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Difficoltà di fare musica oggi, 24 interviste
Interviste a musicisti, di varia provenienza, che descrivono il loro variegato rapporto con il suono
e con la società. Le interviste sono parziali, per vederle nella loro versione integrale leggi Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.



Antonio Agostini, Maurizio Agostini, Antonio Anichini, Riccardo Arrighini, Claudio Josè Boncompagni




Antonio Agostini
Chitarrista, inizia gli studi musicali con Lilia Bemi a Viareggio; studia composizione presso il conservatorio “Puccini” di  La Spezia e privatamente con Riccardo Dapelo. Si perfeziona (1996-2002) in composizione con Manzoni alla Scuola di musica di Fiesole, dove ottiene la borsa di studio (2001/2002). Nel 1999 vince il Premio Veretti e nel 2002 e 2003 è tra i compositori selezionati  per Compositori a Confronto. Sempre nel 2003  tiene due seminari di analisi e composizione a Praga e a Budapest. Nel 2005 vince il primo premio del concorso internazionale di composizione Chant du Monde-Dimitri Shostakovich di Mosca. Nel 2008 vince il primo premio del concorso internazionale di composizione Musici Mojanesi. Nel 2010 è invitato dal dipartimento di musica dell’università di Medellin a tenere un corso di composizione. Dal 1992 al 2002 segue corsi, seminari ed incontri con Stockhausen, Berio, Boulez, Sciarrino, Guarnieri, Lachenmann, Francesconi, Bussotti e Sani. Dal 1999 è membro dell’ensemble Le Onde Martenot con il quale vince nel 2001 il Premio Piero Ciampi per la migliore esecuzione e nel 2002 il secondo premio della prima edizione del Premio Fabrizio De Andrè di Desio. Nel 2007 è in finale al festival Teatro-Canzone Giorgio Gaber accompagnando Luca Checchi. I suoi lavori sono pubblicati dalla casa di edizioni musicali Ars Publica e da Aliamusica.
 
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
“Amo troppo i romantici per amare i neo-romantici...” Personalmente non mi interessano, raramente sono attratto da queste “tendenze”. In linea di massima mi sembra di cogliere una grande voglia di rassicurare più ascoltatori possibili, magari con qualche tendenza ad avvicinare qualche forma “classica”, forse solo inscatolata alla meglio, cercando di non perdere mai di vista la strizzatina d’occhio al pop o a qualche venatura jazzistica, tanto per accontentare anche quella possibile fetta di mercato un po’ più smaliziato. In sostanza,a questa domanda vorrei rispondere citando due illustri fonti, per me di grande riferimento, e che racchiudono perfettamente il mio pensiero: la prima è di Giacomo Manzoni, che alla richiesta di Antonio De Lisa di esprimere un’idea a proposito dei giovani compositori che s’incamminavano per la via del neo-romanticismo così rispondeva,nel 1989: «Se c’è qualcuno che vuol rinunciare al brivido del nuovo, al rischio dell’ignoto,insomma chi vuol fare harakiri, si accomodi pure.»[1] La seconda è Wassily Kandinsky nell’incipit de Lo spirituale nell’arte (1910): «Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo e spesso è madre dei nostri sentimenti. Analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai più. Lo sforzo di ridar vita a princìpi estetici del passato può creare al massimo delle opere d’arte che sembrano bambini nati morti. Noi non possiamo, ad esempio, avere la sensibilità e la vita interiore degli antichi Greci. E se in scultura tentassimo di adottare i loro princìpi non faremmo che produrre forme simili alle loro, ma prive di anima. Come le imitazioni delle scimmie. Esteriormente i movimenti delle scimmie sono uguali a quelli dell’uomo. Una scimmia sta seduta, tiene in mano un libro,lo sfoglia,assume un atteggiamento pensieroso, ma ai suoi movimenti manca un senso interiore.[2]
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock , bordermusic e pop, musica per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
Nonostante i problemi legati alla deficitaria promozione e diffusione di musica a qualunque livello ed in qualunque contesto, nel nostro paese se ne produce ed esegue  tantissima. Le scuole, dalle più accademiche ai corsi nelle private che possono comprendere addirittura percorsi di analisi e produzione anche del rock estremo, sono parecchio frequentate. Tutto però sembra spesso gravare (soprattutto in fase organizzativa e poi d'esecuzione) sulle spalle dei musicisti, a volte anche umiliati dalla mancanza di attenzione da parte di chi dovrebbe amministrare soldi ed eventi, e tutto si fa ovviamente più complesso. Per quello che riguarda il rapporto con il passato almeno nel caso specifico della diffusione della musica colta, ricordo un piccolo evento personale: nel 1998 (frequentavo il corso di perfezionamento di Giacomo Manzoni) portai ai miei colleghi compositori (stavamo raccogliendo dati per una piccola indagine sulla produzione e diffusione della nuova musica, iniziando dai canali della radiodiffusione di stato) la rappresentazione della degenerazione in cui era caduta la diffusione radiofonica (ma anche televisiva) della nuova musica:un numero del settimanale «Radiocorriere TV» di circa sei anni prima con la programmazione delle reti Rai e filodiffusione con dettagliata (ed utilissima) descrizione giornaliera delle trasmissioni, concerti, interpreti e speciali dedicati alla musica contemporanea. Ogni giorno, in media, su Rai Radio 3, un’ora di palinsesto (ma quasi sempre parecchio di più) era dedicata alla nuova musica, interviste, incontri con gli autori, con gli interpreti, registrazioni storiche e prime (a volte ahimè pure “ultime”... assolute ecc...) Tutto si era drasticamente ridimensionato nel giro di neanche dieci anni, la programmazione si era sempre più assottigliata, pur rimanendo Radio 3 uno dei pochi riferimenti. Parto da qui, per giungere, oggi, all’ovvio, l’informazione e la diffusione rimangono un fondamento, un motore, un innesco, meno investiamo nell’attenzione, nell’analisi, nella ricerca, e più cercheremo di rincorrere elementi del “già visto”, del già vissuto. La tendenza mi sembra volgere, per usare un eufemismo, al negativo. É evidente che sempre più le possibilità e gli scenari che, per esempio, internet apre andranno sondati ed usati, cercando di trovare nuovi percorsi di diffusione e aperture alle conoscenze. Credo che sia la stessa situazione che si respira negli altri ambiti musicali rock compreso, mentre la maggior parte dei canali di diffusione (soprattutto televisiva) nazionale arrivano ad affermare modelli preformati/predigeriti di finti fenomeni da spacciare stagione dopo stagione, per alimentare nella maggior parte dei casi l'indotto che passa dal giornaletto scandalistico alla comparsata sanremese.
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Le difficoltà sono evidenti e purtroppo crescenti. I tagli economici continui alla cultura hanno portato praticamente alla chiusura istituzioni storiche e in parecchi casi al “ridimensionamento” dei cartelloni e delle stagioni concertistiche. La degenerazione è palpabile se facciamo, come dicevo in precedenza, il rapporto con due, tre decadi fa, per non andar troppo lontani. Prendiamo in esempio le orchestre ed i cori della Rai e la  soppressione di tre di esse: la prima orchestra Rai nasce nel 1931 a Torino per poi essere affiancata da altre tre orchestre, a Milano, Roma e Napoli, confluite in un unico organico (Torino) nel 1994: è la rappresentazione di un’involuzione, una chiara operazione strategica totalmente a discapito della possibilità di diffusione della cultura a favore di esigenze di “mercato” ben note, rincorrendo modelli tipicamente d’intrattenimento spesso fin troppo da “basso ventre”. Nei centri più piccoli troviamo ricalcata, spesso, la grave situazione di tendenza nazionale, senza però aver la possibilità energetica delle grandi città. Programmi di concerti fotocopia (non manca mai Libertango, magari trascritto per dieci marimbe, con tutto il rispetto per Piazzolla), assessori alla cultura che confondono Chopin con un cocktail analcolico alla frutta, necessità di fondere “impegno culturale” con la stessa mole in numero di spettatori che potrebbe affollare un concerto di Vasco Rossi, ecc. Quindi, la reale problematica economica spesso si fonde con la (ahimè) ottusa miopia o peggio con la chiara idiozia di chi dovrebbe armonizzare soldi (seppur pochi) con adeguata attenzione ai programmi e iniziative.
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Sono da sempre interessato alla figura di Iannis Xenakis, a cui sono arrivato passando per Varese. Credo sia un esempio magistrale di continuo rapporto tra analisi e possibile “speculazione” scientifica e piacere del comporre. Mi ha sempre incuriosito la sua personale ricerca che lo portava dall’applicazione di leggi stocastiche magari di tipo markoviano come in Analogique A et B (per archi e nastro magnetico, 1959) alla ricerca sulle scale anche pentatoniche affiancate a parti pianistiche affidate alla programmazione al computer, per esempio nella seconda parte di Eonta (per pianoforte, due trombe e tre tromboni,1963). Mi interessa la possibile applicazione o spunto di carattere scientifico come idea, come punto di partenza, senza precludermi il piacere della frattura cercando di motivarmene il significato.
- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio etc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Edgard Varese fu, per me, il vero riferimento iniziale. Ne rimasi affascinato, da giovanissimo, fin dal primo ascolto, soprattutto di Integrales, Ameriques ed Arcana. Iniziai (subito dopo la licenza di solfeggio) a studiare le partiture di Varese contemporaneamente a Schoenberg e i primi lavori di Luigi Nono, soprattutto da II Canto Sospeso in poi. Crescendo continuai ad approfondire l’evoluzione fino a Darmstadt e avanti, arrivando ad ascoltare ed analizzare soprattutto Giacomo Manzoni, uno dei grandi compositori italiani che più mi interessavano e stimavo. Finalmente approdai al suo corso di perfezionamento alla Scuola di musica di Fiesole nel 1997 dove rimasi  per cinque anni. Anche dopo la morte dei grandi maestri del secolo scorso, credo che i compositori più giovani possano comunque trovare interessanti e concreti maestri che non solo riescano ad aiutarli nel gettare ponti e speranze per l’evoluzione del pensiero musicale (in vari casi anche con il supporto delle tecnologie applicate sia alla composizione che all’esecuzione) ma anche tener vivo l’interesse per l’analisi della grande musica che ci ha preceduto. In questo, la lezione storica, di grande riferimento, di Bruno Maderna rimane esemplare e viva, e anche dopo tanti anni dalla sua scomparsa, è lì, con la sua forza, il suo rigore e allo stesso tempo la sua risata, in un’energia sottile, vibrante, continua, di attenzione al nuovo contemporaneamente all'analisi della prima polifonia, per fare solo un piccolo esempio.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Credo sia difficile parlare di “insegnare a comporre”. A mio parere deve esistere, mi ripeto, un grande amore ed impegno per l’analisi e lo studio dei grandi maestri paritetico all’attenzione verso il nuovo, al nostro contemporaneo, al provare a costruire, stimolando. Personalmente ho avuto un’esperienza costruita proprio così, con una spinta naturale nei miei primi insegnanti, all’entusiasmo del provare a costruire, cercando “un senso” che poi poteva anche diventare “forma”.
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Anche qui è parecchio complesso, perché abbiamo esempi illustri, nazionali e non, che partono  con un percorso da autodidatta per poi formarsi   negli stili  più raffinati e complessi.      Bene, credo che sia sempre un rapporto molto personale, quindi è difficile essere assolutisti.     Rimango del parere che il maestro sia importante,anche come riferimento umano, per crescere ed essere anche un po’ “bacchettati”. Aiuta. /.../
- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
La velocità dei flussi d’informazione, grazie fondamentalmente alla rete, la possibilità della condivisione delle culture e dei linguaggi, ha posto, soprattutto negli ultimi anni il musicista di fronte alla possibilità di sperimentare elementi timbrici nuovi, che so, trattando digitalmente le campane tibetane o affiancare il balaban e il goshe nagara dall’Azerbaijan a strumenti tipici dell’orchestra occidentale. In questo trovo solo stimoli. Per esempio compositori come Tristan Murail o il nostro compianto Fausto Romitelli, hanno usato, in contesti che potremmo definire di “musica d'arte”, la chitarra elettrica distorta con tanto di uso di tecniche tipicamente rock (Vampyr di Murail) o chitarra elettrica e basso elettrico con Ebow (Energy Bow, aggeggio che producendo un campo magnetico entra in contatto con i magneti dei pick ups della chitarra o del basso permettendo di far vibrare le corde senza l’attacco del plettro o delle dita, quindi emulando l’arco vero e proprio come in Professor Bad Trip di Romitelli) o addirittura iniziando un imponente lavoro per ensemble ed elettronica con il campionamento dell’inizio di Shine on your crazy diamone dei Pink Floyd (An index of Metal sempre di Romitelli). Questi sono ovviamente solamente pochi esempi di come i giorni che stiamo vivendo aprono sempre più al dibattito sulla sfida di quello che preferisco chiamare compenetrazione più che contaminazione; precludersi la possibilità, se ci stimola, di usare elementi tradizionalmente lontani dalla nostra cultura o dal nostro “genere”credo sia sbagliato, dipende sempre che utilizzo ne facciamo.
- Fai uno sguardo auto-critico sulla tua attività recente, come la giudichi?
Da un po' di tempo sto cercando di focalizzare il mio lavoro attorno alla voce,o meglio alle voci. Sento la necessità, forse un po' troppo auto-soffocata in passato di esplorare maggiormente la grande possibilità dell'universo vocale.
- Progetti.
Ho appena concluso un nuovo pezzo per orchestra ed uno per orchestra d’archi. Sto scrivendo un lavoro per soprano ed ensemble che andrà in esecuzione a Medellin (Colombia) nella seconda settimana di novembre 2010, commissionato dal dipartimento di composizione dell’Università, per il quale nello stesso periodo terrò delle lezioni di composizione. Sempre in novembre sarò a Berlino per due lavori per oboe e oboe barocco con elettronica. Contemporaneamente sto continuando a lavorare ad un’opera di teatro musicale sulla trance mistica ed ad un ampio lavoro per gruppo vocale e percussioni (con elettronica) di tradizione extra-europea.
  
Maurizio Agostini
Si diploma in pianoforte col massimo dei voti presso il conservatorio “Cherubini”, dove compie gli studi di strumento sotto la guida di Cardini e quelli di composizione sotto la guida di Sciarrino. Nel 1999 si perfeziona in direzione d’orchestra con Giulini  presso l’accademia Chigiana di Siena. Ha svolto l’attività di maestro collaboratore al pianoforte, presso importanti  istituzioni quali teatro dell’Opera di Roma, Ravenna Festival, Festival dei due Mondi di Spoleto, Macerata Opera Festival e Fondazione Teatro La Fenice, Fondazione Arturo Toscanini Teatro delle Muse di Ancona, lavorando al fianco di artisti tra i quali Bartoletti, Campanella, Gelmetti, Muti, Conlon, Pizzi,  Zeffirelli. Dal 2008 collabora come direttore musicale di palcoscenico al teatro San Carlo di Napoli. Fra le sue composizioni, Parafrasi da concerto (2006, Berbèn edizioni musicali), Messa di Requiem in memoria di Giovanni Paolo II (2007, Berbèn) e le opere liriche Nel sogno di stanotte  Mandragola (2004, OTOS edizioni musicali) e Fedra (2006, OTOS).
 
- Dal catalogo della sua produzione si evince una chiara predilezione per la voce. Mi parlerebbe del rapporto che ha, a livello compositivo, con questo meraviglioso strumento?
La voce è uno strumento che ho imparato a conoscere e ad amare sin da giovanissimo. A tredici anni ho avuto la fortuna di avvicinarmi ad essa accompagnando i corsi musicali tenuti da Gino Bechi e Rolando Panerai per l’associazione Caruso di Lastra a Signa, paese in cui sono cresciuto. Da allora è sbocciato l’amore per la voce e per il canto, alimentatosi negli anni con collaborazioni artistiche in veste di pianista accompagnatore di cantanti del calibro di Panerai, Siepi, Taddei, Bergonzi, Corelli e molti altri. Queste esperienze sono state determinanti per me al punto che l’intuizione  compositiva mi si manifesta primariamente come “idea vocale”.  Anche quando scrivo per strumento, è  solo in un secondo momento che  questa  viene rielaborata in  determinazioni armoniche, conseguenze verticali di contrappunti melodici interni.
- Riguardo al rapporto musica-testo, come opera solitamente? Dalla musica nasce l’ispirazione per il testo o è la musica a plasmarsi a immagine e somiglianza (e dunque in funzione) del testo? E, nel caso delle opere liriche, la drammaturgia e l’azione scenica sono già implicitamente contenute nella musica, risultando così come naturali conseguenze di quest’ultima, o anche qui è la musica ad essere in funzione della scena?
Non ho un modo univoco di operare, dipende dalle situazioni. Quando ho composto la mia Messa di Requiem in memoria di Papa Giovanni Paolo II è stata la musica ad adattarsi ai testi dell’Ordinarium Missae, talora semplicemente accompagnandolo, talora traducendone le parole in contenuti  teatrali. Mi spiego meglio: ci sono situazioni in cui la parola ha una forza espressiva in virtù del suo stesso suono e significato e in tal caso la musica deve accompagnarla  limitandosi a   farne  brillare l’accento fonico ed espressivo; in altri  casi è il concetto o la situazione teatrale che predomina nel testo e qui la musica non deve limitarsi a rivestire la parola ma deve investirla di contenuto. Nel caso dell’opera lirica amo scrivere io stesso i libretti e data un’idea drammaturgica di partenza, musica e testo nascono spesso assieme senza una priorità preconcetta.
- Se e in che modo la sua attività di maestro collaboratore e direttore d'orchestra hanno influenzato la sua attività compositiva e questa predilezione per la voce?
Le attività di maestro collaboratore e direttore d’orchestra mi hanno svelato i meccanismi della macchina teatrale per cui ho imparato a concepire tempi sulla carta in funzione dei tempi del palcoscenico. La mia attività compositiva e la mia predilezione per la voce sono state egualmente influenzate dalla passione per  i  grandi attori del teatro di prosa e per i grandi direttori d’orchestra del passato. Tra i primi in particolare ricordo Salvo Randone e Vittorio Gasman  per il loro lavoro sul suono e l’aderenza espressiva alla parola e tra i secondi  Victor De Sabata e Dimitri Mitropoulos. Questi ultimi, a loro volta compositori, oltre che fedeli nel rapporto con la partitura,  dirigevano con un senso teatrale assoluto. La mia voglia di scrivere musica per il teatro viene anche da una certa smania di riprodurre le  esperienze emotive provate da ragazzino all’ascolto di tante storiche e inimitabili registrazioni dei più grandi capolavori operistici così ben eseguiti da sembrare divini.
- Si parla oggigiorno di postmoderno, di nuova semplicità e, soprattutto in Italia, di neo romanticismo. Pensa che queste definizioni rispecchiano la vera natura della musica contemporanea e che siano sufficienti a comprendere il quadro della situazione attuale? E cosa gliene pare di queste nuove correnti culturali?
Il panorama della musica contemporanea è talmente vasto e vario che non permette a nessuna definizione costrittiva di esaurirne la descrizione. Considerato  inoltre  il fatto  che a tale panorama c’ è dato accesso  in una percentuale minima,  risulta davvero riduttiva qualsiasi tipo di classificazione di appartenenza a correnti culturali. Per  me la musica è una: è l’Arte  in grado di suscitare emozioni e pensieri a prescindere da qualsiasi programma. I concetti rimangono sulla carta, le emozioni toccano la parte immortale dell’essere.
- Pensa di aver risentito dell’influenza del territorio in cui si è formato e dell’ambiente fiorentino?
Certo. La fiorentinità è un  modo d’essere e di pensare, non può non condizionarti anche nel modo di fare musica. Amo profondamente la mia città e la storia della mia terra così fertile e generosa nei secoli in tutte le forme d’arte. Non scordiamoci  poi che l’opera lirica è nata ed ha avuto grandissimi geni nelle terre toscane, e questa è per me una punta d’orgoglio. Riconosco inoltre la fortuna di essere cresciuto in una regione  che, diversamente da altre, offre una serie di proposte culturali ad ampio raggio che non possono non stimolare l’intelletto di chiunque.
- Dal 2008 è direttore musicale di palcoscenico al teatro San Carlo di Napoli. Se e in che modo questo cambiamento a livello territoriale è stato influente sulla sua persona?
Ogni cambiamento territoriale ha una sua influenza culturale. Napoli e Firenze sono molto diverse per usi, costumi e paesaggi, ma sono accomunate dalla fecondità artistica che le ha rese protagoniste nel corso dei secoli. Napoli è una città splendida sotto molti punti di vista e il suo teatro San Carlo è un’eccellenza storica, basti pensare che Rossini prima e Donizetti poi ne sono stati direttori artistici. A passeggio per entrambe le città in ogni angolo si respira arte, quando Dante o quando Virgilio, quando Cherubini o quando Cimarosa, qualcuno importante per quelle vie ci è passato sempre prima di te.
- Inoltre, data la sua posizione lavorativa all'interno di un teatro così importante come il San Carlo, mi piacerebbe conoscere la sua opinione riguardo alle problematiche dell’organizzare e del fare musica. Quali sono le difficoltà a livello organizzativo, politico ed economico?
Devo essere sincero, sono un po’ al di fuori delle specifiche problematiche economico-organizzative. Sicuramente una politica a favore della cultura in generale è di primaria importanza non solo per la crescita di singoli artisti ma per lo sviluppo dell’intero paese. Troppo spesso si  tagliano i fondi alle istituzioni artistiche denunciando gli sprechi dell’assistenzialismo alle masse in esse impiegate ma non si pone attenzione alla qualità del frutto che queste masse creano, l’arte appunto, il prodotto finale che va a beneficio di tutta una comunità e ne influenza positivamente il carattere, lo spirito e conseguentemente la produttività.
(Beatrice Venezi)
 
Antonio Anichini
Si diploma in pianoforte presso il  conservatorio “Cherubini” di Firenze nel 1986 sotto la guida di Lydia Rocchetti con il massimo dei voti e la lode, quindi vince per due anni consecutivi una borsa di studio per attendere alla Internationale meisterkurze für Musik di Zurigo dove studia con Buchbinder e Schwimmer. Le sue interpretazioni pianistiche sono state trasmesse dalla Rai e da altre emittenti radiofoniche anche estere. Si diploma brillantemente in composizione in soli tre anni sotto la guida di Giani-Luporini e Pezzati, presso il conservatorio “Morlacchi” di Perugia. Studia successivamente con Berio, Sciarrino e Ligeti. Tra i vari premi e riconoscimenti internazionali della propria attività compositiva, nel 1995 è unico vincitore all’unanimità del XXII Concorso Internazionale di Composizione Polifonica Guido d’Arezzo con Madrigale per coro a cappella a sei voci su testo di Dante Alighieri. Il suo catalogo comprende composizioni per tutti gli organici, strumentali e/o vocali, cameristici o sinfonici. Ha al suo attivo esecuzioni in Italia e all’estero (Francia, Svizzera, Germania, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Stati Uniti, Canada, Australia, ecc.). Già docente di composizione, lettura della partitura, storia della musica in vari conservatori e istituti, è attualmente direttore dell’istituto superiore di studi musicali “Franci” di Siena, dove è anche titolare della cattedra di composizione.
 
-Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose gliene ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Sono tutte strade diverse che indicano un comune stato di ricerca dopo il passaggio e la trasformazione di sintassi, linguaggi, stili del novecento. Sulle attuali difficoltà del comporre e sulla base del mio personale percorso, focalizzerei l’attenzione sull’arduo compito di armonizzare le diversità. Il concetto stesso di originalità, che fino a ieri era ancora quello di stampo sostanzialmente romantico (nuovo, inedito, è ciò che non si è mai fruito prima), è cambiato alla luce dello slogan “ormai è già stato scritto di tutto”. Su questo mi sia consentita una chiosa. Non credo alla luce di quanto ci rivela la nostra esperienza umana, che sia mai accaduto a nessun artista o scienziato di inventare o intuire il nuovo a prescindere totalmente e assolutamente da tutto quello che prima di lui è stato scritto o condiviso. Io credo fermamente alla “legge del testimone” secondo la quale ad ogni ampliamento di conoscenza e coscienza ne seguono altri ma a partire da quella già acquisita (Monteverdi da Ingegneri e De Rore, Bach da Frescobaldi, Mozart da Bach, Beethoven da Haydn e Bach, e così via) pur nella propria piena autonomia di ricerca e di obbedienza alla propria necessità interiore. Ed il punto a mio avviso sta proprio qui. L’unità di tutta l’esperienza musicale occidentale e umana in genere, la cui ultima nota credo fermamente che non sia stata ancora emessa, ha bisogno della diversità quanto più ampia e vasta possibile. Ma il rapporto fra unità e diversità va inteso in modo analogo a quanto avviene in natura (c’è da chiedersi come mai non si è mai visto due alberi identici anche se appartenenti alla stessa specie). Soprattutto nei momenti di crisi e di passaggio epocale della storia musicale  occidentale – la discontinuità fra modalità e tonalità, fra classicismo e romanticismo, fra tonalità e atonalità – compositori come Monteverdi, Bach, Mozart, Beethoven, Mahler, Verdi hanno accolto nell’alveo del loro linguaggio il bagaglio che è stato consegnato loro dalla storia e lo hanno ricontestualizzato nell’ambito della loro esperienza di uomini e artisti del loro tempo. Il mio percorso è attualmente diretto verso questo obiettivo: ricontestualizzare quello che ormai ci appartiene al di la di una pura e semplice storicizzazione o di una condivisione di ambito socio-culturale. In questo senso l’artista è oggi veramente cittadino del mondo, pellegrino senza una pietra dove posare il capo.
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo lei vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
La valenza a mio avviso non è riferibile soltanto alla ufficialità o meno del percorso… in fondo tutti siamo stati autodidatti nella misura in cui siamo riusciti a valorizzare l’ex-ducere di chi ha avuto la responsabilità della nostra formazione. Credo davvero importante ripristinare il lavoro prezioso della bottega rinascimentale. Il docente titolare della cattedra di composizione è un po’ la guida maieutica della situazione.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Nella misura in cui comporre un brano di musica è mestiere, può essere insegnato. Diversamente come diceva Schoenberg, il senso della forma è certamente innato e per chi lo possiede è un gran dono. Tuttavia è molto formativo far prendere coscienza allo studente del rapporto che un grande musicista instaura con la forma e le sue proporzioni. Non stupisce tanto infatti che Mozart abbia impiegato la sezione aurea nelle sue composizioni, ma che lo abbia fatto in quel modo ossia assimilando tale proporzione al processo compositivo in modo che la causa e l’effetto diventano complementari e funzionali l’un l’altro ed entrambi alla manifestazione dell’Uno.   
- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
Le contaminazioni sono sempre esistite. Non è sul materiale che si decidono le sorti artistiche di una composizione (Beethoven una volta per tutte ha relativizzato la “bellezza estetica” del materiale impiegato) ma sulla sua ricontestualizzazione da parte del compositore. Ricontestualizzazione che è un po’ il risultato dell’incontro e della sintesi della percezione che ha il musicista del mondo in cui vive (soggetto a trasformazione continua e per questo impermanente) e di quello che intuisce permanere in se stesso e nella Vita Una (che, in quanto tale, intuisce come Realtà).
- Progetti?
In ambito sia compositivo che didattico direi. Sto ultimando un ciclo di studi per pianoforte (6 etno-contrappunti alcuni dei quali in giugno scorso hanno ricevuto il battesimo alla Carnegie hall di New York grazie al valore e all’impegno del giovane pianista Fabrizio Datteri). Sul fronte didattico spero entro quest’anno di terminare un mio scritto sulle problematiche compositive che raccoglie almeno vent’anni di lezioni e analisi musicali fatte con e per i miei allievi, ma il tempo è sempre troppo poco (e i colleghi incaricati della direzione di un conservatorio potranno ben comprendermi).
(Beatrice Venezi)
 
Riccardo Arrighini
Si diploma con il massimo dei voti nel 1986, sotto la guida di Cesa Luporini. Intraprende lo studio del jazz nel 1990 presso i seminari di Siena jazz tenuti dal maestro Pieranunzi e presso i corsi estivi Umbria jazz clinics di Perugia, dove vince una scolarship per recarsi negli USA. Nel 1991 si iscrive al Berklee College of  Music di Boston, USA, dove frequenta due semestri e dove ha l’occasione di muovere i primi passi a livello professionale nel mondo del jazz. Nel 1997 si laurea in alta qualificazione professionale ai seminari di Siena Jazz. Dal 2004 al 2008 suona con Cafiso in duo e quartetto nei festival di tutto il mondo. Nel 2007 elabora un duplice progetto sulla figura di Giacomo Puccini, partecipando a importanti concerti internazionali. Nel 2008 esce con un nuova rielaborazione di grandi classici, Vivaldi Jazz: Le 4 Stagion, in piano solo e trio, la cui tournèe nel 2009 ha toccato tutta Italia. Segue Chopin in jazz, sempre in piano solo, con cui è tuttora in tour in Italia ed all’estero, e Verdi in Jazz con la Corale Piccini Grosseto ed Ilaria Bigini come polistrumentista. Ha Collaborato con tanti prestigiosi interpreti (Konitz, Grossmann, de Paula, Allen, Rava, Basso, Cerri, Fresu e molti altri). Ha inciso 20 dischi a suo nome per la Splasc’h, Philology, Giotto e Spazi Sonori, incisioni da solista e con ensemble. É dedito da sempre all’insegnamento di musica classica e jazz ed ha tenuto molti seminari ed workshop tra cui quello del 2006 a San Paolo (Brasile) al Centro Studi Tom Jobim.

 - Come vedi la situazione della musica oggi?
Secondo me oggi nella musica è difficile inventare qualcosa di veramente nuovo. L’avvento della tecnologia del ‘900 ha permesso alla musica di essere divulgata con molta più velocità rispetto ai secoli precedenti. Voglio fare un esempio: già negli anni ‘60 Jimi Hendricks cominciava a fare una cosa con la chitarra e dopo un mese lo facevano tutti nel mondo grazie alla televisione, nel ‘700 le informazioni non erano così immediate. Con internet le informazioni ormai si succedono a ritmi vertiginosi. Questo fa si che a un certo punto è difficile dire qualcosa di veramente nuovo. Le invenzioni più grosse del secolo sono state sicuramente il jazz, il rock, il pop, la bossanova… poi sono cominciate le fusioni. La mia visione è che oggi si può soltanto unire, il mercato è molto complesso e cambiato e l’arte in qualche modo si deve allineare (prendiamo per esempio l’I-pod che ha unito tante funzioni in un oggetto). È difficile oggi per il mercato gestire la fretta e l’urgenza, c’è sempre bisogno di novità. Basta vedere come si è ridotto il mercato del pop coi talent show, che sfornano solo prodotti usa e getta, l’anno dopo la gente manco se li ricorda. Tornando alle fusioni, voglio ricordare che il jazz stesso nasce già come un’unione di etnie e stili. Quando prendi ad esempio un contrabbasso che fino a quel momento si suonava classico con l’arco a volte pizzicato ed inizi a suonarlo con la pulsazione nera africana oppure i piatti tipici delle rumoristiche da orchestra e vengono trasformati in batteria, già questo, se ci si pensa, è un’etnia su cui molto ci sarebbe da dire, anche se questa non ne è la sede. In conclusione oggi si unisce e si trasforma quello che c’è già.
- Sulle difficoltà (economiche e politiche) nell’organizzare la musica (ma anche nello scriverla)
La mia scelta a livello organizzativo è quella di essere libero sul mercato e di auto gestirmi e  promuovermi liberamente, e forse oggi è un ottimo momento per farlo. Basta un computer e una stanza e, potenzialmente, sei il padrone del mondo. Una volta bisognava avere più appoggi, conoscenze, oggi credo che non sia più vero, il mercato è più libero e se vali veramente ed hai qualche capacità di gestione, video, audio, auto-promozione di buon livello puoi emergere anche con le tue forze. Internet è la prima vera grande risorsa democratica che abbiamo dove tutti siamo uguali. Verdi diceva quando arrivò a 88 anni: quanto avrei potuto fare di più, ma si potrebbe sempre fare di più. Questo vale non solo in senso artistico ma anche in senso organizzativo. Oggi la musica può essere vista allineandosi al mercato attuale come ad una libera professione.
- Che rapporto c’è tra comunicazione e ricerca, come ti situi nel fondamentale rapporto tra l’indagine compositiva e l’espressione?
Ognuno ha  il suo carattere ed un messaggio da dare, c’è chi è più introverso e chi più estroverso. Io ho un carattere aperto e da sempre amo cercare di comunicare al pubblico le mie emozioni, in questo senso non sono il classico intellettuale. Inoltre, da grande narcisista quale sono, amo parlare con tutti e stare al centro dell’attenzione, mi definiscono un gioioso, e un gioioso non può riferirsi ad una nicchia troppo ristretta. Questo significa che quando fai musica una parte di te, pur nella cultura, vuol rivolgersi un po’ anche al popolo. Il grande paradosso della nostra epoca musicale è che vai per 10 anni in conservatorio confrontandoti con delle cose difficilissime (come per esempio le sonate di Beethoven) stando ore a studiare. Un giorno esci e ti ritrovi che l’arte in televisione si chiama Laura Pausini o Liguabue (non me ne vogliano), che con pochi accordi fanno i miliardi, e a quel punto ti chiedi dove sei stato per questi 10 anni? Un avvocato si confronta tutto il giorno all’università con leggi che userà sempre. Allora qui interviene la missione di ognuno, c’è chi dice: al diavolo il pop, internet, la TV ecc.,  mi metto in una torre d’avorio e faccio solo cose molto snob dove meno siamo meglio stiamo oppure l’altra strada è quella di fare compromessi col mondo del commerciale. A mio parere esiste una terza via, che poi è la mia visione (c’è in effetti chi mi dà del visionario) cioè cercare di parlare un linguaggio di cultura musicale cercando di provare a farlo capire e recepire a più persone, soprattutto ai non addetti ai lavori. Gli addetti ai lavori ai concerti non ci vanno. L’errore sta  nel pensare che il popolo sia stupido. Non è così. Io imparo molto di più nel chiedere a una persona ignorante di musica di darmi il suo parere sul mio lavoro. E credo fermamente che è proprio grazie agli estremi (troppo pop o troppo snob) che il popolo non sa dove andare e alla fine sceglie la via più comoda. Io ai miei concerti trovo un sacco di gente contenta ed emozionata, eppure suono Chopin o Verdi, mica la mazurca di... Il paradosso è che più ti distanzi  dal popolo  e più ottieni l’effetto boomerang, cioè che la musica popolare emerge.
- Quali sono i tuoi riferimenti dal punto di vista compositivo? Come riesci ad orientarti?
A livello compositivo mi piace molto l’idea che una bella melodia sia sempre una delle cose che piacciano di più all’orecchio umano, anzi credo che l’orecchio stesso ne senta il bisogno, quindi quando compongo è la prima cosa a cui do importanza. Poi ovviamente cerco l’armonizzazione migliore e in ultimo cerco la chiave ritmica più funzionale per quel brano. La stessa cosa faccio quando fondo la classica e lirica col jazz, alla fine un processo quasi compositivo: hai già la melodia ma la riarmonizzi e ne cerchi una nuova chiave ritmica.
- Sulle difficoltà d’insegnare a comporre, si può insegnare a comporre?
Non si può insegnare a comporre, l’esigenza di scrivere o c’è o non c’è, però si possono insegnare delle linee. Ad esempio non tutti i grandi anche del jazz hanno composto come ad esempio Chet Baker, e poi ci sono diversi livelli di composizione, dalla canzonetta alla grande opera. La composizione sicuramente è un momento in cui tutti i musicisti prima o poi si devono confrontare, perché è giusto misurarsi con questa difficile arte e cercare di capire se è uno dei tuoi talenti ed in che misura.
- Sulle difficoltà del rapporto tra studio e libertà, percorso rigoroso e un’apertura?
Per il jazz un po’ ci vuole libertà e un po’ di studio rigoroso, c’è una via di mezzo, io ho avuto periodi di studio intenso ed altri periodi di riposo, ogni tanto c’è bisogno anche di  respirare. Un musicista ha tre fasi, quella del sapere, mentre stai studiando e stai assimilando informazioni, poi il periodo del saper fare dove devi mettere in pratica in modo che le tue mani rispondano, poi l’artista deve saper essere, cioè imparare a lasciarsi andare e far emergere la propria personalità. Comunque, se è questo che mi chiedi, amo i musicisti che sul palco “suonano”, non che “studiano” perché devono trasmettere emozioni.
- Cosa pensi del rapporto fra cultura musicale locale e quella nazionale e internazionale.
Io sono fiero di essere toscano e soprattutto viareggino, perché qui in Versilia abbiamo tutto, mare e lago, carne e pesce, vino rosso e bianco, colline e Alpi, carnevale e tristezza. In una parola: si ride e si piange e questo fa di noi toscani un popolo unico per  sentimenti e passioni. Non a caso Puccini è nato qua, ha stravolto il mondo con la sua passione, e la passione fa sempre la differenza.
- Sulle difficoltà delle contaminazioni, i cosiddetti generi musicali vanno rispettati o superati?
I generi musicali vanno rispettati ma poi superati, rispettati nello studio vivendo intensamente quella parte come se fosse la religione del momento, poi bisogna mollare facendo uscire il  lavoro in una forma personalizzata.
- Fai uno sguardo auto-critico della tua attività recente e sui tuoi progetti.
Dal punto di vista artistico io credo di aver raggiunto il “target” che desideravo da sempre e avere finalmente l’occasione di arrivare al “mio” successo, non al successo in generale. Sono arrivato ad avere una sintesi dei miei due grandi amori, quella classica-lirica con quella jazz, se ho speso 13 ani di musica classica e oltre 16 con il jazz ed ora arrivo a unire questi due generi ci sarà un motivo. Inoltre tengo a sottolineare in maniera forte il fatto che certamente non sono il primo, infatti nel 1946 è uscito Bad on Bach, Bud Powell che suonava Bach, e come lui molti altri, il punto non è essere il primo ma lasciare una traccia evidente, essere riconoscibile per quello che fai. Credo di essere il primo ad avere rifatto Verdi in jazz, sicuramente sono il primo documentato ad avere all’attivo 4 progetti monotematici e per di più consecutivi, segno di una linea ben chiara che seguo da diversi anni. Sono molto contento di quello che sto facendo in maniera molto sincera, soprattutto per il riscontro dal vivo. Credo infine che il jazz sia una lingua applicabile a qualsiasi genere di musica, la si può parlare su una canzone americana standard anni ’40 come hanno fatto migliaia di jazzisti americani oppure su una canzone italiana o su Besame mucho come Petrucciani oppure sul tango come hanno fatto Piazzola o Galliano. Se l’improvvisazione si può applicare su tutto, perché non sui bellissimi temi della musica classica? Certo, abbiamo il dovere di fare i conti con le complessità delle strutture della musica classica e lirica ed sta qui il mio grande sogno: riuscire a fare in modo, con i meccanismi di oggi e con i ritmi moderni, che si possa far riascoltare la musica classica e lirica alle persone,  facendogliela vivere con dei ritmi più attuali affinché la si possa riascoltare e riscoprire e non sentirsi degli alieni quando si esce dal conservatorio.
 (Ilaria Biagini)
 
Claudio José Boncompagni
Studia tromba e composizione presso il conservatorio “Cherubini” di Firenze, conseguentemente studia con Ferneyhough e Sciarrino, frequenta i   Ferienkurse di Darmstadt. Il repertorio delle composizioni si caratterizza per un cospicuo numero di brani strumentali dal solo al large ensemble, teatro sperimentale, progetti per giovani musicisti, danza e multimedialità. Ha ottenuto 10 piazzamenti nei concorsi nazionali ed internazionali fra i quali il Gustav Mahler di Klagenfurt (Premio di Finalista), il Ghedini (II premio), il premio Eolo Prima (II premio). È presente  in numerosi festival fra i quali il Festival di musica contemporanea di Trieste, Festival Pucciniano, Musicus Concentus Firenze, Incontri Europei con la Musica XX di Bergamo, Rive Gauche di Torino, il Santa Fiora in musica. Sue musiche sono state eseguite in tournée in sud America (Eco Ensemble), Germania, Paesi Balcani, Inghilterra, Belgio, U.S.A. (New York) e trasmesse dalle principali radio. Nel 2007 gli è stato commissionato il brano di apertura del Festival di Santa Fiora eseguito dalle prime parti della Chicago Symphony Orchestra e da altri prestigiosi solisti diretti da Dale Clevenger.
 
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Se dovessi parlare di una mia difficoltà del comporre, essa è costituita principalmente dalla coscienza  storica. Paradossalmente nella società, volta alla scienza e attenta soprattutto al commercio, tale consapevolezza sembra più costituire un “peso” anziché una coscienza umanistica. Non faccio parte di chi si volge con malinconia ad un fiorente passato, perché nel mondo d’oggi in ogni campo, dalla scienza alle arti, trovo interessanti figure contraddistinte da aperture e conquiste che ritengo piuttosto giuste e funzionali al nostro stile di vita. Ma sento che una consapevolezza storica, anche dal punto di vista musicale, manchi ed oggi in modo più marcato (nella storia si assiste ad una forma di sintesi o di assemblamento di stili o tecniche, gusti ed altro, mai impoverimenti tranne qualche eccezione).  Molto di ciò che si ascolta torna ad un campo di ibridismo e debolezza linguistica rispetto ai  fondamentali  passi avanti che i grandi compositori hanno compiuto. Su alcuni elementi che compongono il linguaggio musicale, come l’uso della voce e degli strumenti, dello spettro  armonico, si è ridotto  il campo di esplorazione dei parametri in modo considerevole con risultati a volte dubbi se non imbarazzanti. Molte volte alcune isole cageane o climi da Morceaux di Satie ritornano con gusto minimalista, ed attualmente il panorama prevede brani di diversa provenienza che hanno un percorso molto diverso, taluni con uno sguardo a ciò che le esperienze dell’avanguardia hanno lasciato: una possibilità di apertura al molteplice, una esperienza percettiva altra che non si fermava all’oggettività o ad una “finalizzazione” del prodotto musica, con altri passati come “contaminati” o congeneri che quasi sempre è la sola cifra che li contraddistingue. Abbiamo figure come Arvo Pärt che hanno creato una grande rivoluzione nella rideterminazione del linguaggio ma dove in taluni casi trovo un eccessiva riconduzione ad arcaiche modalità e processi superati impiegando strumenti moderni. In altri casi trovo pericolosi clichè che sono tipici della musica contemporanea che fanno sì che molte realizzazioni siano una forma di autoreferenzialità dei contenuti che si allontana da una esperienza aperta e il più possibilmente fruibile (non intendo con ciò incontrare il gusto del pubblico in modo forzato). Il fenomeno potrebbe spiegarsi nella coesistenza, che trovo anche democratica, di vari livelli di fruizione, gusti e stili di musica del vario pubblico, in un tentativo di riunificare ambiti molto lontani fra loro. Personalmente cerco invece di impiegare gli elementi con le tecniche sintetizzate ricercando una poetica che plasma gli stessi abbandonando, o cercando di abbandonare, i clichè della vecchia avanguardia, disquisizione questa già nata con alcune figure da Ligeti, a Rihm e Huber.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
La musica è influenzata da una  peculiarità di spettacolarizzazione che il commercio (ovvero sponsor, e la fiducia degli organizzatori pubblici e privati) ed i principali media oggi richiedono. Ricerca del grande pubblico, visibilità e bellezza delle ambientazioni, ormai anche degli interpreti, in una sorta di vetrina che il largo pubblico mira come già avveniva nei negozi di  Salisburgo ai tempi dei cd e dvd di Karajan, tutto colorato e bellissimo senza dubbio! Abbiamo però un progressivo calo del dato percettivo, della profondità dell’esperienza dell’ascolto, le interpretazioni si sono sollevate ad un livello di grande efficacia tecnica, ma sempre più, stranamente, veloci nei tempi  con la sensazione di una certa fretta di realizzazione. Certamente, in questo panorama vanno fatte le dovute eccezioni, si ascoltano esecuzioni  meravigliose  da grandi orchestre e solisti, e fra le orchestre anche in Italia abbiamo solisti, e compagini di livelli altissimi, penso a Santa Cecilia, La Scala, il Maggio Musicale. Personalmente mi sono trovato a realizzazioni con tempi così stretti che ciò modifica la capacità dell’esecutore che si trova ad una massima concentrazione per ridurre gli imprevisti di un’adeguata preparazione. Potrebbe essere un dato interessante, ma porta anche un certo logoramento! Contrariamente ai molti che sostengono i repertori che vanno sul sicuro perché conosciutissimi,  trovo che il pubblico sia invece molto attento e desideroso di comprendere, di partecipare attivamente alle molte e diversissime cose che gli viene offerto. Anzi, nelle cose nuove, si coglie una vibrazione viva e unica, un clima di aspettativa ed un brivido impagabili.  Alcune mie realizzazioni sono state eseguite in concerti di largo pubblico, oppure prevedevano meditazioni su testi biblici o azioni di teatro musicali o dedicate a gruppi strumentali, danza e voci anche giovanili, oltre ai brani inseriti nei concerti. Il linguaggio non rappresentava in nessun caso ostacolo di comprensione, e bastavano alcuni accorgimenti di ambientazione o tener presente alcuni aspetti della comunicazione quanto a gesto, una piccola presentazione, la  forma, per far mantenere una buona concentrazione. Trovo inspiegabile e incredibilmente tendenzioso e privo di ogni libertà la rara diffusione ed in orari impossibili di ogni genere di spettacolo sia di musica  classica o jazz nei principali media. Non si parla né si documenta nessuna notizia tranne che in orari di confine, mantenendo una forma di sguardo museale ed idea di decadimento ogni fatto o evento legato alla musica che non sia commerciale. Nelle altre nazioni, ogni area della musica, teatro, balletto è visibile e sono creati addirittura film, documentari che seguono la vita di artisti anche giovani finalizzati a dimostrare la collocazione del soggetto nella società attuale e l’interazione con essa. Questo rende molto vitale e avvicina all’artista. Mi rammarico che questo nostro paese invece sia ridondante di canzoni, inserite in ogni dove, a sottolineare ripetitivamente momenti di vita e stereotipati sentimentalismi, diffuse nelle strade e nei negozi, ed in qualsiasi centro di aggregazione in modo continuo e sinceramente esasperante.
 - Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Si parla molto ed in termini drammatici del progressivo disconoscimento della risorsa cultura da parte dei governi, ed in particolare nell’attuale. Il funzionamento di fondazioni con partecipazione statale o regionale potrà essere mantenuto solo con sgravi fiscali importanti per chi sostiene la cultura, con un convinto investimento e monitoraggio sulla produzione e offerta degli enti. La situazione attuale offre una stasi sulla remunerazione degli esecutori ed ancora di più per le commissioni di nuove opere e la partecipazione diretta dei compositori all’esecuzione, un calo e talvolta forme incredibili di “aggiramento” del diritto d’autore.            
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Non ho mai pensato a scindere le cose, credo che ogni percorso o idea segua un iter conseguente e che mantiene un rapporto di equilibrio sullo sviluppo della stessa, in base alle potenzialità del compositore. La ricerca è un assunto che ogni volta potrebbe assumere significati diversi o prevedere finalità diverse. Nella nuova musica spesso è legato a nuove tecniche, o alla musica elettronica, ma io credo che debba mantenersi viva ed in equilibrio con ciò che si vuole esprimere. Forse si dovrebbe ripensare anche a questa caratteristica, e per questo vorrei fornire un esempio a paradosso: si dice che Schönberg sia il più “romantico” dei compositori del ‘900 anche se, agli occhi della critica storica, è l’iniziatore di  un epoca fra le più rivoluzionarie, e lo stesso Schönberg considerava Brahms come un “progressivo”[3] per le esplorazioni in campo armonico contrappuntistico nell’ambito delle sue opere. Da considerare che per tutti i compositori contemporanei di Brahms, come  Mahler, Liszt, Bruckner, Brahms fosse considerato un “accademico” o “reazionario” (a parte il rapporto con Hanslik).  Ricollegandomi alla prima domanda, credo però che non si possa mai prescindere dalla conoscenza di opere o figure di compositori che hanno innegabilmente segnato traguardi nel linguaggio musicale e letterario in genere.
- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio ecc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Nella mia attività didattica scelgo molte composizioni che dimostrano l’impiego dei vari elementi della composizione musicale: le forme, l’organizzazione del ritmo, delle altezze,  gli organici,  in modo progressivo e mirato al bisogno formativo, senza rituali  storicizzazioni  ma nello specifico interesse nel momento della lettura e dell’analisi. Un opportuno percorso che parte da Debussy, Stravinsky, Bartók, Skriabin, la Scuola di Vienna, Shostakovich, Hindemith fino alle avanguardie, crea una prima geografia compositiva con le principali innovazioni negli elementi del linguaggio. Le figure che hanno delineato la Nuova Musica, momento determinante per la liberazione/espansione  definitiva dei mezzi compositivi, sono tutte importanti, da subito abbiamo avuto un punto di (ri)partenza negli anni dei corsi di Darmstadt e dei primi grandi Festival di Nuova Musica come Donaueschingen o nei programmi delle principali radio Europee, un momento che racchiudeva molte figure che da un punto si sono poi orientate in modo diverso formando scuole e tendenze talvolta opposte ma tutte nel segno di un effettivo nuovo comportamento. Per la mia formazione è stato fondamentale e mi ritengo fortunato di avere avuto lezioni e aperti confronti, rapporti, collaborazioni e scambi di opinioni con Ferneyhough. Sciarrino, Berio, Clementi, Stockhausen, Bussotti, Benvenuti, Mayr, Prosperi, Giani Luporini questi ultimi fondamentali per gli anni della mia formazione accademica. Successivamente ho partecipato a interessanti seminari con altre figure legate ai nuovi corsi di  Darmstadt quali Rihm, di nuovo Ferneyhough, Huber, Hosokawa, ed in molte mie lezioni e conferenze/lezioni le figure di riferimento sono perlopiù Ligeti e Berio. In questi ultimi tempi trovo molto interessanti le figure di Gubajdulina, Hosokawa, Tan Dun. Nel segno di questa pluralità di figure che mi hanno dimostrato continue possibilità ed aperture, invito i miei stessi allievi ad avere lo stesso entusiasmo per l’ascolto, l’analisi e la fruizione di seminari e corsi con diversi compositori.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
La mia missione è stata prevalentemente quella di insegnare, e sempre di più mi rendo conto che l’insegnamento debba  essere il più preciso e completo possibile. Non tollero che nella musica ed ancor di più nella composizione ci possa essere approssimazione; il tutto deve rientrare in una sorta di scienza esatta, come in una normale disciplina o materia universitaria, tanto più che nel nostro paese  troppe persone vogliono avere voce in capitolo, o si occupano di musica, o la fanno e organizzano, avendone un idea molto relativa e con scarsa preparazione.
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Diverse tipologie di allievi mi hanno dimostrato che talora l’insegnante deve seguire passo per passo la formazione e talora, in allievi più intuitivi o che riescono a sviluppare una intelligenza musicale in modo veloce, l’insegnante ha il compito di intervenire solo in alcuni punti focali (il contrappunto, l’orchestrazione, o i primi momenti della composizione propria) ma non esiste un percorso del tutto auto-didattico, in quanto richiederebbe una immensa auto- disciplina (esercitazioni, analisi, ascolti, ed altro), una formazione culturale (anche extra-musicale) già acquisita, ed almeno un’esperienza di buon livello con uno strumento, per poter collocarsi o rapportarsi minimamente al momento storico in cui stiamo vivendo.
- Sulle difficoltà nel rapporto fra la cultura (musicale) locale e quella nazionale (e internazionale). Pensi di aver risentito della cultura della zona in cui vivi? Hai avuto influenze dirette o indirette a livello di zone geografico-culturali nazionali? E le esperienze internazionali come le poni?
Sono nato in Argentina, mi sono trasferito a Firenze nel 1966 e, poiché mio padre lavorava come custode al conservatorio, sono andato ad abitare proprio all’interno di questa struttura respirando così l’atmosfera della musica che, alle mie orecchie di bambino, appariva magica e misteriosa, quando sentivo le note di tanti strumenti che si mescolavano nei corridoi. Ricordo che le prove dell’orchestra dell’AIDEM, la domenica mattina, si svolgevano nelle sale del conservatorio, e io, sin da piccolissimo trascorrevo ore ad ascoltare e a osservare incuriosito quella massa di esecutori che, muovendo abilmente le mani sui loro strumenti, producevano i suoni. Crescendo ho avuto l’occasione di venire a contatto ed essere spronato agli studi dalle più grandi personalità del mondo musicale che gravitavano attorno a Firenze. Quelle figure erano Bartolozzi, Veretti, Bacchelli, Bellugi, Bennici, Campanella ed altri. Per la musica contemporanea, le opere  di Giani Luporini e Prosperi erano regolarmente eseguite al Maggio Musicale, poi c’era  l’AIDEM e Radio Rai 3 della Toscana che riservava un notevole spazio alle esecuzioni di musica contemporanea: anch’io, come strumentista di tromba, per il quale ho svolto più di 6 anni in orchestra e in varie formazioni, sono andato molte volte a registrare brani di musica contemporanea per la Radio. I primi esordi erano accolti nel festival GAMO  poi si è sempre più fatta sentire una certa perdita di identità. /.../



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