Testimonianze (parte quarta)
Testimonianze di compositori presenti in Renzo Cresti, Linguaggi della musica e delle arti, Il Molo, Viareggio 2008. Alcune interviste sono parziali per leggerle integralmente prendi il libro.Paolo Perezzani, Gianfranco Pernaiachi, Oronzo Persano, Andrea Pidoto, Biagio Putignano, David Remigio, Paolo Ricci, Pietro Rigacci, Paolo Rimoldi, Nicola Sani, Claudio Scannavini, Flavio Emilio Scogna, Matteo Segafreddo, Roberta Silvestrini, Simona Simonini
Paolo Perezzani
Nel mio modo di intrattenere rapporti con le altre forme artistiche riconosco molti aspetti sostanzialmente simili a quelli che caratterizzano la relazione, di ascolto, che sono solito instaurare con la musica. Di quest'ultima, già durante l'infanzia, mi stupiva il fatto che, spesso dopo ripetuti ascolti, ad un certo punto accadeva qualche cosa come un “capirla”, senza per altro comprendere in che cosa consistesse questo “intenderne il senso” e nella quasi totale impossibilità di descriverlo con le parole. Questioni, queste, intorno alle quali non avrei più smesso di continuare a riflettere (anche dall'interno del mio fare compositivo), e proprio a partire dal modo di intendere l'ascolto maturato sin da quelle prime esperienze: come progressivo crescere (e trasformarsi) del nostro rapporto con ciò che ci attrae, come esperienza implicante perciò una sorta di lavoro: un andare incontro a..., un costruire e ricostruire immagini interiori di ciò che arriverà ad acquistare senso e significato proprio dall'incontro con noi, con il nostro mondo.
Dalla emozione e dallo stupore di fronte alle cose dell'arte può però sorgere qualcosa come un bisogno addirittura diverso da quello che si esprime nel desiderio di possedere l'oggetto amato, di portarlo, appunto, nel nostro mondo. Certo, dare senso alle cose implica proprio questo movimento (per questo non c'è cosa che, incontrandoci, non assuma significato per noi), ma altro e forse più complesso è il problema di riuscire ad esprimere, anche a noi stessi, quel senso; e, ancor più, di farlo senza tradirne l'originaria consapevolezza a non pretendersi definitivo o capace di tradurre (tradire) e ridurre alla nostra portata ciò che nelle cose - anche nelle cose fatte da noi - tende invece a superarci e ad aprirci ad altri infiniti sensi possibili, inaugurandoli. Da qui la necessità di lasciare spazio anche ad un'altra possibilità: non solo di portare a noi le cose dell'arte ma anche di tentare di stare loro accanto, facendone esperienza, attraversandole. Il desiderio, più avventuroso, di abitarle può così giungere ad implicare addirittura un altro, forse più coinvolgente, lavoro: quello rivolto a dare forma al bisogno di parlare a nostra volta. E' così, da qui, che nasce e si alimenta il mio fare. E non si tratta tanto di un nutrimento da intendersi in modo tutto ideale e astratto: dico proprio che ad originare le prime idee (le prime fantasticherie, a volte) di un progetto e addirittura a risolverne taluni aspetti realizzativi mi servono davvero quegli ascolti e quelle vicinanze. Lì riconosco la fonte da cui origina l'entusiasmo necessario per accingermi alla costruzione di un dire che non troverebbe altro modo per esprimersi, e sempre da lì, “ascoltando” un quadro, o una poesia, o un film... ho imparato anche a prendere, “rubare”, elementi e modalità costruttive, principi organizzativi: ciò con cui non può non avere a che fare continuamente anche il mio lavoro. Il fatto è che le logiche costruttive che utilizziamo per mettere tra loro in relazione i suoni non riguardano solo la musica ma hanno a che fare con le altre arti e con gli altri saperi (il volume di Sciarrino, Le figure della musica, in questo senso indica un campo di riflessione che mi sembra davvero aperto a sviluppi alquanto fecondi): da qui anche il mio bisogno di stare “in ascolto” e di vivere la musica all'interno della più vasta articolazione della vita della cultura.
Con la poesia e più in generale con la parola il rapporto è andato via via sviluppandosi nel tempo e seguendo un percorso abbastanza complesso e articolato. In realtà un rapporto, anche molto intenso, c'è sempre stato innanzitutto nel senso prima ricordato: il contesto di “ascolti” entro cui i miei lavori sono nati è stato quasi sempre ricco anche di letture poetiche, e forse tracce di quelle letture sono anche individuabili nei miei primi lavori: soprattutto Rilke, ma anche Borges, o Trakl, o Zanzotto... Per molto tempo sono però stato del tutto incapace di immaginare di utilizzare esplicitamente dei testi affidandoli al canto, e così diversi frammenti poetici si sono a lungo limitati a lambire soltanto la mia musica apparendo nei titoli (ruolo, per altro, da non sottovalutare: in fondo, nell'aggiungersi alla musica, il titolo entra a fare parte del pezzo). Il problema nasceva dal modo di concepire la eventuale presenza della voce nella mia musica: la pensavo come qualcosa che poteva situarsi al di qua o al di là del dire del linguaggio, sempre però mancandolo nel momento cruciale del suo apparire in forma di parola; pensavo alla voce piuttosto come modo di apparire del verso dell'animale umano, come suono che solo così, senza piegarsi ad altre logiche, riusciva a convivere all'interno della articolazione della musica.
La presenza della parola recitata, non cantata, era invece meno problematica: in essa ritrovavo un modo più coerente di permettere e di valorizzare il risuonare vasto e libero del dire poetico. Con la realizzazione del “radio-film” Donna di Dolori (dal testo di Patrizia Valduga, 1994) l'incontro con la poesia ha assunto addirittura il carattere della costruzione, quasi parola per parola, degli andamenti prosodici del parlato, e in relazione strettissima con gli altri suoni presenti nella composizione. Tutto ciò mi ha portato a studiare la complessità della voce e anche i numerosissimi appunti sulla fonetica, sulla dizione e la prosodia resisi necessari per la realizzazione di quel lavoro mi hanno poi condotto a tentare diverse altre ipotesi di scrittura “musicale” del parlato: dal breve testo di Leopardi (tratto dall' Appressamento della morte e dal XXXIX Frammento dei Canti) presente in Machina Symphoniaca II (musica per Leopardi), per voce recitante e orchestra (1998), lungo una sorta di breve filone di sviluppo del mio percorso che nel terzo brano (Roundelay) di All for Company (omaggio a Beckett), Cantata scenica su testi di Samuel Beckett per tre voci femminili (2001), mi sembra giunto ad una scrittura tanto precisa del parlato da permetterne una vera e propria ricostruzione secondo logiche del tutto musicali: ad un certo punto le voci smettono di dire parole riconoscibili pur riattraversando, con altri suoni, la logica costruttiva della loro precedente articolazione parlata. D'altra parte, il breve filone di cui sto parlando comprende anche alcuni lavori in cui agisce proprio quest'altra, parallela, tendenza: quella di portare l'articolazione musicale a sfiorare essa stessa una sorta di parlato musicale. Nel caso, limite, di Tre scene dal silenzio: I - vita nella luce prima immagine (1996) il pezzo (solo strumentale) si conclude con una specie di calco del dire della voce - alquanto poetica e “musicale” - di un cantastorie Nzakara (della Repubblica del CentrAfrica).
Accanto al percorso che mi ha portato ad approfondire il mio interesse per la parola parlata ha incominciato ad un certo punto ad evolvere anche il mio modo di fare cantare, e non solo senza utilizzare alcun testo come in Thauma, per otto voci (1999) - in cui, però, il rapporto tra i suoni della voce arriva a volte a coagularsi in forme che paiono richiamare parole incomprensibili, in qualche caso parole davvero estratte da lingue a me sconosciute (come quella dei Pigmei Aka). Già in Imagine si ceci, per voce maschile, fagotto e violoncello (1993), tre brevissimi testi vengono davvero cantati da una voce di baritono con modalità e in un contesto che saranno presenti e forse ulteriormente approfonditi in alcuni altri lavori successivi. Si tratta di una composizione con una forte tendenza teatrale, e che verrà utilizzata all'interno di un lavoro successivo pienamente teatrale: la “scena musicale in un atto” per un attore, voce maschile, fagotto e violoncello Un beau jour (testi di Beckett -1997). Qui Il cantante, nel corso della sua “esibizione” in un contesto teatralmente esibito, pare attraversare le proprie possibilità vocali. I suoni della sua voce vanno via via evolvendo fino a raggiungere, abitare, e poi superare quello che potremmo definire lo stadio del loro “organizzarsi in forma di parola”: abbandonandolo già si trasformeranno in urlo, in verso animale; quasi come se la parola non possa riuscire a contenere proprio quella esigenza espressiva e tutto l'intento comunicativo che, a partire dagli iniziali sospiri e balbettii fonetici, aveva dato origine al processo per raggiungerla. Insomma, solo ad un certo punto e per poco tempo, come sperimentando e attraversando una delle sue possibilità, la voce incontra il dire della parola e però in una forma ambigua che sta tra il parlato, il cantato e l'urlo. /.../
Gianfranco Pernaiachi
L'agire poetico esige riservatezza; s'appella a un pudore che cresce in simbiosi (alto, quanto) con l'ambizione che sottace. Ambizione che, rivolta (in alcune vocazioni, inequivocabilmente!) al segreto, si fa più densa grazie a un movimento - o meglio: un'intenzione - in cui il segreto stesso, attraverso un graduale e mai totale "esporsi", viene al contempo ri-velato e salvaguardato. Rivelazione e salvaguardia che si attuano - tra i fondamentali elementi che le portano alla luce, in un agire poetico - nel "moto" delle varianti (alterno sciabordio in cui si fondono velamento e svelamento). Sono mezzi per rivelare: attraverso una graduale e sempre più illuminante "precisazione" verbale. Sono veicoli di salvaguardia. attraverso una graduale e sempre più illuminante precisazione verbale che, nel suo stesso attuarsi all'interno di un agire poetico non potrà assumere senso di asserzione univoca o, ancor più, fisionomia conclusiva (in un gesto naturale: non ne avrà le capacità! Divenendo, in questa "impotenza ultima", nonché in questa "mancanza di volontà ultima", vibrante irradazione). Da Nel riverbero del nome, Edizioni Tracce, Pescara 1994.
Oronzo Persano
I miei rapporti con la poesia e la pittura sono ancestralmente viscerali. L'espressione con la pittura l'ho coltivata da bambino. A casa dei miei genitori c'è tuttora una giara pitturata da me con le sole olive. Avevo cinque-sei anni. Il mio modo è quello astratto, fino a qualche anno fa dipingevo molto, casa mia è piena di tele. Alcuni pittori professionisti mi hanno spronato verso il mercato, ma non ho voluto vendere nemmeno una tela. Kandiskij, Klee, Giacometti, Bufano, Baj, Boccioni e tanti altri i preferiti (mi infastidisce Guttuso).
La poesia è la mia compagna quotidiana. Avrò scritto mille e mille poesie. Ho trovato un modo mio personale per scriverle. Anche qui tutto è inedito, per ora. Da ragazzo ho letto molto Prevert, Saba, Montale, Quasimodo, Ungaretti, poi Kierkegaart, Pavese (poesia e letteratura, tutta), Campana, Hesse (poesia e letteratura), Evtcenko, Eliot. Negli anni Novanta ho scoperto Gramigna. Amo molto Sartre e il filosofo spagnolo Savatet. Naturalmente conosco tutto Roth (l'austriaco e non l'americano), tutto Svevo. Non so spiegare quale relazione c'è, se c'è, fra la mia musica e le altre arti. Posso solo dire le mie preferenze.
Ho composto Bistrot dei poeti estinti e presenti , per organico vario, comprendente la voce recitante, con tantissime citazioni poetiche e non solo. Ho musicato la fiaba di Gianni Rodari La trappola del tempo per voce recitante e chitarra. Ho scritto tre Lieder per canto e chitarra su tre poesie di Luciano Gramigna: Il bianco – L'annata dei poeti morti – Postina cinquanta anni dopo. Poi due Carpe diem con poesie di Rilke, per voce, clarinetto e violino.
Andrea Pidoto
Ogni espressione artistica ha bisogno dell'altra, ogni immagine necessita della propria musica, ogni musica della propria immagine, ogni poesia della propria musica. Ecco come si potrebbe delineare la grande necessità delle arti di essere strettamente correlate le une alle altre; non v'è espressione artistica che possa fare a meno, anche se in modo empirico ed occulto, dell'altra .
Prendiamo ad esempio l'arte visiva, ovvero la pittura; essa ci mostra un'immagine statica, ma con forte trasporto emotivo. Se noi, alla vista di un'opera, mettessimo un sottofondo sonoro, ecco che la lettura dell'opera diventerebbe ancor più fruibile e gustabile, scoprendo nuovi elementi di lettura e portando l'osservatore in un nuovo mondo. In effetti l'opera acquista vita, si tinge di “colori” nuovi, ci fa percepire l'atmosfera giusta, ci fa leggere filologicamente la realtà in cui è nata l'opera. Quindi possiamo dire che la pittura, per essere meglio gustata ha bisogno di un apporto musicale. D'altro canto la musica ha bisogno anche dell'immagine per essere meglio descritta. Infatti si può notare che l'ascolto di brani musicali fa comparire alla mente dell'ascoltatore delle immagini abbinate all'evento sonoro ascoltato. Queste immagini sono irreali, immaginarie, dettate dall'evento sonoro; tuttavia hanno una forza emotiva intensa. Anche qui l'abbinamento con la pittura è chiaro.
Tutta l'arte è poesia, poiché essa è inscindibile da qualunque espressione artistica. Senza poesia non c'è arte in quanto la poesia fa parte dell'arte, la completa, da un senso all'espressione e rende la pittura e la musica trascendentali, sovrumane, angeliche. Senza questa forza basilare per ogni arte, non si potrebbe definire arte nessuna arte. Ma la pittura e la poesia sono racchiuse nella Musica. Pertanto comporre un brano musicale comporta l'essere artista a tutto campo; il compositore crea l'opera coinvolgendo ogni espressione umana.
Il viaggio del compositore alla stesura dell'opera è un itinerario nell'arte totale, nella composizione in cui si comprendono tutte le forme d'arte. La forza della musica, rispetto alla poesia e alla pittura, sta proprio in questo: nel racchiudere ogni forma nello spazio e nel tempo.
Gli antichi conoscevano bene questa importanza poiché la musica era compresa nel Quadrivium (insieme all' aritmetica, geometria e astronomia) e appunto la musica era considera una scienza, maestra di vita.
Hanno scritto sulla Musica personaggi storici molto importanti, basti citare Agostino con il trattato De Musica, Pitagora con la teoria delle quinte, Aristotele, Boezio, Nietzsche, Adorno ed ancora molti altri. La musica, quindi, è poesia pura e comprensibile a prescindere dalla parola scritta e parlata nelle diverse lingue. Il fantastico dell'arte musicale è di non avere confini di razza, lingua, tradizioni e di non aver bisogno di traduzioni: è la maggior filosofia che l'uomo possa possedere. Con questa mia breve testimonianza ho voluto dire questo: le arti hanno tutte un legame sottile tra di loro e la Musica le comprende tutte.
Biagio Putignano
Preciso subito che il mio rapporto con le arti non è solo un rapporto di “necessità”: necessità soprattutto di arricchimento e di ispessimento delle idee etiche, filosofiche, politiche, religiose. Ma è anche un momento di consapevolezza, di presa di coscienza, di “confronto della rotta” che, ognuno per proprio conto, ma tutti insieme, si sta seguendo. Per questo motivo, qualsiasi mio incontro con l'arte (qualunque essa sia) sembrerebbe avvenire in maniera casuale, ma in realtà segue un “percorso segreto”, un “programma” (libero da abbonamenti a riviste, stagioni teatrali e concertistiche, e quant'altro), dettato dalla necessità di conoscenza, dalla evoluzione fisiologica e spirituale, dagli scavi interiori che spesso mi ritrovo ad intraprendere. Ciò avviene durante i periodi in cui mi sembra non essere materialmente impegnato a comporre (ma in realtà mentalmente sono proiettato a farlo in continuazione). E spesso mi ritrovo felicemente sommerso di libri da leggere, dagli argomenti più disparati, che leniscono la mia sete di conoscenza solo per poco tempo. Il poter “vagabondare” da un argomento all'altro, mi permette di non “consumare” prodotti artistici con velocità e superficialità, e al contempo, di trovare ad ogni tassello il posto giusto nel mosaico della mia esperienza conoscitiva.
La mia preferenza da sempre va alla poesia (un po' meno al romanzo e al teatro) e alle arti visive. Della poesia, mi affascina la “musicalità”, la rapidità delle immagini che evoca, la scansione dei ritmi che impone, ma anche la dolcezza del metro, la sazietà spirituale del suono parlato che sa esaltare, l'essenzialità nel celebrazione del tutto. Della pittura invece studio attentamente la distribuzione delle energie cromatiche nel colore, l'armonia delle proporzioni tra il segno e la dimensione dell'opera in rapporto allo spazio a cui è destinata. Insieme alla pittura, anche architettura e scultura mi suggeriscono sempre nuove soluzioni attraverso la loro capacità di plasmare, modellare, scandire lo spazio in ritmi e sequenze. E ancora il cinema, per le soluzioni formali che sa inanellare con uno o più racconti paralleli, controllando il tempo della narrazione per guidare le percezioni (emozioni, sentimenti, comprensioni, ecc.) dello spettatore. Spesso, nell'arte cinematografica, lentezza e velocità, spessore e sottigliezza, pesantezza e leggerezza, dolcezza e durezza scambiano reciprocamente le loro peculiarità, mostrandoci dettagli assolutamente impensabili al di fuori della macchina da presa. C'è sempre da imparare qualcosa di nuovo.
Il legame tra musica e poesia non può più limitarsi – come nel passato – ad un semplice espediente a favore dell'una e a scapito dell'altra, o viceversa. Ogni qualvolta che devo affrontare un testo da utilizzare per un mio lavoro musicale, cerco sempre di studiarne a fondo tutte le proprietà semantiche e formali, le costruzioni interne dei versi (se ci sono ripetizioni, allitterazioni, assonanze, rime ecc.) o costrutti particolari (figure retoriche, perifrasi, ecc.), ma anche la composizione stessa delle parole (ritmo, quantità di sillabe ecc.). Tutto questo studio preparatorio però si sintetizza in pochi curatissimi accorgimenti di tecnica compositiva, tecnica che a sua volta diventa poi la caratteristica di quel lavoro. Fino ad ora, ho impiegato preferibilmente il testo recitato piuttosto che cantato. Nell'uso della recitazione evito qualsiasi deformazione del testo, ma lo incastro nella forma generale del pezzo secondo quei principi di tecnica compositiva propri di quel brano. Con un testo cantato, il rispetto va principalmente alla metrica della lingua che utilizzo. Difficilmente impiego melismi, ma preferisco la tecnica sillabica, sempre per rispettare la comprensibilità e la peculiarità della parola. Per esemplificare un po', illustro molto sinteticamente un mio brano per recitante e pianoforte: Dell'imitazione sulla poesia di Edoardo Sanguineti Imitazione. Il testo appare solo verso la conclusione del pezzo, circa dopo 2/3 di parte puramente strumentale. Tuttavia la poesia caratterizza tutta la scrittura pianistica: la parte iniziale è una sorta di “amplificazione semantica” del testo che segue; la fuggevolezza dei tremoli e le dissolvenze delle armonie che si incastrano in un continuo mutare prospettico (Sempre sfuggente… ); l'andamento rapsodico (… non so dove vai…), derivato da una sorte di “centonizzazione” di pochi gesti sonori; l'oscurità e la profondità “paesaggistica” (… nella notte... ); la reiterazione formale (… trattieni, bellezza schiva / trattieni il tuo passo) che scolora nell'evanescenza. Tutto è derivato dagli interstizi delle parole.
Davide Remigio
Chi vive nel proprio tempo è legato ad esso. Oggi viviamo costantemente in due dimensioni: il passato e il presente; abbiamo quasi abbandonato la terza: il futuro. Rileggiamo costantemente le prime due per prevedere la terza. Mi capita spesso di lavorare a stretto rapporto con le arti sorelle, ma il mio tempo è impegnato a capire come legare il rapporto con la composizione che resta il punto centrale. Ogni disciplina contiene un codice di riferimento, occorre però che nessuna eclissi l'altra. Poi esiste la fede e la mia fede è la musica.
Mi interessa la semantica, sappiamo che la vita è una traccia che lasciamo. Da anni lavoro a questo stretto rapporto con la poesia, realizzando brevi pillole musicali che ho chiamato Minus Song. E' importante non perdere chi siamo e il Ciclo ci ricorda questo.
La tecnica, che cosa è l'esperienza? Perchè noi siamo questo e non altra cosa. La traccia, il legarsi a qualcosa che ti porta lontano, ecco forse ci siamo. No aspetta... arriva!
Paolo Ricci
Il mio rapporto con le altre arti è sempre stato di totale coinvolgimento emotivo, soprattutto con la letteratura e le arti figurative. Non riesco a concepire la vita se non come una immersione quotidiana nel mondo dei libri e delle immagini (oltre che dei suoni, naturalmente). Sono un lettore vorace, costante, soprattutto di narrativa ma anche saggistica, con "innamoramenti" frequenti che mi portano a conoscere tutto di un certo autore. Frequento abitualmente Mostre d'arte (quelle "istituzionali" ma anche Gallerie private), fiere-mercato e case d'asta. Ho persino la presunzione (bonaria) di considerarmi un "piccolo collezionista". Generalmente le immagini artistiche hanno sempre avuto su di me un forte impatto, sin da ragazzo, stimolandomi alla ricerca e alla conoscenza. Sull'influenza della poesia nella creazione musicale mi limito a dire che non c'è musica senza poesia, così come non può esserci poesia senza musica, con tutto ciò che questa affermazione implica. Infine qualcosa sull'uso di testi poetici nella composizione musicale. Direi che per raggiungere un buon connubio musica/poesia è necessario non cercare testi da musicare ma imbattersi in testi che vengono immediatamente interiorizzati, e che per il loro forte potere evocativo stimolino da subito associazioni e immagini musicali. Oserei dire che è il testo che deve irrompere nella sensibilità del musicista e "chiedere" di essere musicato.
Pietro Rigacci
Il rapporto con il testo è stato un elemento determinante nella mia produzione compositiva. Mi sono dedicato spesso alla composizioni di liriche per voce e pianoforte, voce e complesso strumentale, musicando testi più disparati, affrontando lingue diversissime, andando dal provenzale delle liriche trovadoriche di B. De Ventadorn, allo spagnolo di Pablo Neruda, dall'inglese antico de I racconti di Canterbury, al latino dei Carmina Burana, fino alle deliziose filastrocche inglesi di Alice in Wonderland di L. Carroll, senza dimenticare i nostri Giovanni Pascoli, o Giuseppe Ungaretti. Cosa mi spingeva volta volta nella scelta del testo? Innanzitutto il suono della parola. Il gioco armonico delle varie sillabe è già musica! Eccoci quindi a difendere la tesi "prima la parola" poi la musica! Un primo esempio lo possiamo trovare nel Prologue di Alice in Wonderland: Già pronunciando i primi versi, si viene presi da un andamento ondeggiante, che descrive una gita in barca in un ozioso pomeriggio assolato, in a golden afternoon. La morbidezza delle parole, il loro ritmo mi hanno istantaneamente ispirato una lenta Barcarola, dolce, di ozio compiacente. Credo che sia stato uno dei brani musicali che mi sia venuto più di getto di tutti quelli che abbia scritto. Non si deve poi tralasciare un altro aspetto importantissimo, decisivo anche questo nel caso del Prologue di Alice, ed è l'immagine! L¹immagine della barca che scivola silenziosamente sulle placide acque del lago, il suono prodotto della "lunga vogata", mi hanno subito dato l'idea del colore strumentale con il quale arricchire l'immagine, un substrato ritmico-armonico (che è troppo riduttivo definire accompagnamento) che è la base, l'humus necessario affinchè la melodia possa liberare il suo volo pindarico. Affinchè una melodia possa librarsi bisogna che abbia il giusto appoggio nell'accompagnamento, nel substrato sonoro che la arricchisce e ne determina le onde espressive. Un grande maestro una volta mi disse che il segreto per il "giusto rubato" nei Notturni di Chopin, stava nel saper gestire con la mano sinistra tutto quello di cui la mano destra aveva bisogno! La melodia è come un surfista che segue gli andamenti di una grande onda, che a sua volta si ingrossa o si smorza dolcemente seguendo il fondo marino! E un concetto che una volta scoperto, mi ha sempre seguito nel mio modo di far musica, sia da esecutore che da compositore! E' terribile sentire un cantante accompagnato da un pianista che vive in totale sudditanza, senza cooperare con il solista, abbandonandolo a sé stesso, obbligandolo a fare da "onda" come da surfista! Ecco per cui talvolta, per quanto può sembrare assurdo, mi sono trovato a creare prima il substrato sonoro, sul quale poi avrei fatto librare la melodia nella sua più totale libertà di espressione.
Fino a che ho composto solo lavori di breve respiro, il brano vocale nasceva dalla suggestione evocativa della parola stessa, dal suo suono, e cercavo di evidenziare queste caratteristiche risaltandole con le armonie, con i timbri, con la melodia. Il discorso è diventato molto più articolato e complesso quando mi sono trovato per la prima volta a scrivere un'Opera lirica! Nell'estate 2006 La International Opera Theatre di Philadelphia mi ha chiesto di musicare il capolavoro di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate, che è divenuta un'Opera in 3 atti con un epilogo. Mi sono trovato ad un diverso rapporto tra musica e parola. Già perché adesso oltre al potere evocativo della parola stessa, veniva ad introdursi un nuovo elemento: l'azione teatrale! E stata una bella esperienza quella della collaborazione con la poetessa Debora Pioli, anche lei al suo primo approccio con un libretto d'Opera. Bella, difficile, intrigante! Innanzitutto confrontarsi con un gigante come Shakespeare! Benjamin Britten ha composto un'onirica Opera sul Sogno, utilizzando il testo originale, oppurtunamente tagliato per ovvie esigenze musicali. Però nel momento in cui dovevamo affrontare il nostro libretto, è subito saltato all'occhio che doveva essere fatto un tipo di operazione di riscrittura, poiché loriginale Shakespeariano è nato per le esigenze del teatro di prosa, totalmente diverse da quelle del teatro operistico. Nell'Opera lirica i tempi per del testo vengono come minimo raddoppiati, per cui sono solo in alcuni monologhi in cui ci si può permettere l¹abbandono ad immagini suggestive, come evoca Shakespeare, a paragoni d¹incredibile magia. Per il resto azione, azione, azione! come del resto diceva giustamente Giuseppe Verdi "datemi azioni, meno parole!" Niente di più vero! Dovendo portare in scena tanti personaggi (nella fattispecie del Sogno si tratta di ben 19!) bisogna pensare ad una macrostruttura, nella quale inserire le varie scene, al gioco delle alternanze. E' stato necessario fare un calcolo di base sulle ipotetiche durate delle varie scene, alternare momenti di pura musica a momenti di azione, organizzare i vari brani in modo da trovare il giusto bilanciamento delle emozioni che devono poi coinvolgere lo spettatore. Quando si passa l'ora di musica prima dell'intervallo, è necessario sentire come lo spettatore. Ecco per cui che ho dovuto tracciare delle linee base, e mentre cercavo di immaginare la situazione teatrale ecco che mi veniva l'idea musicale, prima ancora di avere avuto il testo! Rimasi sconcertato! Non riuscivo a credere che stava succedendo questo, a me, che avevo sempre posto la parola come spunto per creare la musica! Più di una volta mi sono trovato ad appuntare un brano musicale senza avere ancora il testo, ma avendo ben chiaro in mente il colore musicale della scena. Ecco che mi sono trovato ad obbligare la librettista a versificare su un certo ritmo musicale, la caratterizzante del brano stesso.
Ed eccomi qui a difendere adesso l'altra tesi, prima la musica e poi le parole! Quando si pensa ad una scena, bisogna vederla nell'insieme di tutte quelle che compongono l'atto intero (talvolta sono anche 12 scene!). Ci deve per forza essere un gioco di alternanze, di equilibri, di pieni-e-vuoti, come insegnano le leggi armoniche dell¹architettura. Ecco che ti viene in mente la pulsazione che caratterizzerà quel brano, il ritmo che starà alla base, perché caratterizzerà lo stato d'animo di questo o di quel personaggio (per non parlare poi di quando ci sono due o più personaggi in scena, per cui le emozioni da descrivere sono molteplici, e nello stesso tempo!). In questi casi domina la musica, proprio perché la cellula ritmica di partenza deve avere il suo sviluppo naturale, e quindi se anche le prime parole possono aver suggerito la cellula, il resto del testo deve seguire le esigenze del brano musicale. Questo è per esempio il caso del terzetto che chiude il primo atto, nato quasi fosse un brano strumentale, allegro, brillante, sul quale è stata necessaria una versificazione in sudditanza del ritmo musicale. Come pure, ma in altra maniera, è il caso del monologo di Oberon del secondo atto, per creare il quale la librettista mi chiese di farle sentire il colore musicale, il substrato armonico sul quale lei mi doveva creare il testo. Me lo ricordo ancora il giorno in cui lavoravammo a quell'aria! Ero seduto in penombra al pianoforte, facendo scaturire queste armonie ondeggianti, e lei, ispiratissima, in brevissimo tempo mi presenta un testo meraviglioso, evocativo, che poi ho musicato completandolo in un lampo! Ecco qui, in breve, la sincera testimonianza del mio personale mondo poetico, della mia maniera di creare e gioire della musica, questo magico mondo nel quale tuffarsi, inebriandosi di felicità.
Paolo Rimoldi
Ho un rapporto privilegiato con la poesia fin dagli "anni di formazione" (questo non significa che non abbia rapporti con altre forme artistiche, ma solo che la mia preferenza va alle arti della parola), rapporto che, se devo fare un esempio concreto, anche se un po' volgarmente materiale, mi ha portato ad avere una biblioteca di più di cinquecento titoli di sola poesia, con opere di un migliaio circa di autori.
Nonostante questa "dipendenza" non ritengo che la creazione musicale necessiti di riferimenti extramusicali; mi domando solo se sia possibile scrivere musica partendo da un "grado zero" di condizionamenti e suggestioni culturali. Naturalmente, da qui a dire che "non si può scrivere musica senza partire da un testo o un'immagine", ce ne corre. A paradossale esempio, portola mia esperienza all'Associazione milanese "Poièin"; aborro la scelta frequente di tanti colleghi di rivestire di suoni rispondenti a un progetto astratto e sostanzialmente "indifferente" un testo qualsivoglia, senza domandarsi se il testo stesso si presta o sopporta questo o quel procedimento strutturale: da cui il sarcasmo di Arbasino, che accusava i compositori di scegliere testi in sanscrito dal contenuto esoterico e riservato, evidentemente, a pochi iniziati, per poi decostruirli come fossero l'elenco del telefono. L'intelligenza di musicisti come Berio, a mio modo di vedere, si manifesta anche nella scelta dei testi più adatti al trattamento compositivo prescelto (Sanguineti, Joyce, Cummings, i fonemi di O King) o, per contro, nell'adattare il procedimento compositivo al testo e al contesto (Folk Songs, il Lévy-Strauss di Sinfonia, i lavori teatrali). Così, non essendo convinto della necessità o possibilità di "mettere in musica" il testo poetico fornitomi mi sono limitato (?) a farmi suggerire da esso alcuni generici "movimenti" che ho tradotto in gesti strumentali e figure: è, questo, un "riferimento al testo", o la "purezza" della musica è comunque salva? Quasi sempre le mie composizioni riportano in epigrafe o in partitura versi poetici (Luzi, Jabès, Bonnefoy, Jaccottet...); sono a volte "versi privati" che riporto "in pubblico" (e questa è citazione da Eliot), altre volte indizi per gli esecutori ("Si raccontano male questi minimi avvenimenti./ Male. Ma è inevitabile dirli./ Li affido a te che all'unisono li intendi/ e, sia pure, trasformali in altro: in altro ma non in niente-/ Sogno di dire a qualcuno che li fila nel tempo e li riprende." M. Luzi), come nel Nono di Fragmente-Stille. Fra le mie composizioni più significative con il testo, segnalo: ..ancora viva tra le sue rovine per msopr., 7 strum., voce su nastro e live-electronics, su testo di M. Luzi, selezione Festival ISCM di Zurigo, 1991. Je bâtis ma demeure, per coro, su testo di E. Jabès, segnalazione al concorso "G. d'Arezzo", 1996 (sono arrogante se affermo di conoscere questo poeta da prima che Cacciari lo facesse conoscere a Nono? Nel 1985 ho vinto il concorso "Contilli" con La voix de l'absent per sopr. e quartetto d'archi, su testo, ma non la considero più una composizione "significativa", nonostante il parere dell'autorevole giuria). Vision and Prayer per sopr. e pf., su testo di D. Thomas. Infine Trois poèmes de Didier Rimaud per sopr. e chit., su testi di un amico, un gesuita francese morto da pochi anni.
Nicola Sani
Esprimere pensieri e idee in forma di organizzazione di suoni è il mestiere del compositore. Immagine-parola-spazio sono elementi di pari rilevanza nella mia musica. Non esiste il predominio esclusivo della risultanza “musicale”, ma ognuno degli elementi costitutivi di un progetto sonoro “può” divenire un centro di attenzione. Così per la scrittura se la grafia o l'organizzazione grafica degli eventi sono elementi rilevanti della partitura, per la gestualità o per gli elementi visivi in generale se sono presenti nella rappresentazione scenica sonora, per il testo letterario o per l'uso fonetico della parola se fanno parte integrante della composizione, per lo spazio in cui l'evento ha luogo o viene diffuso se esso costituisce un parametro vincolante o determinante per lo scaturire stesso delle azioni sonore e visive. In questo senso la parola “musica” esprime per me un insieme di relazioni fra eventi che insieme costituiscono una drammaturgia intermediale. Mi riferisco ad un concetto “espanso” di musica, per esprimere il senso di un'organizzazione multipla di eventi che contempla le possibili strategie che confluiscono in una forma d'arte dove il rapporto fra gli elementi della composizione diviene ordine sonoro delle cose. La parola entra in questa organizzazione di percorsi sonori della musicalità espansa, seguendo criteri diversi. Identifico tre tipi di modalità principali, che riguardano il modo di “pensare” la parola e sono l'uso della parola all'interno di un percorso testuale, l'uso della parola svincolata da qualsiasi collegamento testuale, ma con un proprio significato, l'uso della parola come evento sonoro a se stante, priva di significato.
Vi sono naturalmente casi in cui utilizzo tutte le tre modalità all'interno di una composizione, in particolare nei lavori in cui il materiale timbrico è costituito esclusivamente dalla voce. L'impiego delle tecnologie ha dato all'uso della parola nella musica un ulteriore sviluppo, rendendo possibile l'intervento su parametri minimi della composizione di un fonema. Questo permette di considerare la parola come un universo complesso, all'interno del quale realizzare fenomeni di aggregazione e disaggregazione del materiale sonoro senza perdere di vista il contenuto semantico del messaggio. In questo senso l'idea della parola-mosaico porta all'interno del processo di elaborazione sonoro la relazione fra eventi macro e microstrutturali che appartengono all'ambito della costruzione timbrica del suono, e che possono essere così orientati esclusivamente al tratto vocale. Parola e vocalità sono tuttavia per me due entità separate. Il rapporto con l'emissione vocale riguarda la parola solo quando occorre trasferire la funzione di un messaggio dalla forma scritta, o di parola allo stato latente, al suo esito sonoro. L'intenzione di pensare la parola può dunque riferirsi non soltanto alla sua rappresentazione sonora, ma anche alla costruzione intorno alla parola di una rete di relazioni che rendono di fatto l'emissione sonora della parola non necessaria. Avviene frequentemente che in una mia composizione o opera di teatro musicale il rapporto con un testo si trasformi di fatto nell'utilizzazione di emissioni parziali del testo medesimo, in pratica nella presenza di “parole” estratte da un insieme testuale più ampio, appositamente scritto o preesistente. Con questo nulla togliendo alla necessità del testo integrale, legato in ogni caso alle ragioni e alle motivazioni della composizione. La lacerazione della parola diventa infine violenza della fonetica su se stessa, autodistruzione, follia di cancellazione del senso attraverso la deformazione delle caratteristiche performative. Questo “cannibalismo” vocale può essere visto come senso estremo della trasformazione della parola in atto sonoro, lasciando che divenuta suono essa possa seguire la traiettoria estrema della manifestazione acustica, quindi anche la sua saturazione. Il principio che genera l'errore deve essere previsto all'interno del fenomeno di abbandono del messaggio del testo a cui apparteneva nella forma scritta.
Questo processo di elaborazione della parola diventa particolarmente interessante nel rapporto con lo spazio. Ad esempio nella mia composizione per voci ed elettronica Voices beyond the edge ho creato una serie di traiettorie sonore organizzate su otto canali e proiettate (come in occasione della rappresentazione nel grande planetario di Berlino) in uno spazio sferico, con ottanta altoparlanti. In questo lavoro, la parola è diventata strumento di attraversamento e conoscenza del rapporto fra suono e ambiente, fra senso e spazio. Nel loro susseguirsi le parole entrano in relazione tra loro nella costruzione acustica tridimensionale della composizione, determinando zone spaziali di comprensibilità e di parziale incomprensibilità del messaggio. In Voci Controvento, per cinque voci, ho cercato di realizzare un fenomeno analogo utilizzando lo spostamento fisico degli esecutori senza utilizzare le parole. In entrambi i casi il passaggio da costruzione a de-costruzione del fonema era legato al rapporto fra le voci in una dimensione spazio-temporale. Non spazializzazione, quindi, ma composizione-aggregazione nello spazio. Una musica che “pensa” la parola e assieme ad essa pensa al tempo, allo spazio, alla storia, alla poetica, al senso, al silenzio, agli uomini, quindi al suono.
Nei lavori intermediali (installazioni di suoni e immagini) che ho realizzato, molti dei quali con il pittore e videoartista Mario Sasso, cerco di trasformare il rapporto tradizionalmente descrittivo tra suono ed evento audiovisivo. Mentre nel cinema (o nella videoarte) siamo abituati a una percezione complessiva temporale che si svolge sequenzialmente, nelle mie installazioni di suoni e immagini il rapporto percettivo con la creazione avviene verticalmente, istantaneamente, nello spazio. Comporre per un'installazione intermediale è per me un progetto affascinante poiché cambia diametralmente il rapporto con la composizione e con l'ascoltatore. Pensando all'ascoltatore non immagino qualcuno che stazioni per lungo tempo davanti o dentro un'installazione, ma che vi transiti per un periodo più o meno breve. In quel periodo raccoglie determinate informazioni. Chi entra in un altro momento, ne raccoglie altre. Si può visitare lo stesso spazio più volte e raccogliere sensazioni e impressioni sempre diverse.
Il rapporto che si stabilisce con la fruizione di queste opere è quindi di parzialità e non di totalità. La collaborazione con Mario Sasso è cominciata nel 1990 con la realizzazione del video Footprint. Assieme abbiamo sviluppato nel tempo un linguaggio basato su una forte relazione tra il pensiero delle immagini e quello dei suoni. La Stanza di Vertov, l'Omaggio a Giacomo Leopardi, le Videocartoline, il ciclo di videoinstallazioni Le città continue, la Torre delle Trilogie, Novecento, sono risultati di un percorso dove il punto di partenza è sempre un progetto, un'intelaiatura che contiene fin dall'inizio il senso profondo di un legame intermediale. In particolare la musica della Torre delle Trilogie sviluppa nel suono il progetto “verticale” delle immagini. I suoni elettroacustici e quelli strumentali sono organizzati attraverso sei canali e vengono distribuiti nello spazio su una struttura di altoparlanti anch'essa disposta verticalmente. Questa organizzazione spaziale permette la percezione di strati sonori che si aggiungono, creando la sensazione di ascoltare un suono che si compone verticalmente. Luce, acqua, colore, si ritrovano nella liquidità e ruvidità di suoni generati da sintesi digitale, strumenti a fiato e percussioni, generando contrasti, figurazioni indipendenti e sottolineature improvvise, liberando in un tempo relativamente breve una molteplicità di accadimenti. Nella mia unica esperienza di composizione per il cinema (la musica per il cortometraggio di Michelangelo Antonioni Noto Mandorli Vulcano Stromboli Carnevale, del 1992) ho potuto sviluppare un'esperienza ancora diversa, basata su un insieme di poesia e immagine. Penso che il lavoro di Antonioni nell'immagine sia al tempo stesso un lavoro sulla parola e sul suono.
I suoi silenzi e le sonorità che li circondano raccolgono il sedimento delle azioni e lo trasformano in un fatto compositivo. Tra i numerosi esempi ricordo in particolare il piano-sequenza di Monica Vitti nel deposito di barche nella parte finale di Deserto Rosso o la scena delle due fotomodelle che si rotolano nella carta nello studio del fotografo protagonista di Blow-Up. Nel cortometraggio del '92, della durata di circa dieci minuti, suddiviso in cinque brevi frammenti tutti girati in Sicilia nei luoghi dove il regista aveva girato trent'anni prima il film L'avventura, la cinepresa esplora l'animo umano attraverso lo sguardo a distanza sui paesaggi e sulle persone. La distanza fisica, con le riprese aeree delle isole e dei loro vulcani, la distanza percettiva, con le riprese dei meccanismi artificiosi del divertimento di massa del carnevale di Aci Reale e delle occhiaie vuote e oscure degli edifici barocchi di Noto. In termini compositivi ho lavorato sul modo di rappresentare il silenzio non come assenza o come negazione, ma come rapporto tra due grandezze sonore. Il frammento Stromboli è in questo senso emblematico, poiché le riprese aeree che restituiscono immagini quasi pittoriche (Antonioni ha dipinto quei territori nelle sue “montagne incantate”) lasciano immaginare un silenzio instabile, che può preludere in ogni istante ad un evento catastrofico.
Ho pensato quindi alla rappresentazione del silenzio come fenomeno di instabilità del suono, rapporto interno ad esso generato dalla presenza del fatto acustico, concreto. I cinque frammenti sonori sono stati composti parallelamente a quelli visivi, incrociandosi, collegandosi ad essi, ma anche da essi indipendenti. Dunque il mio modo di pensare la musica in relazione a un testo o a un'immagine, pur rimanendo coerente con l'idea della costruzione materica del suono e con la libertà di organizzazione delle diverse traiettorie sonore, si apre a un ulteriore livello di comunicazione, una struttura di esplorazione dello spazio pensata su più piani espressivi, che diventa una forma di racconto dove il suono si raccorda alle altre strategie comunicative lasciando all'ascoltatore/fruitore le possibili vie di accesso simultanee e autonome.
Claudio Scannavini
Nell'ultimo decennio, il mio rapporto con la scrittura di brani che richiedessero la presenza di un testo si è notevolmente accresciuta, ma proprio per questa ragione ho fatto sì che anche tanti altri miei lavori potessero prendere ideale avvio da saggi o poesie d'autore. /.../
Il libro di Giobbe è un Oratorio per Orchestra Coro e voce recitante commissionatomi dal Teatro Comunale di Bologna nel 2000 come anniversario per le strage della “Uno bianca”. Il testo biblico di Giobbe è già di per se stesso una profonda riflessione interiore che l'uomo si pone nei confronti di ciò che lo contorna e che non riesce a comprendere; ed è per questo motivo che il lavoro si è basato sulla traduzione di Guido Ceronetti, che lontano dall'enfasi cattolica, ritrova una figura assai combattiva e sfiduciata, molto distante dalla edulcorata visione che traduzioni bibliche assai più diffuse cercano di accreditare. Il suo essere solo non lo mette certo al riparo dalla rabbia, e la famosa “pazienza di Giobbe” è l'unica cosa che non traspare da questo drammatico testo. Da qui nasce la mia scelta di contrapporre la voce recitante, con le sue profonde riflessioni, alle domande che gli vengono poste lungo il suo cammino esperienziale dal coro, quasi a ravvisare il contrasto tra singolo e plurale. La società si è sempre fatta forza del suo procedere per assiomi della massa. I più devono per forza avere ragione. La realizzazione di questo testo si è avvalsa delle figure del drammaturgo Paolo Billi per la strutturazione del testo e dalla magnifica voce di Carlo Cecchi.
Il mio modo di concepire questo Oratorio ha fatto si che il testo non dovesse esprimere l'emozione, che avrebbe dovuto riguardare la componente del suono, un po' come nell'affermazione di Debussy: la musica entra dove le parole non possono più esprimere le sensazioni. Ed è per questo che la recitazione doveva assomigliare più ad una riflessione ad alta voce che alla tipica esternazione enfatica di una azione drammatica. Ovviamente a questo sono giunto dopo una lunga ricerca storica ed esegetica di alcune fonti bibliche. Giobbe è stato interpretato come un imputato virtuale, un essere umano che sfida e che non accetta l'ordine precostituito delle “cose divine”. Il lavoro è suddiviso in nove sequenze al cui interno si fondono in chiave formale le più note tecniche contrappuntistiche della storia. Riporto qui sotto l'ordine delle sequenze: Il Prologo – Il primo dialogo-confortorio – La prima solitudine – Il secondo dialogo-interrogatorio – La seconda solitudine – Il terzo dialogo-il processo – Ultima solitudine e nuova rivolta – La teofania – Epilogo. Parola e forma, ecco due elementi che trovo assolutamente fondamentali per il mio approccio alla scrittura. Ho sempre ritenuto che sia impossibile cimentarsi con forme aperte o meglio mi risulta quasi impensabile non avere una meta e quindi un contenitore alle mie idee. Il lavoro del compositore è assai simile a quello dell'architetto che deve potersi rendere conto su che materiali e su che terreno deve operare ed è per questo che i calcoli, magari non devono influenzare l'effetto estetico terminale, ma non possono non essere compiuti prima.
Anche l'altro lavoro Le Dighe del tempo nasce da una commissione e precisamente per il quarantesimo anniversario della catastrofe del Vajont. In questo lavoro il procedimento è stato differente in quanto la stesura stessa del testo faceva parte del progetto. Avvalendomi sempre della collaborazione di Paolo Billi e della voce di Maddalena Crippa, abbiamo realizzato un testo che ripercorresse delle memorie virtuali ritrovate dopo il disastro. Ci si è serviti di frammenti di temi di bambini recuperati, come di testimonianze dirette dei superstiti, come di alcune fonti giornalistiche dell'epoca. La struttura del brano è suddivisa in nove sezioni, che si alimentano su un contrappunto fra il testo e il tessuto musicale. Alcuni elementi melodici riappaiono come Leitmotiv a sottolineare caratteristiche psicologiche dei due personaggi rappresentati dalla voce narrante. La voce recitante, è usata a stregua di strumento musicale essendo in costante contrappunto sia con il violoncello che con l'intera compagine orchestrale. Caratteristica primaria dell'aspetto compositivo è l'utilizzo di componenti modali atti ad evocare un mondo sonoro cristallizzato e al di fuori della temporalità. Si narra di un costruttore di dighe che all'improvviso sparì, senza lasciar tracce, come accade frequentemente a persone d'ingegno.
Storie diffuse ad arte lo volevano nelle Terre di Mezzo; altre al confine dei Deserti di Terra Rossa; altre ancora narrano la sua fine rinchiuso nella Diga delle Tre Gole. Dopo molti anni una giovane donna si mise alla sua ricerca e poi si scoprì essere una sua figlia, cosa che lei intuiva, ma non sapeva; lei soleva chiamare la sua ricerca “ un ritorno alla casa del padre”. La giovane aveva raccolto testimonianze, memorie e cronache prima di mettersi in viaggio. La incontriamo nei pressi della Diga del Deserto di Terra Rossa, immane impresa del Primo Impero, studiata a fondo dal padre nel suo apprendistato. E' una diga che contiene ora solo terra rossa arida che ricopre un bacino sotterraneo immenso di acqua. La giovane spossata trova rifugio in un anfratto della costruzione, tutt'intorno rovine di civiltà separate. E lì dorme. E' forse giunta alla meta della ricerca della casa del padre? Il suo viaggio era stato segnato da altre tappe, alcune all'apparenza definitive: là erano stati a trattenerla fiori dolcissimi; là nettari e infusi che infondevano levità; altrove la passione irrefrenabile per i fianchi di un pastore d'anime; altrove il canto di un ermafrodito che amò possedendolo sino all'esaurimento. In ogni occasione, dopo tempi immemori, riuscì a riprendere il cammino. In quella diga immane, senza logica, che ora conteneva solo terra si era rifugiato, fuggendo da sé, quell'uomo che lei cercava. Ormai vecchio aveva raccolto quanto esisteva di libri reali e virtuali sulle acque e voleva portar a termine la sua impresa di definire le tavole del labirinto delle acque visibili e non-visibili. Le opere del suo passato lo visitavano come tormenti, ma aveva trovato il farmaco per lenire queste memorie: quando le scriveva, le dimenticava. Era certo che la decadenza assoluta di cui era figlio e padre prendeva avvio nell'aver cominciato a cancellare la memoria orale in favore di quelle fissata. L'una mutandosi con dolore e gioia viveva, l'altra entrava come reperto da archivio da inserire a sua volta in un altro. Intorno aveva raccolto lapidi sfregiate, da cui era stato scorticato un nome o una data.
Come avevo accennato la presenza della voce ha stimolato sempre il mio operato. Ma sempre più in questi ultimi anni provo un certo fastidio nel dovermi cimentare con la voce “lirica”. Pur amando immensamente la sterminata produzione del mio passato, ritengo che i mezzi che offre la mia contemporaneità sulla possibilità di rendere comprensibile un testo vadano usati tutti. Da qui il mio preferire una lingua in cui ogni parola conserva la sua musicalità all'interno del contesto del discorso anziché forzarla in un canto che magari ne contraddica le significanze. Forse è una reazione alla quantità di canzoni e canzonette che la nostra epoca sforna in modo industriale. Forse è un amore profondo per i testi di contenuto saggistico, ma sempre più il mio intimo interesse per il canto lo sfogo in un campo prettamente strumentale. E come dimenticare la lezione che più di un secolo di cinema ci suggerisce! La profondità della poesia è insita nella parola del poeta, e questo mi deve solo suggerire degli stati emozionali con cui ammantare di suono questi significati anziché sopraffarli.
Flavio Emilio Scogna
La rottura di un linguaggio, di una sintassi (rappresentata da tutta la musica tonale) è stato a mio giudizio il grande evento dell'inizio del secolo scorso: le possibilità che si sono offerte ai compositori sono state infinite; la disintegrazione di quella lingua (così come avvenne analogamente nel periodo romantico disgregando gli schemi formali classici) che peraltro è rimasta in uso per le espressioni musicali più elementari, come la musica di consumo, ha generato a sua volta un altro linguaggio derivato in parte dal vecchio e in parte dal nuovo che ha avvantaggiato notevolmente i nuovi compositori. Lo stesso è avvenuto in letteratura: dopo le esperienze di Joyce e Proust è praticamente impossibile scrivere un romanzo come un secolo fa.
Il pensiero musicale è la scoperta di un discorso coerente che si svolge e si sviluppa simultaneamente su diversi piani: il compositore, oggi, dovrebbe utilizzare un linguaggio che sappia coniugare invenzione, espressione e suggestioni visive, che se pur non traducibili concretamente in musica, alimentano lo stesso pensiero svolgendo un forte ruolo emotivo e non testuale.
Senza un interesse per l'evoluzione delle idee e dei mezzi musicali (cioè senza l'aspetto sperimentale di ricerca), la musica, come espressione di idee, sarebbe già morta da un pezzo. Per quanto riguarda il mio lavoro, cerco ormai da svariati anni, di mediare le esigenze sperimentali e di ricerca con una forma musicale che non perda mai di vista il contatto con il passato, con la storia; paradossalmente tutto ciò funge da notevole spinta evolutiva: un occhio sempre vigile su tutto quello che è avvenuto, l'altro proiettato nel futuro. In particolare, sto cercando di sviluppare un concetto di continuità melodica, o meglio ancora, di una linea continua del tempo musicale, secondo un'idea quasi proustiana: un frammento che trasformato, può a sua volta, generare altre idee nascenti dallo stesso pensiero in un flusso musicale continuo, ininterrotto.
Ho una grande passione per la pittura, spesso parlavamo d'arte con Goffredo Petrassi: ad ogni mia o sua telefonata gli chiedevo notizie di uno splendido “concetto spaziale” su fondo rosso vivo di Lucio Fontana che “alloggiava” sulla parete del suo studio. Petrassi era un uomo pudico; il suo pensiero musicale si è mosso tra i relitti della musica con una grande lucidità che gli ha permesso di superare quella fase di falso aggiornamento e imporsi nella storia della musica come un musicista che scrive la propria esistenza compositiva al di fuori di ogni moda e etichetta, un esempio di vita, di rigore morale che bisognerebbe sempre tenere presente, e di amore per le arti.
La vocalità specifica da me scelta si inietta in particolare nel corpo stesso delle parole. Una vocalità nutrita di varie esperienze e di varie latitudini compositive, chiamata a rappresentare quel valore aggiunto di informazione ed espressione che solo la musica porta dentro il testo, fin dai tempi di Monteverdi, nel punto nevralgico e di avvio del “drammatico” confronto tra l'arte verbale e l'arte sonora, in una evidente e proficua ricerca delle possibili adesioni di un suono alla parola, in una interferenza-collaborazione tra due diversi campi semantici.
Matteo Segafreddo
Il mio rapporto con le altre forme artistiche è indispensabile sia per arricchire la mia ricerca "spirituale", sia per essere individualmente un compositore idealmente e linguisticamente "totale"! Compositivamente il mio atteggiamento è legato ad una sinergia estetica tra articolazione fonetico-espressiva del testo da "fondere o integrare in musica", e una possibile "fantasiosa o suggestiva" progettazione del gesto musicale che tale testo gradualmente mi suggerisce.
Roberta Silvestrini
Tutte le arti mi emozionano, mi suggeriscono e mi evocano molteplici opere musicali.
Il significato della parola mi suggerisce una figura, un effetto, una immagine che io traduco in musicale. Quando compongo seguo il testo molto alla lettera e sono attenta al suo significato, usando molto spesso madrigalismi musicali che suggeriscono ed aiutano al pubblico a comprendere meglio il significato e il messaggio dell'opera.
Simona Simonini
Ho composto molti lavori per teatro musicale, con testi poetici e con installazioni video. La musica è un linguaggio “aperto” ed è in grado di collaborare con le altre forme artistiche in molti modi: per analogia delle forme simboliche, per rafforzamento reciproco dei significati, per contrapposizione o anche per complementarietà nella comunicazione che si vuole effettuare.
Nelle mie composizioni è possibile rintracciare tutti i tipi di rapporto che ho indicato ed è possibile, anche, in alcuni casi, come nelle poesie dedicate a Ritsos (Vissuti per Ghiannis Ritsos), eseguire le musiche indipendentemente dal testo. Nel caso di questa composizione il testo letterario di Ritsos serve per “restringere” la valenza simbolica del suono al significato preciso che voglio comunicare. In un'opera multimediale come Blu Ipazia, invece, essendo il testo in parte scritto in greco antico ed in parte in italiano ed in modo lirico, il suono diventa immagine virtuale che lo spettatore, nella sua personale visione-ascolto, può utilizzare per ricrearsi un proprio percorso emotivo e spirituale che trascende l'esperienza sensibile e percettiva quotidiana. Nelle opere per teatro musicale e balletto, come Il sogno di Matilde o La treccia del latte, spesso il tempo teatrale risulta slegato da quello narrativo per collocarsi in una circolarità che interseca le diverse dimensioni in modo non unitario.
Analogamente allo svolgersi di questi molteplici piani narrativi procede la musica che fa proprie le esperienze del passato, sia colte che popolari , ma crea, nel contempo, proposte compositive della musica contemporanea. Ne Il sogno di Matilde sono introdotti temi fugati, Corali di tipo luterano, una Barcarola, un Tango costruito con la serie weberiana delle Variazioni op. 30, un Minuetto raveliano, riproposto in forma jazzistica, un Canto pannonico su soggetto del 1400. Ne La treccia del latte, che racconta la storia di una donna che ha scelto di vivere da barbona, sono state introdotte molte danze popolari che potrebbero essere eseguite anche da sole; sono danze che richiamano l'uso degli organetti o i balli sulle piazze e nelle aie, oppure una habanera, una danza tribale, dei blues e forme jazzistiche varie. Un Madrigale, ad esempio, è ripetuto in molti modi diversi, che vanno da quello tradizionale a quello con accompagnamento di ritmi dell'America latina.
Anche con l'azione scenografica il rapporto è complesso: a volte la scenografia completa per contrapposizione il testo e la musica, a volte collabora in senso unitario per rafforzamento nella comunicazione. L'utilizzazione di strumenti digitali facilita in qualche modo questa polivalenza funzionale delle arti che accompagnano una composizione musicale. Il colore in movimento delle proiezioni figurative intensifica il dato percettivo sonoro e lo spettatore è spesso circondato da sollecitazioni molteplici che, a seconda dell'intenzione del compositore, richiedono sia risposte immediate di tipo solo intuitivo, sia mediazioni interpretative anche complesse attraverso modelli assimilati dalla tradizione culturale europea od extra-europea. Al pubblico è richiesta attenzione, sensibilità e cultura, non solo appagamento sensibile o intellettuale di tipo fantastico come nel sogno e all'arte non è affidato il compito di "mostrare il mondo nello stato della redenzione", ma di essere un “luogo” dove si fa un‘esperienza di senso e nello stesso tempo si rinuncia ad impadronirsi per sempre di questo senso. /.../
Cfr. nella sezione Contemporaneo il saggio L'e(ste)tica