Difficoltà di fare musica oggi, interviste (parte terza)
Interviste a musicisti, di varia provenienza, che descrivono il loro variegato rapporto con il suono e con la società. Le interviste sono parziali, per vederle nella loro versione integrale leggi Renzo Cresti, Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011.
Girolamo Deraco, Carlo Deri, Federico De Robertis, Manfred Gianpietro, Gaetano Giani Luporini, Stefano Giannotti
Girolamo Deraco
Si è diplomato in composizione con il massimo dei voti, lode e menzione presso l’istituto superiore di studi musicali “Boccherini” di Lucca con Rigacci. Ha frequentato corsi e seminari con grandi maestri internazionali tra cui: Andriessen, Corghi, Bonifacio, Solbiati, De Pablo, Bacalov, Fedele, Liberto, Scannavini e Gooch (Truman State University, Missouri, USA - International exchange student). Finalista e vincitore di numerosi concorsi e di borse di studio tra cui quella in composizione con Corghi all’accademia Chigiana di Siena - 2008 e 2009. Fin da studente il forte senso del teatro lo porta a comporre nuove opere di teatro musicale mentre molteplici sono le collaborazioni e gli stili musicali con le più svariate formazioni; il consenso d’approvazione è unanime. Da ottobre 2009 è compositore in residence dell’Accademia di Montegral di Kuhn. La sua musica è pubblicata da Sconfinarte.
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Credo che oggi più che mai il senso di globalizzazione abbia invaso qualsiasi campo. Personalmente mi piace misurarmi con ogni situazione musicale e cercare ed accettare la sfida della globalizzazione stessa… non mi importa di che genere possa essere il mio prossimo pezzo, mi importa la serenità e la serietà con le quali lo affronto e l’esperienza che ne ricavo.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, border music e musica per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
Meno cultura più ignoranza, più ignoranza meno problemi. Apparentemente…
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Le stesse di sempre, se non hai un “amico” difficilmente riesci a trovare uno “spazio”. Direi: “chi trova un amico trova (forse…) uno spazio”.
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Spesso la ricerca espressiva è associata alla complessità speculativa, ma a volte per comunicare bisogna avere delle grandi “intuizioni” che possono anche presentarsi con il massimo della semplicità e la minima speculazione. Comunque resto del fatto che ognuno si deve esprimere per come si sente.
- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio etc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Il percorso dello studio della composizione è anche un percorso personale di crescita umana ed intellettuale. Credo che ognuno si scopra da se e di conseguenza scopra il suo punto di riferimento. Il primo “maestro” per me è sempre l’allievo.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Si può imparare a scrivere musica e si può imparare a comporre la musica. La scelta dipende dalla maturità dell’allievo nello scegliersi il maestro.
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
Entrambe. L’una implica l’altra. É importante studiare come è importante “dimenticare” tutto ciò che si è studiato.
- Sulle difficoltà nel rapporto fra la cultura (musicale) locale e quella nazionale (e internazionale). Pensi di aver risentito della cultura della zona in cui vivi? Hai avuto influenze dirette o indirette a livello di zone geografico-culturali nazionali? E le esperienze internazionali come le poni?
Un po’ di DNA c’è sicuramente, ma credo che alla fine valga molto l’esperienza che ognuno fa… o cerca.
- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
Per me la musica è una, se è scritta bene vale qualsiasi genere o contaminazione che dirsi voglia.
- Fai uno sguardo auto-critico sulla tua attività recente, come la giudichi?
Presuntuosamente ottima, mi sono divertito molto.
- Progetti
Scrivere tutto quello che posso scrivere e anche quello che non posso.
(Renzo Cresti)
Carlo Deri
Compositore, pianista, didatta, librettista, ha studiato composizione con Carlo Prosperi presso il conservatorio “Cherubini” di Firenze, dove è stato allievo anche di musica corale e direzione di coro e di direzione d’orchestra. Il suo catalogo spazia dalla musica pianistica e da camera per vari organici al repertorio orchestrale e all’opera lirica. Mentre nei pezzi su testi poetici come Due liriche di Pavese, Due liriche di Ungaretti, Italy, (ciclo liederistico su testi di Giovanni Pascoli, in seguito eseguito anche in forma scenica e successivamente realizzato anche in forma sinfonica) la tecnica impiegata è asservita completamente alla dimensione lirica del testo, le composizioni strumentali come la Passacaglia per due flauti (1984) e la Sonata per due flauti e pianoforte (1986) sono invece caratterizzate dall’uso frequente di tecniche contrappuntistiche e impostazioni formali anche molto elaborate, inserite in un linguaggio liberamente non tonale. In Dromos per voce recitante e sette strumenti (1998) viene, al contrario, riscoperto e impiegato il sistema dodecafonico, mentre nei brani pianistici successivi, fra cui gli Improvvisi, i Notturni, la Fantasia, la Burlesca, Incanto, Distanze, In un pigro mattino di marzo, Senza risposta, unitamente ad una dichiarata maggiore libertà formale, è di nuovo riscontrabile la libertà armonica degli inizi. Ha inoltre composto un’opera lirica, Markheim (2008), della quale ha creato anche il libretto, su un soggetto liberamente tratto dall’omonimo racconto di Stevenson. Nel 2010, utilizzando materiali tematici del Markheim, ha composto una Sinfonia in cinque movimenti per orchestra sinfonica con pianoforte concertante e supporto concreto.
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
La prima volta che mi vidi affibbiare l’etichetta di “postmoderno” fu durante le prove della mia Sonata per due flauti e pianoforte, a metà degli anni ottanta, e la cosa non mi dispiacque, ma d’altra parte non mi fece neanche piacere: semplicemente mi lasciò indifferente. Non ho mai amato questo genere di classificazioni, che rischiano di banalizzare, di rendere generico, il complesso e mutevole mondo creativo di un artista. È evidente che già allora il periodo della sperimentazione, quella “dura”, quella che voleva stupire, scuotere il pubblico, si era già avviato a conclusione. Ciò nondimeno non bisogna disconoscere l’alto valore di quegli esperimenti (anche se spesso più sul piano filosofico che su quello strettamente artistico) che comunque hanno avuto il merito di scavare nell'entità stessa del suono e di studiare e inventare nuove tecniche, preparando il terreno a chi è venuto dopo.
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Enormi. Al giorno d’oggi, almeno in Italia, organizzare un concerto, una manifestazione è un’impresa molto ardua. Non c’è paragone con gli anni sessanta, settanta, ottanta. L’impostazione predominante in questi ultimi tempi è che un prodotto, di qualunque genere sia, quindi anche un prodotto artistico, deve reggersi in piedi da solo dal punto di vista economico. Questo fa sì che ciò che non è commerciale (sia nel senso migliore che nel senso più bieco del termine) non abbia alcuna possibilità di vita. Gran parte del pubblico è anestetizzata da messaggi pseudo-culturali fuorvianti. Confonde il successo con la notorietà, ha bisogno di legare l’evento artistico al gossip, ha un senso critico molto affievolito e si fa abbindolare da battage pubblicitari che annunciano improbabili novelli Mozart. Non c’è da stupirsi che nel migliore dei casi (e adesso sto parlando di quella parte del pubblico più colta, quella che – almeno – all’opera o a un concerto, più o meno frequentemente, ci va) si rifugi in opere che come minimo hanno cento anni, e che continui compulsivamente ad ascoltarle e riascoltarle in un ripiegamento su di sé che non ha speranza di evoluzione. Che ci siano trasmissioni radiofoniche molto seguite dalle persone anche di una certa levatura culturale dove il principale motivo d’interesse è il confronto fra le varie interpretazioni dello stesso pezzo, fino a rendere degno di segnalazione il particolare più insignificante – l’entità di un rallentato, o addirittura la durata di una corona! – dà la dimensione dell’abisso.
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
“Indagine compositiva” è una locuzione che mi evoca l’immagine di qualcosa di freddo, di pianificato al tavolino; una dimensione lontana dal mio sentire: l’espressività è ciò che mi guida. La ricerca, secondo me, deve essere funzionale alla comunicazione: la sperimentazione fine a se stessa mi interessa poco; credo che quella stagione della creazione musicale sia fondamentalmente terminata, e continuare a proporla oggi mi un’operazione più che altro – come ho detto altre volte – da “nostalgici”.
- Sulle difficoltà di orientarsi. Quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio ecc.) quali punti di riferimento può avere oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
Agli studi di composizione in genere si accede in età più avanzata rispetto a quello che accade nel campo dell’esecuzione, per cui il principiante, in effetti, qualche problema relativo a quali modelli ispirarsi è facile che se lo ponga. Per quanto mi riguarda devo dire che dopo una fase nella quale ascoltavo con voracità intellettuale tutto quello che mi capitava (e vale la pena di ricordare che negli anni settanta le occasioni di ascoltare musica del proprio tempo erano infinitamente maggiori di adesso: non solo la RAI mandava in onda trasmissioni – sia in televisione, che per radio – di vario tipo inerenti la musica contemporanea, ma si organizzavano concerti e manifestazioni in una quantità che oggi appare impensabile; e dire che allora ci si lamentava perché sembrava troppo poco!), il primo autore che ho veramente ammirato e che mi ha realmente emozionato, che ho ascoltato per il piacere di sentire musica bella e non solo “interessante” è stato Krzysztof Penderecki. Ricordo ancora adesso, a distanza di quasi 40 anni, la viva impressione che mi fece l’ascolto in concerto del suo De natura sonoris. Non avevo mai ascoltato musica sua, anzi non lo conoscevo nemmeno. La scintilla scoppiò improvvisa e fu così che cercai di procurarmi tutti i dischi possibili di questo maestro. Con tutto questo sento però di poter dire che nonostante l’ammirazione che provavo e che provo ancora per lui, non credo di averlo preso a modello. Pensandoci bene non direi di avere eletto a mio personale punto di riferimento la produzione di un qualche autore. Se un punto di riferimento lo ho avuto è stato il mio maestro, Carlo Prosperi, ma solo per quello che riguarda la parte tecnica, il rigore professionale, e per tutto ciò che attiene alla dimensione etica della creazione artistica. Fra le tante cose che ho imparato da lui credo che una delle più importanti sia stato l’atteggiamento all’autocontrollo, per evitare il rischio di cadere nel male dell’autoreferenzialità, vera piaga del mondo culturale (o pseudoculturale) di oggi. A parte qualche preoccupazione iniziale sul “quanto moderna” poteva essere la strada che stavo percorrendo, credo che ciò che mi ha guidato sia stato più che altro un concetto, un’idea (o forse sarebbe meglio dire un “ideale”?): l’espressività. Sì, questo è un problema che ho risolto precocemente, anzi, forse la decisione dell’orientamento che avrei preso nel comporre è stata così rapida e sicura (in un periodo storico nel quale l’avanguardia non dava per niente per scontato che si dovesse essere per forza “espressivi”; si era in un periodo nel quale predominavano i concetti di “assenza di significato”, “alea”, e così via) che nemmeno ho il ricordo di una decisione non dico sofferta, ma nemmeno problematica. Probabilmente perché alla base di tutta la mia azione componistica c’è prima di tutto il bisogno di comunicare. Quindi ad un giovane che abbia intenzione di cominciare a comporre, il consiglio che posso dare è quello di non avere altri punti di riferimento che se stesso, evitando il rischio di inconcludenti imitazioni.
- Sulle difficoltà di insegnare a comporre. Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
Mah, bisogna vedere che cosa significa “insegnare a comporre”. Se si intende di insegnare l’Arte, intesa come il raggiungimento di un prodotto che svisceri i reconditi recessi del proprio animo attraverso un percorso creativo, beh, la risposta è scontata: è un’operazione perduta in partenza, la creatività non si s’insegna… Ma “comporre” vuol dire anche tante altre cose: c’è una enorme parte artigianale della composizione che si deve necessariamente imparare, altrimenti si brancola nel buio. E questo si può e si deve insegnare, eccome!
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
A mio parere questo è un falso problema. Sì, anch’io negli anni di studio ho sentito più volte il peso dei compiti scolastici, delle composizioni “in stile”, che certo erano lontane da quello che avrei voluto fare nell’immediato. Ciò nondimeno sono grato ai miei maestri per l’impostazione rigorosa che ho ricevuto. Che poi tutto quello che mi è stato insegnato l’abbia anche messo in pratica è un altro discorso; anzi molte di queste cose le ho rifiutate, com’è logico, ma le mie scelte sono avvenute al livello consapevole. E la consapevolezza è un tesoro che non ha prezzo. Il “libero percorso auto-didattico” temo che funzioni una volta su un milione. In tutti gli altri casi il principiante finisce per perdere del tempo prezioso. Insomma, è vero che ad ogni generazione l’umanità torna bambina, ma l’esperienza di chi ci ha preceduto (i nostri maestri) è preziosa e ci deve essere d’aiuto.
- Progetti.
Ho in preparazione alcuni progetti legati al teatro, fra cui musiche di scena e lavori cameristici con la voce recitante.
(Renzo Cresti)
Federico De Robertis
Nel 1983 fonda e conduce fino al 1987 il gruppo rock Freddie e i Freddi. Nel 1988 si diploma in pianoforte all’istituto “Mascagni” di Livorno. Dal 1991 al 2000 compone musiche originali per il film Puerto Escondido di Salvatores, musiche originali per il film Sud ancora di Salvatores che vengono premiate con il Nastro d’argento ‘94, il Ciak d’oro ‘94, il Globo d’oro ‘94 e con la candidatura al David di Donatello ’94; inoltre scrive musiche originali per i film S.P.Q.R., Io no spik English e Selvaggi di Vanzina. Quindi scrive le musiche per il film Nirvana di Salvatores premiate con la candidatura al Globo d’oro ‘97 e al David di Donatello ’97. Scrive anche le musiche per la sfilata di Milano di Armani e Missoni. Dal 2000 inizia la collaborazione con Teho Teardo realizzando le musiche originali di Denti di Salvatores. Sempre con Teho Teardo realizza la sonorizzazione del Museo Archeologico Etrusco di Piombino; musiche originali con Teho Teardo del film-documentario Alice è in paradiso su Radio Alice di Guido Chiesa. E ancora compone le musiche originali del film Eccezzziunale veramente – capitolo secondo… me di Vanzina con Abatantuono, a cui fanno seguito le musiche originali del film Italia 2061 – un anno eccezzziunale ancora di Vanzina con Abatantuono. Infine scrive le musiche del film Ti presento un amico di Vanzina e quelle del film Area Paradiso di e con Abatatantuono.
- Rispetto alla tua produzione e alla tua attività compositiva, la prima domanda che nasce spontanea è: come è nato il tuo rapporto con il cinema?
Innanzitutto devo dire che il cinema, fin da bambino, mi ha sempre attratto, il cinema e la musica che sentivo, amplificati dal buio tutto intorno, sono stati la prima, piccola esperienza sinestetica della mia vita. Quindi appena ho avuto la possibilità di misurarmi con una produzione cinematografica mi ci sono buttato a corpo morto. L’occasione era d’oro visto che a propormi di scrivere qualcosa per il suo prossimo film intitolato Puerto Escondido era Gabriele Salvatores, che avevo conosciuto qualche mese prima a Lucca. Gabriele aveva ascoltato già qualcosa delle mie composizioni elettroniche, così, un po’ per scherzo, un po’ sul serio mi chiese di provare a realizzare una musica per i titoli di testa del suo film, la cosa gli piaque e così iniziò una collaborazione durata per tutti gli anni ’90 (Puerto escondido, Sud, Nirvana e Denti i film su cui ho lavorato).
- Rispetto a qualche anno fa come si è evoluta la situazione della musica nel settore cinematografico in quanto a concezione, materiale e tecniche?
Beh direi che l’avvento del digitale, anche a livello audio, ha cambiato molte cose rispetto alla tecnologia analogica: ad esempio la facilità di mettere in sincrono audio e video ha spinto la musica ad avere un legame sempre più stretto, direi quasi ossessivo, con le immagini, con una simbiosi quasi ritmica fra il ritmo del montaggio e quello della colonna sonora, lo stesso fenomeno ha permesso ai compositori i di accedere rapidamente e in maniera sempre più versatile a timbriche che prima erano esclusivo appannaggio delle grandi orchestre che eseguivano nei migliori studi di registrazione, e quindi, altro esempio, la vecchia tecnica di registrare eseguendo la partitura sotto lo schermo su cui passano le immagini per dare un senso di unità , oggi è definitivamente obsoleta.
- Qual è la tua concezione della musica per il cinema? Ossia, ha un ruolo da effettiva protagonista o ha esclusivamente il compito di amplificare l'effetto dell'immagine ed è dunque in funzione di quest'ultima?
Nasco come musicista per immagini, quindi ritengo che la musica sia, almeno nel cinema come lo intendiamo tradizionalmente, al servizio delle immagini, quasi come una voce fuori campo, che emotivamente narra e stimola. C’è chi sostiene che la musica debba avere un ruolo autonomo e certe volte di guida, rispetto alle immagini ma io credo che questo possa essere giusto per altre forme di espressione audiovisiva che non siano il cinema come noi lo conosciamo.
- Credi che sia possibile insegnare a comporre musica per il cinema o che questa sia un’abilità che ha a che vedere con la sensibilità individuale e magari con un libero percorso autodidattico piuttosto che accademico?
Credo che imparare a scrivere musica per il cinema attraverso un percorso didattico, non solo sia possibile ma anche necessario, perchè anche il miglior talento ha più facilità ad esprimersi se adeguatamente stimolato da un metodo che magari un giorno deciderà di lasciarsi alle spalle per spingersi verso direzioni nuove ed inesplorate, ma che farà sempre parte del suo bagaglio culturale. E questo per me vale un po’ per tutte le attività umane.
- Quali sono stati i tuoi maestri e i tuoi modelli?
Sono stato piuttosto fortunato: a partire dal fatto di avere un nonno in casa che era stato nei primi del ‘900 clarinettista nella banda musicale di Castellana Grotte, fu lui, quando avevo 5 anni ad insegnarmi a leggere le prime note sul pentagramma, poi ho avuto un babbo cultore della musica classica: ne ho ascoltata così tanta da piccolo, che molto di quello che scrivo oggi probabilmente è un po’ di quella musica che ritorna fuori; un maestro, Francesco Cipriano che mi ha trasmesso l’amore verso la musica eseguita (e sempre finemente analizzata e appassionatamente interpretata!), poi Gabriele Salvatores, che è anche un chitarrista, mi ha spiegato tante cose e svelato tanti segreti ed accorgimenti nel campo del rapporto magico fra suoni ed immagini, e dopo di lui Carlo Vanzina da cui ho imparato altre cose, ugualmente importanti.
- Cosa consiglieresti ad un giovane intenzionato ad avvicinarsi a questo mondo?
Gli consiglierei di farsi un giro a Berkeley in California o a Manchester al College of Music e cercare di entrare in uno di questi istituti che fra l’altro hanno il pregio di non essere in Italia, paese dove da tempo l’insegnamento accademico e da sempre quello musicale non hanno valore e riconoscimento.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock, pop, cinematografica ecc.) oggi? Credi che i generi musicali vadano rispettati oppure decisamente superati?
Credo che la divisione in generi musicali sia uno dei tanti tentativi fatti dagli incompetenti per cercare di dare ordine nella loro testa a qualcosa che fondamentalmente non capiscono. Oltre ad avere questo scopo i generi musicali possono essere scelti dai poveri di spirito (e sono molti) come una casacca, una bandiera da sventolare, illudendosi così di creare per sé un identità attraverso la scelta di un genere musicale ed il rifiuto di altri, un po’ come i tifosi allo stadio o i fondamentalisti religiosi. Credo che ci siano solo due generi: la musica buona (1%) e quella cattiva (il restante 99%), io, come autore e come disc selecter cerco di occuparmi solo della prima categoria.
- E qual è, in base alla tua esperienza, l’anello di congiunzione tra un modo di comporre tradizionale e l’uso delle nuove tecnologie? Vanno queste a favore (cioè possono integrarsi e aggiungere qualcosa) o a discapito del linguaggio tradizionale?
Non so se il mio modo di lavorare rappresenti l’anello di congiunzione, ma io cerco sempre di portarmi con me le vecchie cose che funzionano, abbandonando quelle che non funzionano più e sperimentando quelle ancora inedite; ad esempio, pur lavorando con computer, campionatori e sintetizzatori unisco sempre queste timbriche a quelle dei musicisti tradizionali, siano essi solisti e o sezioni di orchestra e il risultato è interessante: dritto, quadrato come solo la musica elettronica può fare, ed insieme caldo, vero come solo il suono prodotto da noi umani sa essere.
- Che rapporto hai con il territorio in cui vivi? Ti offre sufficienti spazi espressivi?
Lucca… qui da quarantotto anni… nessun segnale pervenuto! A parte CLUSTER, una meritoria associazione di musicisti che non ricevendo nessun segnale dal territorio ha deciso, almeno lei, di esprimersi autonomamente!
- Progetti futuri?
Ho appena finito la stesura del prossimo film di Vanzina intitolato Ti presento un amico e di un documentario 1960 di Salvatores che è stato proiettato alla mostra del cinema di Venezia, in questo momento sto lavorando alla stesura delle musiche originali di Area Paradiso opera prima, in veste di regista di Abatantuono. In autunno mi dedicherò alla composizione di una soundtrack per il film Mysteria di Kuert, una produzione indipendente Usa/Svizzera, con attore protagonista Martin Landau, premio Oscar, nonché indimenticato protagonista della serie TV 1999: Spazio, ultima frontiera.
(Beatrice Venezi)
Manfred Giampietro
Si è diplomato in clarinetto nel 2001, perfezionandosi in seguito con Leister, Riccucci e Pay. Ha studiato direzione d’orchestra con Bellugi e Gelmetti; è ora allievo di Nicotra alla Musin Society di Perugia. Cofondatore dell’Orchestra Giovanile Universitaria di Pisa, ne è dal 2009 il direttore. Laureatosi a Pisa sulle musiche per film di Marianelli, è dottorando del III anno in storia delle arti visive e dello spettacolo ed è iscritto all’VIII anno della classe di composizione dell’istituto “Boccherini” di Lucca. È intervenuto con una relazione al Convegno pucciniano del 2008 sulle Grandi voci del film-opera ed alla Scuola normale superiore su Lampedusa e Visconti. Ha pubblicato saggi, in un volume collettivo, su Herrmann, in «Rifrazioni» su Kubrick e Nolan e ne «Il Ponte» sul musical Nine. Per il regista Giusiani ha scritto le musiche de L’ultimo nastro di Krapp (2008), L’uomo dei suoni (2009, I premio FEDIC) e La notte dei due innamorati (esposto nello Short film corner di Cannes 2010). Sue anche le musiche del dvd della Normale di Pisa Memoria del futuro. É stato selezionato da Bacalov per il corso chigiano 2010 di composizione per il cinema.
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cosa te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
La difficoltà a cui ci si riferisce nella domanda è purtroppo evidente, specialmente se essa punta alla cosiddetta "area colta", che, dopo la ristrutturazione culturale della nostra epoca, innervata da vere e proprie conflagrazioni mediatiche, praticamente non esercita più peso, né influenza sulla società. La figura del compositore solitario è morta, in realtà, soprattutto al giro del secolo breve. Se Stravinskij poteva ancora comparire su «Time», oggi la percezione del “compositore-superstar” si limita alla riconoscibilità mediatica, per lo più, degli autori di musica per film. Schoenberg, la Scuola di Vienna, Darmstadt e tutto quello che ne è venuto, hanno trovato spazio nelle storie della musica per doveroso impegno degli storici e dei musicologi, senza rilevante influenza sulla ricezione dell’immaginario di massa. Ed intanto, le realtà musicali che costruttivamente si sono confrontate con il mercato – va aggiunto, senza snobisticamente trascurarne l’esistenza – e cioè il jazz, la popular music, ecc., hanno gradualmente colmato il vuoto pneumatico lasciato da quel fare musicale che, configurato attraverso certe dinamiche creative e fruitive, viene comunemente etichettato come classico. L'impasse provocata da tale meccanismo di riflusso ha fatto sì che quella specifica modalità di pensare, di intendere e concepire la musica sia considerata titolare solo di uno statuto di malato terminale, che ancora non si può definire metaforicamente cadavere solamente in virtù delle lodevoli eccezioni che sono emerse nella parte conclusiva di quella storia. Visto dall’ottica del mercato musicale, lo stratagemma delle sovvenzioni culturali emana talora - del resto – persino l’odore necrofilo ed ipocrita dell’assistenzialismo, pratica ben diversa da una politica del bene culturale pubblico quale deve essere considerata la prassi creativa anche musicale. Nel campo della musica cosiddetta d'arte, la fausse conscience pubblico-privata continua a tollerare una zona di sperimentazione assoluta di cui a nessuno importa nulla, e dalla quale, per ironica e avvilente conseguenza, è alla fine difficile che scaturisca qualcosa di candidato a diventare classico, visto che la classica, artistico/artigianale molla del ben fare per il mercato, anche solo a restare entro la sua mera logica, - è praticamente assente. Tragicomica concessione all’artista, basterà l’indifferenza di un pubblico dai tratti mondanamente festivalieri che applaude acriticamente, sbirciando magari in sala i volti dei critici “competenti”. Peraltro, molti compositori privi di talento possono così continuare ad indossare la maschera, salvi dalla verifica dei controlli socioculturali di quel sistema produttivo speciale che è pur sempre il mercato di ogni arte, insomma, senza sporcarsi le mani e utilizzarne i bisogni e i riferimenti culturali con cui confrontare la propria volontà espressiva: come – non lo si dimentichi - tutti i grandi del passato hanno sempre fatto. Le convenzioni-costrizioni esterne sono sempre esistite, e non hanno mai fatto male all’arte: piuttosto, ne hanno sempre stimolato la reazione costruttivo-dialettica. Ciò equivale banalmente, oggi, a dire che il re è nudo: ma nel mondo delle accademie, dei conservatori e più in generale delle istituzioni culturali, è raro trovare chi lo urla a squarciagola; al massimo lo si sussurra nei corridoi. Dopo tali considerazioni, mi pare di poter dire che definizioni come nuova semplicità e simili paiono alquanto fantasmatiche, e piuttosto inconsistenti: la nuova semplicità era già stata raggiunta dal jazz prima che se la inventassero i compositori contemporanei o gli osservatori attuali; la postmodernità era immanente nei relativismi molteplici della modernità; ci si è resi solo conto, che una estetica segue sempre il quadro di riferimenti culturali che lo sottende, così come il sistema tonale, nel suo plesso convenzionale di formule e soluzioni espressive, era figlio di una precisa epoca storica e di una ben definita società. Il punto fondamentale sta piuttosto nel rigettare il monopolio di un approccio storicistico che ancora, ostinatamente ed ottusamente, ci riserviamo di lasciar egemonizzare i luoghi di studio, con il suo pedissequo percorso teleologicamente, e deterministicamente segnato: la morte dell’arte è allora una morte annunciata. L’immobilismo delle istituzioni, per altro verso, frustra le giovani generazioni, che si allontanano così dalla tradizione classica per inseguire chimere più seducenti. Chi può negare che il sistema tonale, dichiarato morto, è rifiorito, vigoroso ed incrollabile, accanto a tutte le altre possibilità espressive contigue? Il concettualismo assoluto della notazione a danno della fisiologica percettività musicale ha lasciato comodo spazio al pragmatismo del rock. Se la musica è oggi, come tutte le altre forme d’arte, in inevitabile contatto col dato tecnologico, nei conservatori italiani per lo più la cosa viene bellamente ignorata. L’emancipazione di processi creativi autosufficienti, slegati dalla loro specifica espressività contingente, pragmaticamente individuabile e riconoscibile, ha lasciato spazio al ritorno della melodia. Il concetto di elaborazione del materiale è oggi solo una possibile corsia parallela alla tautologica presenzializzazione dell’inventio, senza presupporre implicitamente così una distinzione nel giudizio di valore. Insomma, l’intero apparato ideologico delle paravanguardie è franato in una rovinosa disfatta. É per questo che parlare di difficoltà del comporre è in un certo senso privo di fondamento. Oggi si compone tanto e bene: bisogna semplicemente saper cercare, ed avere la pazienza di separare biblicamente il grano dalla pula.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
La cosiddetta musica d’arte, etichetta dalla quale continuo a farmi sconcertare, dato che considero passibile dell’aggettivo “artistico” ogni forma di manifestazione espressiva (compresi il jazz, il rock, il pop e la musica per film) non sta, a mio parere, producendo molto di particolarmente significativo. Purtroppo non ascolto il pop con sufficiente continuità, nè il jazz con autentica cognizione di causa: quindi esito nel dare giudizi. Continuo a trovare spunti di valore ed interesse nel progressive modernamente inteso, soprattutto quando collabora attivamente con l’elettronica. Nell’area della musica per film, mi è piaciuto - da ultimo - l’Alexandre Desplat di The Ghost Writer (Roman Polanski, 2010).
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Il livello dell’organizzazione musicale in Italia è basso perché le istituzioni non v’immettono fondi, né delineano una prospettiva culturale di qualsiasi sorta: il risultato è lasciato alle approssimazioni contingenti. Finché la classe dirigente, riflesso – temo, ormai – anche della mediocre sensibilità culturale del paese, continuerà su questi vicoli ciechi, non c'è possibilità che le cose cambino: dovremo sperare, come per i disciplinari di prodotto o le rotatorie, che le direttive europee obblighino ad un’inversione forzata di rotta? Sarebbe simpatico veder pagare dall’Italia di Pergolesi e del melodramma una penale musicale!
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
L’indagine sperimentale comporta l’acquisizione di nuovi potenziali mezzi; ma essi, in sé, non determinano la sussistenza del bello, che è sempre qualcosa di legato all’idea che informa gli strumenti del comunicare (per dirla con il vecchio MacLuhan), anticipandone la prospettiva funzionale. L’artista non è uno scienziato: a queste due figure spettano compiti diversi, nonostante tutte le interazioni musiliane che tra di esse possono venirsi a creare. La ricerca che approda a qualcosa non reca acquisizioni alla storia dell’arte, ma alla storia della scienza e della ricerca. Il problema della comunicazione è stato un problema specificamente riferibile all’area cosiddetta colta, nel quale si è prodotto uno strappo radicale tra compositore e pubblico, uno strappo dovuto alla miopia ideologica del mancato confronto dialettico con la realtà. Altri contesti artistici, come il jazz o il rock o la musica cinematografica, non hanno mai avuto problemi di comunicazione in quella particolare declinazione, e del resto l’approccio ombelicale ai formalismi vuoti della notazione e dei neosofismi modaioli persevera a tutt’oggi nelle micro-nicchie di mercato, che rappresentano anch’esse una sirena di richiamo per i bamboleggiamenti della finta legittimazione culturale. Il geniale orinatoio di Duchamp e la merda d’artista hanno asservito ed esaurito il loro scopo da un’infinità di tempo, ma a molti fa comodo non accorgersene. In questo il pensiero adorniano rimane, pur con tutti i suoi limiti anche qui ideologici, pervicacemente attuale, nella sua lezione di parafrastica dialettica di ribaltamenti. /.../
- Sulle difficoltà del rapporto fra studio e libertà. Secondo te vale più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero percorso auto-didattico?
L’autodidattica non è necessariamente dilettantesca e non-rigorosa, come non è detto che un percorso scolastico sia privo di falle anche colossali. Anzi, probabilmente oggi è vero proprio il contrario; la scuola, le università, i conservatori sono stati sconfitti nella lotta impari con la pervasività lutulenta ed ipertrofica della televisione. La Rete rappresenta, forse, la vera radicale alternativa all’omologazione delle coscienze, mentre la libertà, anche quella di creare, ha spesso bisogno della propria negazione per rafforzarsi e sussistere. Lo studio è semplicemente la modalità con la quale si acquisiscono informazioni, con le quali il nostro cervello interagisce, anche solo per rigettarle in toto. Studiare molto significa assorbire un numero maggiore di riferimenti con i quali relazionarsi: più elevato è questo numero, più il compositore si trova a tastare un terreno sul quale si sente sicuro, - e magari dissestarlo con maggior vigore. Meno territorio si è attraversato, più si rischia di dire il già detto. Ovviamente questo non significa che l’arte funzioni come se l’uso di una modalità espressiva inusitata aderisse ogni volta e conseguentemente ad un nuovo oggetto d'arte. É la vecchia dimensione del bello – uso consapevolmente logore e pericolose categorie - viene attraversata da una nuova sonorità; ed è solo l’idea che la sottende ad essere davvero innovativa, non l’esteriorizzazione di una trovata contingente, la quale farebbe sembrare l’arte, metaforicamente parlando, come una continua espansione del proprio giardino ai danni del vicino, ed inoltre presupponendo il rigetto aproblematico delle conquiste precedenti: a voler perseverare nell’immagine, l’arte nuova come necessaria distruzione della parte del giardino già coltivata. Una tale miope forma mentis eviterebbe di affrontare il vero problema dell'espressione soggettiva, che è il progresso - nel senso di rinnovata acquisizione – dell’idea, non della emancipazione del mezzo, che di per sè nulla significa.
- Sulle difficoltà nel rapporto fra la cultura (musicale) locale e quella nazionale (e internazionale). Pensi di aver risentito della cultura della zona in cui vivi? Hai avuto influenze dirette o indirette a livello di zone geografico-culturali nazionali? E le esperienze internazionali come le poni?
Parlare di cultura locale, nazionale ed internazionale oggi ha poco senso, in un mondo dominato dalla fitta ragnatela dei mezzi di comunicazione, siano essi più o meno interattivi. Il processo di ibridazione generale che attraversa le arti è ormai ad un livello così avanzato che risulta impossibile regolarsi con coordinate culturali di natura anche solo molto indirettamente pseudogeografica. Oggi è l’intero villaggio globale ad agire sulla nostra ricezione propriocettiva. Certo, sussistono ancora, come sempre, i poteri e gli imperi che ne sono fattualmente detentori; esistono ancora le macro-ideologie latenti. Eppure il web sembra poter mettere in discussione persino la configurazione sociale tradizionalmente più radicata. Internet è l’antidoto finora quasi perfetto al provincialismo e all’incoscienza massificata dei neobarbarismi. Finché dura….
- Sulle difficoltà delle contaminazioni. I cosiddetti generi musicali vanno (in parte) rispettati oppure (del tutto) superati?
La contaminazione è sempre esistita nell’arte; erano i livelli di accessibilità alle realtà culturali ad essere inferiori. Oggi, grazie alla esplosione della dimensione comunicazione, ci troviamo nella condizione opposta: l’accessibilità è totale, ma la contaminazione assoluta impedisce una prospettiva unitaria. Ciò costituisce allo stesso tempo però un vantaggio: la possibilità, cioè, di giudicare la musica per il suo valore, e non per la sua discendenza genetica da una cultura alta o bassa, nella presente condizione di liminalità permanente. Come diceva Stravinskij, bisogna ascoltare con le proprie orecchie - e finalmente, ora abbiamo davvero la possibilità di farlo, al di là di quello che ci raccontano i manuali di storia della musica di vecchio conio. Anzi: i futuri manuali dovranno accettare la rinnovata sfida della scelta, dell’esclusione e dell’inclusione, a cavallo dei generi e delle aree di riferimento. Oggi un vero musicologo non può conoscere solo la tradizione colta occidentale; si deve superare l’ottica dannosa degli iperspecialismi per orientarsi nella direzione neoumanistica di un rinascimento attualizzato, postmoderno. Questa è la vera grande lezione che il passato, ammonendoci, ci consegna.
- Fai uno sguardo auto-critico sulla tua attività recente, come la giudichi?
I film per cui ho scritto le musiche hanno ottenuto buoni risultati, per cui ritengo che si possano definire dei lavori soddisfacenti. Recentemente ho scritto una canzone pop in cui credo molto, anche se non ho ancora trovato una voce in grado di darle vita.
- Progetti
La musica elettronica continua ad interessarmi prevalentemente, perché ritengo sia un campo nel quale la tecnologia stia fornendo strumenti nuovi ed interessanti (elevata qualità dei campionamenti, elaborazione in tempo reale, software di calcolo algoritmico di relativamente facile accessibilità, ecc.). L’interazione col cinema rimane prioritaria, ma ho ricevuto, recentemente, stimoli interessanti sul fronte del teatro; anche preparare un’installazione, mi divertirebbe molto. La direzione d’orchestra, infine, è l’attività, pur faticosa, che mi consente un rapporto con i classici il meno acritico e retorico possibile.
(Renzo Cresti)
Gaetano Giani Luporini
Compositore, pittore e poeta lucchese. Dopo aver studiato il violino nella sua città con Olinto Barbetti, si diploma in composizione presso il conservatorio “Cherubini” di Firenze con Roberto Lupi. Quest’ultimo non è stato per Luporini solamente un maestro di musica, ma un vero e proprio maestro spirituale e di vita, iniziandolo, tra l’altro, allo studio e all’esperienza antroposofica di Rudolf Steiner. Luporini ha al suo attivo musica da camera, sinfonica e corale. Nel 1968 ottiene la cattedra di armonia e contrappunto al conservatorio di Firenze; si dedica quindi all’attività didattica, scrivendo saggi e tenendo conferenze sull’evoluzione della scrittura e del linguaggio musicale. Dal 1986 al 2003 è direttore dell’istituto “Boccherini” di Lucca. Parallelamente a quella di compositore, svolge anche un’intensa attività pittorica, con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Nota solo agli amici è invece la sua attività poetica. Fra le sue opere di maggior rilievo ricordiamo I misteri corali (1968), Spazi notturni (1969), Dieci epigrammi (1972), Dialoghi del Verbo (1971), Aure poema per voci soliste (1976), il balletto Galgenlieder (1978), Fogli d'album per pianoforte (1984), Sonatina magnetica e Sonatina magica entrambe per flauto e pianoforte (1986) e l’opera il Sosia (1980), tratta da Dostoievskij, su testo di Orselli. Grande è il suo amore per il teatro, che lo ha portato ad una fruttuosa collaborazione con Carmelo Bene per gli spettacoli Majakowskij e Pinocchio (1981), Hölderlin-Leopardi (1983) e Adelchi(1984).
- Maestro, lei ha volto il proprio interesse verso tutte le forme d’arte: musica, pittura e poesia, ma anche danza e teatro in un certo senso, data la sua ampia produzione di musiche di scena. Se e in che modo le varie espressioni artistiche si sono influenzate tra loro all’interno della sua produzione? Mi parlerebbe della plasticità della sua musica e del gesto insito in essa?
L’operare nelle diverse arti è per me come scaricare un impulso interiore e istintivo che, a livello cosciente, non riesco a spiegare; quando compongo musica, non penso a immagini spaziali, e quando pitturo è assente la temporalità musicale. In questa ultima fase creativa, la poesia ha per me un ruolo importante in quanto, virtualmente, riassume e sintetizza l’elemento musicale e pittorico immaginale e in più, essa introduce il concetto, per cui la considero come il sigillo di una “trinità” conclusa. Per quanto riguarda la plasticità della mia musica è forse il fatto di aver assorbito, fin dall’infanzia, la “musicalità” della mia famiglia: mia madre pianista, mio nonno insigne operista, dal quale ho ereditato il senso della teatralità, confacente alla mia sensibilità gestuale.
- Come vede le nuove forme d’arte che coniugano più linguaggi come le installazioni, il tecnoteatro, la danza interattiva e altro? E cosa ne pensa dell’uso delle nuove tecnologie applicate?
Le nuove forme d’arte sono il prodotto dello scientismo tecnologico di questo tempo. Certo, se sono manipolate da un talento creativo possono assurgere a interessanti esperimenti, però la sfida tra l’uomo e la macchina, deve, a mio parere, non estromettere l’elemento umano. La moda intellettuale che coniuga più linguaggi è tipica di questo periodo, ma essi spesso sono “pateracchi” di scarso interesse, per spazzatura televisiva.
- Come è cambiato il panorama musicale rispetto a qualche anno fa? Sente di poter individuare delle coordinate culturali e delle correnti ben precise? E cosa ne pensa delle ultime generazioni di compositori?
Il panorama italiano della musica colta, o meglio, musica d’arte, è tristemente mutato; una quiescenza quasi totale l’ha invaso. Le cause sono molte, tra le quali la mancanza di una educazione musicale fin dalla più tenera infanzia; l’enorme importanza che si dà allo sport; il materialismo che avanza con l’ignorante arroganza dei politici; l’idolatria dei giovani per le infernali discoteche, e via dicendo. Poi la ciliegina avvelenata sulla torta, cioè il taglio economico alla cultura (e pensare che in Germania il governo non ha tolto neanche un euro alla cultura). Non posso riferire sul talento dei giovani compositori, poiché, innanzi tutto, non ho un quadro di riferimento preciso e aggiornato. Mi sembra però che alcuni talenti dell’ultima “avanguardia” (oggi, parola senza senso), si siano convertiti al “nuovo diatonismo”, con assaggi di Ravel e di memorie mescolate con il rock, per comunicare più largamente con il pubblico e per comporre redditizie colonne sonore.
- Elemento spesso presente nelle produzioni degli ultimi anni è la contaminazione tra generi: cosa ne pensa? Bisogna superare definitivamente la divisione tra generi o (almeno in parte) preservarla?
La “contaminazione” è parola medica. Infatti la musica si è ammalata, perdendo la gerarchia della sua spiritualità. Oggi si parla di grande musica riferita a quella dei cantautori (che Dio li perdoni) o a quella del festival di San Remo! La musica colta è incomprensibile, vecchia e noiosa adatta per gli anziani: la maggior parte dei giovani la liquida così. Vogliamo, invece, ripristinare la gerarchia attraverso l’educazione?!
- Dalla sua produzione si evince un chiaro distacco dalla visione asettica dell’arte per tornare ad un’arte che sia portatrice di un contenuto e non solo esibizione di bravura formale od estetica, che sia comunicazione. Dunque le chiedo: dove finisce la ricerca tecnica e sperimentale e dove comincia invece la comunicazione? Qual’è il limite da non superare per non sfociare in pura tecnocrazia, ma, anzi, per potersi dedicare all'espressione di un contenuto (elemento troppo spesso dimenticato dalle avanguardie)? Quando invece è proprio la ricerca tecnica a consentire e rendere possibile l’espressione del contenuto?
Il contenuto e forma dell’arte mi ricordano le diatribe filosofiche crociane molto in voga nella mia gioventù. Non voglio, ora, filosofeggiare, ma penso che qualsiasi contenuto, sociale, morale ecc.; per trasfondersi in arte debba “trovare” la sua forma estetica in modo che contenuto e forma siano una cosa sola. Insomma l’arte non è un manifesto, ma il manifesto può diventare arte. Come compositore d’avanguardia ho sempre cercato di comunicare con il pubblico. Tutto sta nel dosare certe proporzioni espressive, schivando la retorica o l’astrazione mentale. Il vitalismo poi, è un elemento importante della mia creatività, e il pubblico lo percepisce, poiché ho avuto sempre il consenso degli ascoltatori.
- I suoi lavori si esprimono sempre in un linguaggio denso di misticismo, di spiritualità e di volontà comunicativa, lontano da qualsiasi ideologia politica o opera di denuncia sociale, un linguaggi o molto personale e immaginifico, difficile da inquadrare in una corrente definita. Tuttavia le chiedo: se e in che modo l'ambiente fiorentino in cui si è formato e con cui ha collaborato ha influenzato la sua attività artistica? E che rapporto ha con il territorio in cui vive?
Posso dire che la mia attività artistica musicale è sbocciata a Firenze nel 1956. Il mio maestro, Roberto Lupi, grande musicista e uomo di profonde intuizioni, un giorno a fine lezione al conservatorio di Firenze, mi fermò in classe, mentre i miei compagni uscivano. Il maestro mi guardò profondamente e mi disse: «Tu hai una interiorità spirituale e vorrei introdurti alla Scienza dello Spirito, all’Antroposofia». Così, la coscienza Antroposofica ha molto influito sulla mia attività artistica e umana, svelandomi tanti misteri che stanno dietro il velo dell’esistenza. Il mio rapporto con il territorio in cui oggi vivo è caratterizzato da un interiore legame con i grandi musicisti lucchesi, e in modo particolare a Luigi Boccherini, al quale ho dedicato due “falsi storici”: un quintetto e un quartetto per archi. Credo di avere inconsciamente assorbito la magia della mia terra musicale, poiché sento scorrere nelle mie vene il canto eterno della sua bellezza.
- Cosa può consigliare ad un giovane interessato a intraprendere lo studio della composizione? Vale di più il rigore di un percorso formativo accademico o l'apertura di un percorso autodidattico?
É difficile, oggi, consigliare a un giovane lo studio della composizione poiché i giovani, in genere, vogliono “tutto e subito”. Questo è il primo punto da chiarire, e dipende, ovviamente, dalle direzioni che il giovane vuole intraprendere. Il percorso accademico tradizionale può anche offuscare la sensibilità creativa del discente; molto dipende dall’intuizione dell’insegnante che, in tal caso, deve adottare un insegnamento individualizzato. Anche il corso autodidattico può essere valido se esperito seriamente attraverso lo studio diretto sugli e partiture dei grandi maestri; certo, la vicinanza di un insegnante, può facilitare l’apprensione della materia.
- È veramente possibile insegnare a comporre o si può soltanto stimolare una certa predisposizione interiore dell'individuo?
Nella mia lunga esperienza didattica ho avuto alunni e alunne che sembravano non aver doti compositive; ebbene, ho cercato di stimolarli nei modi più svariati e, col tempo, ho ottenuto ottimi risultati, in quanto essi sono diventati compositori, alcuni premiati anche in concorsi importanti.
- Prossimi progetti?
La pubblicazione dei miei testi poetici e musicali, e forse la ripresa della pittura.
(Beatrice Venezi)
Stefano Giannotti
Compositore, performer e film-maker. Il suo repertorio spazia dalla radio sperimentale al teatro musicale, dalla canzone d’autore alla musica da camera, dalla video-arte alle partiture orchestrali. Il paesaggio, la memoria, i linguaggi e la gente, sono alcuni dei temi ricorrenti nel suo lavoro. Ha vinto numerosi premi internazionali fra cui: 1991 – Prix Macrophon ’91 (Polonia), 1994 – Prix Ars Acustica International, 1998 - DAAD Berliner Kuenstlerprogramm, 2002 and 2007: Karl-Sczuka-Preis (Germania), 2008 - Katherine Knight Award (U.S.A.) e due nomination al Prix Italia (2004 e 2009). Dal 1996 produce per le emittenti radiofoniche di stato tedesche (Deutschlandradio, SWR, WDR ecc.).
- Sulle difficoltà del comporre oggi. Si parla in genere di postmoderno, ma s’è parlato anche di nuova semplicità e, in Italia, di neo romanticismo, cose te ne pare di queste nuove coordinate culturali?
Mi sento totalmente fuori da queste definizioni. In un certo senso non credo di riuscire a riconoscere queste definizioni come particolarmente decisive per le sorti dell’homo-sapiens in termini artistici. Comporre non è difficile, basta aver qualcosa da dire. Mi ha colpito Alvin Curran, una sera, dopo un suo concerto, sono stato a trovarlo nel camerino con i miei allievi di composizione; ho detto a lui, «questi sono i futuri compositori», lui ha risposto, «perché futuri? Sono già compositori». Certo, oggi alcuni compositori si riconoscono in correnti, si raggruppano, creano scuole; forse è una cosa importante, non saprei, ma è anche una trappola, perché gli artisti cercano il gruppo per avere conferme sul proprio lavoro, ma allo stesso tempo si creano prigioni, catene da cui è molto difficile liberarsi.
- Come vedi la situazione della musica (d’arte, jazz, rock e pop, per il cinema)? Anche in relazione a qualche anno fa.
La vedo migliorata e peggiorata allo stesso tempo. Migliorata è la tolleranza da parte delle scuole rispetto ai linguaggi popolari (rock, jazz, ecc.), dall’altra questa tolleranza ha creato anche una serie di paesaggi di una superficialità devastante, almeno in Italia; esempi come Allevi, Cacciapaglia e Einaudi, nonché il Battiato delle opere liriche (ma anche dei recenti film) creano un grande malinteso e deresponsabilizzano il pubblico. L’arte oggi, qualsiasi disciplina, forma o genere scegliamo, dovrebbe, o meglio, potrebbe rappresentare il quotidiano attraverso una serie di metafore, ma siccome molta arte contemporanea è scomoda perché difficile, allora si creano prodotti ad hoc, al tavolino, pieni di zucchero, utilizziamo i media più forti per costruire campagne di assalto, ed alla fine la gente che vuole apparire colta ascolta solo questi prodotti, che diventano anche il segno distintivo di uno status sociale (cioè “io sono più cool perchè ascolto roba diversa”). Intravedo in questa serie di atteggiamenti (in Italia) la tipica tendenza alla contrapposizione eccessiva che devasta le politiche culturali; l’antidoto al troppo intellettuale è la banalità più trita; c’è il sacro, c’è il profano; poi c’è il sacro a buon mercato, che dovrebbe mettere d’accordo tutti. Manca l’anello più importante, la diffusione di un’arte pura che se se la ride delle convenzioni, che è pericolosa perché potrebbe esplodere da un momento all’altro, per questa ragione c’è interesse a tenerla nell’ombra.
- Sulle difficoltà dell’organizzare. A livello organizzativo (politico ed economico) quali sono le difficoltà?
Le difficoltà sono enormi. Direi che la prima è l’ignoranza. I soldi sono la seconda, ma la prima rimane l’ignoranza, a tutti i livelli. Del resto vent’anni di martello mirato non possono non aver fatto danni. Poche domande: come convincere gli organizzatori che alla gente piacerebbe il contemporaneo, se ci fosse la pazienza di educarla ad esso? E che ciò produrrebbe soldi? Perchè in Germania e nei paesi civili in genere si investe una grossa parte nell’educazione al contemporaneo, così, a fondo perduto, sapendo che questi semi germoglieranno in futuro (e non tutto e subito)? La risposta credo che stia nella volontà di creare una società di zombie che abbiano in testa solo il comprare. Lo sviluppo tecnologico di per sé è una cosa buona, ma come sempre succede, i potenti la usano per creare maggior potere; i potenti sono i produttori di tecnologia, le banche, insomma gli interessi più forti della politica. In un tale quadro organizzare diventa difficilissimo; anche nel campo dell’arte pura, i nuovi organizzatori (i giovani) crescono con una mentalità tecnologica e televisiva, i vecchi invece non ne hanno più voglia perché giustamente sono stanchi di combattere. I fondi sono decimati...
- Sulle difficoltà del rapporto fra comunicazione e ricerca. Come ti situi nel fondamentale rapporto fra l’indagine compositiva e l’espressione?
Personalmente ho la fortuna di lavorare ai margini della mia disciplina, cioè di cominciare ad operare dal punto in cui musica, letteratura e teatro finiscono, ovvero nella radio sperimentale; pochi sanno che la radio sperimentale è una disciplina, la composizione radiofonica in genere è una disciplina al pari del cinema, questo ambito mi permette di far ricerca ed allo stesso tempo di non fossilizzarmi su pratiche forzatamente elitarie; è una contraddizione, perché in effetti anche la radio sperimentale nella maggior parte dei casi è estremamente elitaria, ma qui entra in gioco il singolo artista, la propria poetica, il come porsi di fronte all’arte, ecc. Il mio lavoro parla di quotidianità; ovvero di ciò in cui ognuno di noi si rappresenta, perché la quotidianità ci appartiene. Ma il quotidiano che vado a rappresentare viene tolto dal suo contesto e posto in relazione con altri elementi; in altre parole viene spostato su di un piano di astrazione, che lo rende molto spesso buffo, ironico, graffiante; ecco dunque che la ricerca produce risultati alla portata della gente. I miei lavori non sono di facile fruizione, ma contengono chiavi adatte a tutti. /.../