, ad affrontare l'idea e i limiti imposti di conseguenza dall'idea e insieme dalle condizioni strumentali. In questa direzione, ma in un modo molto più entusiasmante, si plasma per me il rapporto tra la musica che scrivo e la parola da un lato, e dall'altro, più che con l'immagine in sé, con qualcosa che l'immagine implica: l'avvenimento teatrale. Il vero teatro mira a far succedere ancora, ogni volta di nuovo, un avvenimento ricordato o immaginato. Mira ad un tipo di comunicazione globalmente umana con il pubblico, coinvolgente perché rimanda sempre a parecchi aspetti che fanno parte di quella grande e affascinante complessità che forma la vita vissuta.
La consanguineità tra la musica che sono capace di scrivere (può essere un pregio e può essere anche un limite...) con la parola, nel senso che scrivere su testo non mi ha mai preoccupato quanto stimolato, e con il teatro, è comunque qualcosa di particolarmente vissuto per me, in modo forse anche indipendente da ciò che scrivevo qui sopra. Il testo non mi fa perdere il filo del pensiero musicale, anzi lo provoca, lo stimola, suscita in esso processi di analogia, di contrasto, di ironia. Un teatro che non sia, poco o tanto, divertente è forse sopportabile? Ma – sono convinto che ormai siamo in tanti a pensarla così – una musica forse sfugge a questa esigenza? Dopo l'ultimo travagliato secolo, in cui la musica e l'arte hanno osato come non mai, eccedendo in geniali o orgogliosi tentativi e scarseggiando in comunicazione, in commozione, in ironia, non abbiamo forse un po' perso per strada questa necessità, che anche (o soprattutto) la musica sia qualcosa di incontrabile dalla globalità della persona? E incontrabile anche, almeno in qualche misura, dalla totalità delle persone, almeno non solo da quel pubblico finto che è formato solo da addetti ai lavori? L'argomento è tanto scottante e drammatico, che non può certo ridursi, non si può sperare di risolverlo in una diatriba salottiera. Prova ne è il fatto, indiscutibile, che una grave frattura in questa ultima decina di decenni l'uomo occidentale l'ha incontrata, la frattura esplicitata dalla contraddizione che Schönberg evidenziava tra bello e vero. Ma la sovrana libertà dell'uomo e dell'artista di esprimere il suo dramma occorre non diventi un'ideologia un po' tiranna. Se Schönberg, specie in certi passi della sua vicenda creativa, non vedeva possibile la coincidenza tra quelle due parole, tanti altri grandi tale coincidenza, tra bello e vero, non solo hanno desiderato, ma hanno anche sperimentato ed espresso. Da tale pace (o armonia direbbero in oriente) potrebbe derivare la riconciliazione tra termini oggi, specie tra gli addetti ai lavori, così spesso in conflitto; tra questi musica e parola, da sempre, proprio nella nostra tradizione occidentale, così in rapporto di relazione e di necessità.
Come per tutte le domande più serie, anche in questo caso penso che non dico la risposta, ma l'affronto serio, autentico, può venire solo dall'autentica esperienza personale, e tornando quindi a questa (da cui non solo sono partito, ma non amo proprio discostarmi) quello che ho da raccontare da un'ultima esperienza, in pieno corso, di scrittura per il teatro musicale, è che amo sempre di più non solo farmi tentare dalle suggestioni degli elementi extra-musicali più usuali, come il testo e il teatro, ma amo approfondire l'esperienza di relazione profonda, di suggestione, di suggerimento, di facilitazione che da tale relazione viene incoraggiata. Sono sempre più convinto che l'apporto interessante nell'arte musicale (come in tutto) non venga dalle intenzioni, dai proponimenti, ma dall'innamoramento, dal fascino che la realtà è in grado di offrirmi, e insieme dall'esperienza coinvolgente (per me e di conseguenza, spero tanto, per chi ascolta) che i vari aspetti della realtà, come certamente il testo e la musica, sono in grado di far avvenire. Ecco: la musica come avvenimento.
 
Carlo Pedini
Il paragone con le forme che si possono ottenere modellando un blocchetto di plastilina è quello che mi viene più spontaneo cercando le simiglianze fra il mio lavoro nella musica, nelle immagini e nei lavori teatrali. Dovrei anche dire in alcuni moduli narrativi, ma quest'esperienza è tuttora rimasta confinata nel campo privato.
Partendo da un materiale dato (la plastilina dell'esempio) questo viene modellato, scomposto e ricomposto secondo modelli di riferimento che debbono restare ben identificabili: la materia resta sempre la stessa e la trasmutazione all'interno di uno stesso modello avviene per piccoli cambiamenti, cercandone aspetti diversi all'interno della stessa figura. Si immagini ad esempio la realizzazione di un cavallo che prima assume una posizione sdraiata, poi, rimodellando poche parti passa a quella in piedi, quindi va a trasformarsi nella posizione del galoppo ecc. La pluralità di tipologie è virtualmente infinita, ma in realtà, dopo un certo numero di cambiamenti, il modello perde di interesse e l'operazione ha termine.
In musica ho operato questo tipo di “modellamento” utilizzando materiali fortemente storicizzati: per molti anni ho utilizzato esclusivamente accordi di settima delle prime tre specie (ognuno generava gli altri mediante micromodificazioni: uno slittamento semitonale una nota alla volta) dai quali si generavano anche scale diverse per ogni accordo (non sempre riconducibili a quelle tonali). Ho tentato l'operazione anche con accordi di nona, ma le combinazioni (contrariamente a quanto si potrebbe pensare) venivano a ridursi ed appiattirsi perché più c'erano note in gioco e meno restavano combinazioni disponibili. Così ultimamente ho ulteriormente semplificato i materiali di base e sto lavorando solo con triadi maggiori e minori.
In campo figurativo ho lavorato a dipinti dove il denominatore comune è un immagine costituita da paesaggi popolati di greggi, mentre le variazioni sono date dai cieli (con o senza nubi), dal colore (variazioni sull'ocra), dalle singole pecore del gregge e dalla forma del telaio (o dei telai, nel caso di quadri “multipli”). /.../



Cfr. in questa sezione il saggi L'e(ste)tica






Renzo Cresti - sito ufficiale