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Manifesto musica '94

Da Uscire dal Novecento, in "Manifesto musica ’94", a cura di Renzo Cresti, Carlo Alessandro Landini, Stefano Leoni, Pippo Molino, Gianni Possio, Rugginenti, Milano 1994.



Il Manifesto musica '94, nacque da un'esigenza che alcuni amici manifestavano in quegli anni ossia di riconsiderare l'operare artistico e l'opera d'arte al di qua del costruttivismo e dello strutturalismo e al di là del neo-romanticismo, infatti, il libello - stampato da Rugginenti - iniziava con una sorta di prefazione: "Non vogliamo mettere a punto una teoria per il futuro, ma proporre una riflessione sull'esperienza che alcuni musicisti stanno vivendo." Il contenuto del Manifesto comprende il saggio di Pippo Molino, Alcune ragioni, quello di Gianni Possio, Esecuzioni silenziose, sonore contestazioni, quello di Stefano Leoni Muss es sein? Es muss sein! Es muss sein! e quello di Renzo Cresti, Uscire dal Novecento, saggio che, in parte, viene qui riproposto.



Uscire dal Novecento: per un altro umanesimo

Uscire dal Novecento è diventata un'esigenza primaria; agli inzi del nuovo millennio si fa impellente il bisogno di vagliare con nuove modalità i presupposti critici usati dalla cultura novecentesca, il che significa lasciarsi alle spalle il nichilismo e gli alienati rapporti dell'arte con la vita, abbandonare il pensiero negativo, ma anche quello forte dello strutturalismo, dell'astrazione linguistica, sperando che gli artisti riescano a calarsi, con umiltà, in un costruttivo confronto con la gente; augurandosi che l'arte converta in positivo lo sgomento che ha tormentato il Novecento, non per nasconderne le angosce e i fatti tragici, semmai per inaugurare un altro umanesimo, non fortificato da certezze e vacue dignità, ma quotidianamente aperto alle esigenze della società e pronto a integrarsi col mondo, in maniera critica. Inoltrarsi nel 2000 con la volontà di rimanere al di qua di ogni ideologia, degli interessi partitici, dei tornaconto personali e, contemporaneamente, avvicinarsi ai bisogni della gente, recuperare la solidarietà e il senso della collettività, non inglobando però l'arte nella sociologia, perché l'arte è il luogo dei possibili (quindi può essere utopia, idealità, progetto, scommessa...). Infine, allontanarsi dal Novecento significa lasciar perdere le risposte en rose del postmodern che, in alternativa programmatica alle tendenze scientiste, ha insistito sul tema dell'immagine bella e dello spettacolo patinato, utilizzando forme banali e dandy, volutamente ripetitive, per coinvolgere il "grande" pubblico (quello affezionato ai serial e agli spettacoli televisivi del sabato sera).

Il post-Moderno ha preso, in musica, il nome di neo-romanticismo perché ha voluto riferirsi agli aspetti bassamente sentimentali e a quelli tecnicamente sclerotizzati del sistema tonale: ha prodotto una musica scontata e leggera, soprattutto inautentica, facilmente deperibile, legata alla rapida caducità degli elementi utilizzati (come quelli para-canzonettistici); musica da arredo metropolitano, che cresce nella grande città, vicina alle discoteche, ai supermercati e ai cartelloni da réclame; si sintonizza facilmente sull'immaginario collettivo della piccola borghesia senza valori né qualità, sull'effimero, è musica che ha una linea, indossa un abito alla moda, ma non ha un progetto, giacché la metropoli è lo spazio senza spazio, nel quale i linguaggi vivono come svuotati. Giunti a questo punto non c'è più (s)campo, la salvezza è uscire dal Novecento tentando di proporre un'e(ste)tica del dialogo, fra l'arte e il suo pubblico eventuale, cioè fare in modo che i linguaggi tornino ad essere comprensibili, non perché assecondano banalmente i gusti del pubblico, ma per la loro genuinità.

Parliamoci chiaro: delle cervellotiche griglie labirintiche, degli oramai scontatissimi automatismi combinatori, degli effetti-vento ottenuti con gli armonici, della materia magmatica, dei brani per fiori e farfalle non se ne può più, i compositori che ancora sono invischiati in queste prassi, oramai divenute sclerotizzate e ideologiche, anche se conosciuti come "maestri" non lo sono più, figuriamoci gli allievi e i portaborse. Si può ragionevolmente parlare di invecchiamento dei Maestri.

I Maestri sono stanchi e in gran parte (è sotto gli occhi di tutti) hanno fallito nel proporre la loro opera al pubblico, anzi, molti di loro si sono perfino vantati dell'isolamento che, secondo le nevrotiche modalità espressionistiche, garantiva dal pericolo della massificazione e dell'alienazione. Franz Marc scriveva che "l'isolamento dei rari, autentici artisti contemporanei è per il momento assolutamente inevitabile", da "quel momento" sono trascorsi novant'anni, massificazione e alienazione sono rimaste, ma devono essere tematizzate in altro modo, percorrendo spazi obliqui e inserendo l'arte nelle fessure, dentro le crepature e fra le giunture del neo-capitalismo trionfante, trovando piccoli, ma importantissimi e vitali spazi per la creatività e la risposta.

E(ste)tica del dialogo - dia-logos - creatività - senso - autenticità

Passati gli anni dello sperimentalismo e dell'e(ste)tica del rifiuto, dopo Babele si deve tentare di ripristinare il rapporto positivo col pubblico che è andato perduto per colpa di strutture compositive sempre più complesse, le quali moltiplicano i significanti all'infinito, senza attenzione verso un loro significato. La riconquista del senso dell'opera è il primo passo, fondamentale, da compiere.

Si debbono recuperare le connessioni perdute fra opera e mondo, in una prospettiva di conciliazione, pur senza eliminare le tensioni che animano il linguaggio (come il mondo). I neo-romantici hanno voluto eliminarle è sono approdati a una musica fumettistica priva di spessore, sostanzialmente da tappezzeria.

Si tratta di instaurare un'interna dialettica tra posizione ed evento, dialettica interna in quanto la posizione, l'esserci dell'opera, è già evento, fatto accaduto nel mondo. L'atto del comporre è evento di una fissazione che si apre, consentendo all'opera, ad un tempo, di essere e di divenire, di stare in sé e di relazionarsi al collettivo, di gettare ponti verso l'altro. Il termine "posizione" rimanda, come fa notare Levinas, all'istante, come etimo latino di "in-stans", stasi in, nella quale l'uomo può scoprirsi nella sua identità che però, ad ogni istante, è il cominciamento di un rapporto. Se esistente ed esistenza procedono parallelamente, allora l'opera mette in movimento, fin da subito, una relazione con ciò che la eccede, realizzando un'epifania del visage altrui.

Alle posizioni estetiche che non sanno mettersi in discussione, manca questa dialettica interna, che mette in moto il processo centrifugo di collegamento dell'individualità formale dell'opera col suo prossimo. Manca il tempo dell'amore, che non è il tempo heideggerdiano, inteso come orizzonte interpretativo delle modalità ontologiche dell'esserci, ma è il tempo che si costituisce a partire dalla relazione del sé con l'altro, ch'è sia un atto d'amore, sia un atto di responsabilità. Sotto questo aspetto la musica contemporanea ha disatteso a ogni istanza etica, disattendendo quindi anche a ogni esperienza reale, una concreta esperienza ch'è ex-per-ire, passaggio, itinerario che conduce verso l'altro (fino alla morte).

Lo Strutturalismo è un'estetica senza esperienza, che non sia quella concettuale del testo, un comporre che non compie né l'esperienza nell'altro, né, quindi, l'esperienza del passaggio, percorso che apre, che insegna, che resta il luogo necessario per la comunicazione. Non è questo anche un atteggiamento irresponsabile? Nell'apologia del significante si perde il contatto con l'altro, la possibilità di accoglierlo, di recepirlo-per-me.

L'assoluta ed esclusiva attenzione sul dire (usando una terminologia levinassiana) ha condotto a un'opera dicente il dire, che parla solo di se stessa, del come è realizzata, esaurendosi nella propria esposizione, senza tematizzare il proprio essere segno col mondo, senza aprire la struttura del logos allo spazio collettivo dell'ethos.

L'art engagé è stata un'imposizione ideologica: il pubblico porta in volto i segni della violenza subita, e quei pochi che hanno resistito, sono stati analizzati come esseri dalla spiccata vocazione al martirio, che ascoltavano musica per incosciamente autopunirsi. Nell'art engagé, il pubblico viene visto come un agente passivo da ridurre all'Idea, mettendo in atto, ancora una volta, dopo le denuncie di Nietzsche, il potere totalizzante del logos conquistatore (non è un caso che questa linea si proclami erede della tradizione tedesca: dall'Espressionismo alla Scuola di Francoforte). Al contrario si tratta di aprire il logos, passando dalla questione del logos a una logica formale messa in questione, proprio perché cosciente delle interne tensioni.

Al dire s'è contrapposto il detto, alle sperimentazioni sui significanti si è allora preferito il placido recupero dei significati, ri-utilizzazione concessa dalla riappropriazione in toto della tradizione, l'unica che può garantire lo spazio del senso immediato, in quanto ne determina fin dall'inizio i contorni. Ma il detto, quale linguaggio della tradizione, non può evitare i rischi dell'accademismo e del qualunquismo; come mezzo comunicativo basato sulla tradizione ha sì la possibilità di instaurare un rapporto diretto fra opera e pubblico, ma tale relazione è piatta, sincronica, non va in profondità, è mancante di spessore. Il linguaggio viene assorbito dalle interpretazioni codificate, non sa svincolarsi da ciò che lo uso ha reso sistema. La chiusura che nel dire è messa in atto dall'esclusiva ricerca sul testo, nel detto tale chiusura è rappresentata dall'orizzonte angusto, dal rispetto ossequioso verso la tradizione, ch'è passata e che viene recuperata (non importa se in modo più o meno inventivo) per fornire al linguaggio la possibilità di instaurare una relazione diretta con il pubblico, infatti la lingua tradizionale da' l'opportunità di un'argomentazione immediata, ma non spontanea, falsa, perché lo sporgersi verso l'altro s'imbatte nel muro delle convenzioni, producendo una comunicazione inautentica, in quanto nulla esperimenta perché le viene meno l'atteggiamento estroflesso tipico di ogni vera esperienza, quello dell'uscire dai luoghi famigliari, da se stessi, per compiere un viaggio. Quello dei neo-tradizionalisti è un'avventura compiuta davanti alla TV!

La pretesa tautologia che l'opera è l'opera non vale, in quanto A non è solo A, ma è anche più di A, ossia nel predicato viene detto di più di quanto sia esposto nel soggetto. Si deve considerare che il valore conoscitivo è sempre maggiore della stessa conoscenza, come scrive Levinas, "un pensiero che in ogni momento pensi più di quanto non pensi". Partendo dalla forma si arriva così a un suo oltrepassamento che, nel suo protendersi verso l'altro, mantiene sempre le tracce della forma ch'è, ora, in grado di argomentare, di dialogare e recuperare le condizioni necessarie a una concreta intesa con gli ascoltatori.

La struttura dell'opera non è un esclusivo dirsi, ma un dire argomentato ch'è parlare agli uomini, un gettare dei ponti verso il pubblico, un percorso che l'opera compie come esodo, un viaggio esperiente che pone relazioni attraversandosi continuamente, al di là di sé e che, tuttavia, attraverso di sé si compie. La presunta completezza del testo non vien cancellata (come nella banale estetica neo-romantica), ma messa in circolo non, si badi bene, negli infiniti rimandi delle interpretazioni, si tratta qui di superare l'ermeneutica, messa in gioco in una gadameriana fusione di orizzonti, dove testo e contesto si illuminano reciprocamente, l'uno a partire dall'altro, in un rapporto oscillante, in cui è proprio il rapporto ad acquistare maggiore importanza, però senza costruire una camera di specchi, in quanto ogni rapporto è possibile se sussiste fra i due termini una differenza preliminare. Si afferma qui il paradosso dell'ermeneutica - come lo spiega Adriano Fabris - cioé di una filosofia paradossale in quanto è qualcosa che si riferisce al sé solo se si riferisce ad altro, ma l'oscillazione fra i due termini non può essere superata con una lettura meramente logica, tale tensione irrisolta acquista una fissazione facendo ricorso a contenuti tendenzialmente extra-concettuali, ciò che Heidegger chiama "vita" ed "esistenza", ovvero il solve della filosofia ermeneutica si coagula nell'etica, in ciò che non è solo testo, ma vita, un percorso da testimoniare.



Agli amici firmatari di questo Manifesto




 




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