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Donne in Jazz
Dalla Prefazione, Dal muntu alla telecrazia, del libro di Ilaria Biagini, Quando la musica è donna, Del Bucchia, Massarosa 2011.

 
Su ascolta rapidamente
Le essenze delle cose,
odile cantare nel fuoco,
odile ammonire dell’acqua
e ascolta nel vento:
i singhiozzi della boscaglia
sono il soffio degli antenati.
I morti esistono, essi mai sono partiti,
sono nell’ombra che s’illumina,
e nell’ombra che scende nella profonda oscurità.
(Birango Diop, Su ascolta)
 
Non c’è in Italia un testo come questo sulle donne in jazz e in pop che segua un discorso unitario sia a livello sociale sia a livello della psicologia femminile, scritto passione e con levità, tanto che trascina alla lettura e si legge tutto d’un fiato. Qualità rare, pressoché assenti nel mondo della musicologia[1], infatti Ilaria Bigiani è principalmente un’eccellente musicista, come dimostrano le collaborazioni che ha svolto e sta svolgendo e come attesta il cd allegato, raffinatissimo.
Il muntu è un termine della lingua bantu che può essere tradotto ‘uomo’, ma ch’è un significato panico, cosmologico, spirituale, di profondo collegamento dell’essere con tutto ciò che lo circonda, come ben esemplificato dalla poesia del poeta senegalese Diop. Questo concetto dell’uomo che lo lega alla natura e al mondo dei morti è tipicamente africano.
 
Gli spiritual, ma anche i blues, sono una sorta di comunicazioni in codice. L’uso delle strategie di signifying ovvero i doppi sensi e le significazioni nascoste, è una soluzione formale tipica della cultura afroamericana sia orale che scritta che rende la produzione culturale stratificata e fruibile a vari livelli.
 
La prima vera libertà per gli afroamericani seguita all’abolizione della schiavitù è stata potersi spostare e viaggiare e poter esercitare la propria sessualità senza le costrizioni subite ai tempi della schiavitù che la vincolavano alla riproduzione della popolazione degli schiavi e dunque alla volontà del padrone e alle leggi del mercato. 
 
Fin dagli ultimi anni del diciottesimo secolo gruppi viaggianti, chiamati ministrel shows[2], hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo del blues e del jazz perché davano opportunità agli afroamericani di presentarsi in pubblico con una propria musica. In queste compagnie lavoravano molte donne pianiste e strumentiste, che trovarono impiego anche nei circhi e durante le stagioni di carnevale. Quella della cantante “viaggiante” era una vita dura, poco sicura, piena di episodi di discriminazione sociale
 
Probabilmente il blues esisteva già negli anni novanta dell’ottocento, ma le prime testimonianze sonore di una forma primitiva di questo genere le troviamo solo all’inizio del novecento. Sappiamo che nel 1902 Gertrude “Ma” Rainey[3] (una delle figure capostipiti e più significative del blues classico) sentì cantare un blues da una donna in una piccola città del Missouri e che nel 1903 W.C. Handy rimase affascinato da un anonimo musicista di strada che a Tutwiler, nel Mississippi, si accompagnava al canto facendo riecheggiare le note slide della “musica più strana che avesse mai sentito”. Queste composizioni di chiara matrice popolare si diffusero oralmente nelle principali città del sud degli Stati Uniti mescolandosi con le altre forme musicali bianche e nere d’inizio secolo, in particolare con vaudeville, ragtime, jazz, country, musica sacra, canti di lavoro, holler, etc. Solo attorno al 1910 queste musiche “strane” verranno immortalate nelle prime trascrizioni e pubblicazioni a stampa[4].

Verso la fine dell’ottocento, infatti, si potevano trovare musiche blues e jazz arcaico nei vari vaudeville, ministrel show, carnival show[5], forme molto diffuse di teatro leggero al cui interno prese forma la tradizione del blues classico. E proprio Gertrude “Ma” Rainey fu una di quelle cantanti professioniste dello spettacolo che, all’interno di questi spettacoli, tra numeri di ballerine e donne-cannone, iniziarono a cantare dei loro amori non corrisposti e della quotidiana fatica di vivere su una base di 12 o 16 battute.[6] Convenzionalmente il 1920 è l’anno in cui si ha la prima registrazione ufficiale di un blues, Crazy Blues, inciso da Mamie Smith[7] per la Okeh Records, un brano che, sebbene rimesse ancora per molti aspetti, nell’ambito della musica “vaudeville”, riscosse un successo tale che favorì la diffusione di questo nuovo genere di musica. Cantato per lo più da donne, il blues, ancora legato a una strumentazione orchestrale e ad elementi espressivi tipici del jazz, viene definito Classic Blues o Blues Classic.[8]
Il presente lavoro si propone di evidenziare l’importanza proprio delle figure femminili nella storia del blues, del jazz e della popular music attraverso l’analisi di vari aspetti tra loro collegati: da quello strettamente musicale a quello sociale, toccando anche temi legati alle problematiche specifiche della condizione femminile, che saranno oggetto di elaborazione da parte del pensiero femminista a partire dagli anni ’70, ma che si possono già ritrovare nei blues degli anni venti di cantanti quali Ma Rainey e Bessie Smith. Nei primi due capitoli, il presente lavoro, segue in parte le argomentazioni presenti nel saggio di Angela Y. Davis Blues legacies and Black feminism (1998)[9] per analizzare testi e modi interpretativi di due delle figure principali del blues e del jazz: Bessie Smith e Billie Holiday. In entrambe si possono rintracciare elementi fondamentali per la presa di coscienza culturale e sociale degli afroamericani reduci dalla violenta esperienza della schiavitù, e al tempo stesso, una critica alla cultura dominante e patriarcale che fissa il ruolo subordinato della donna nella società. Davis fornisce gli strumenti critici per leggere queste istanze di “protesta” nei blues che, sebbene non siano mai esplicite e dirette, contribuiscono alla costruzione di un’esperienza collettiva di libertà.

La dimensione esplicita della protesta si avrà con Strange Fruit di Billie Holiday brano che renderà questa cantante una figura di riferimento della nuova tendenza nella cultura musicale nera che tratta direttamente dell’ingiustizia razziale. Eppure, nella lettura che ne fa Davis, anche nelle canzonette di Tin Pan Alley[10] che Billie Holiday interpretava esprimendo la forza del suo stile jazz, si può ritrovare una carica sovversiva delle rappresentazioni razziste e sessiste delle donne innamorate tipiche dei testi delle canzoni di quel periodo. Quando Billie Holiday trasformava queste canzoni sentimentali in brani che sono diventati standard jazz, le ricollocava in una specifica tradizione culturale africano-americana: nel contrasto tra forma e contenuto dato dal fraseggio, dal modo di usare la voce che trasforma il senso delle parole è da leggersi la presenza di una critica sociale per quanto riguarda le trasformazioni delle relazioni di classe, razza e genere, anticipando le posizioni dei movimenti sociali impegnati nella lotta per i diritti.
Proprio a quei movimenti di protesta per i diritti degli afroamericani e all’emergere di una critica forte della condizione della donna nera sottoposta anche alla discriminazione sessista oltre che razzista, si lega in modo esplicito l’esperienza  di un’altra donna del jazz negli anni di Martin Luther King e di Malcom X: Nina Simone, di cui si parla nel quinto capitolo. In questa parte, accanto alla figura di Nina Simone, sono tracciate le biografie e individuati i contributi allo sviluppo della musica jazz di donne quali Mary Lou Williams, Marian Mc Partland, Ann Ronell, Abbey Lincoln, senza dimenticare l’esperienza originale delle all girl’s band. In un mondo musicale in cui le figure dominanti sono quasi esclusivamente maschili, si è voluto sottolineare la presenza di donne le quali, oltre che cantanti, si sono distinte per la loro professionalità come autrici di testi e musiche e come pianiste, dimostrando grandi capacità artistiche e innovative nel panorama musicale a loro contemporaneo.

La quarta parte presenta il caso di una donna francese, Germaine  Tailleferre, che ha vissuto un connubio originale tra arte e musica, sperimentando e contaminando vari generi musicali. Il suo è un modo di far musica “al femminile”, sia nella forma che nei contenuti, caratterizzato da leggerezza, fantasia e ironia; nuovo per il suo tempo e per questo non sempre compreso e a tutt’oggi poco conosciuto. Nel sesto capitolo, infine, viene presentato uno scorcio del panorama musicale folk, pop e rock femminile, ricordando solo alcune delle numerose musiciste che ne fanno parte: Carol King, Joni Mitchell e Alanis Morissette. La scelta è stata dettata non solo dalla fama di queste autrici e interpreti, ma anche dalla connotazione specificamente femminile, sebbene ognuna con caratteristiche diverse, del loro modo di fare musica. Eredi della canzone di protesta sociale e femminile, inaugurata dalla famosa cantante folk Joan Baez, Carol King e Joni Mitchell hanno saputo dare voce ai sogni e alle speranze di giustizia e pace di intere generazioni. E soprattutto entrambe, così come anche Alanis Morissette, hanno saputo suscitare e interpretare sentimenti ed emozioni grazie al loro modo di cantare la vita secondo un riconoscibile punto di vista femminile.
 

Note
 

[1]
La musicologia accademica è ridotta a classificazioni e schedature, per uscire dal rigor mortis dell’eruditismo fine a se stesso occorre spesso ricorrere a una forma mentis che sappia collegare lo studio alla vita vera della musica, aprendolo a sollecitazioni provenienti da esperienze vissute.
 [3] Appendice fotografica, foto n. 1 e n. 1 bis.
[4] Luigi Monge, Il Blues degli anni ’20 sito web www.allaboutjazz.com
[5] Nel 1792 fu aperto a Parigi il primo teatro interamente dedicato al genere vaudeville dove gli interpreti poterono recitare e cantare le strofe personalmente. Lontana dalla elegante "ingessatura" operistica, il vaudeville si proponeva di intrattenere gli spettatori grazie ad un allestimento leggero e divertente, in cui la prosa e la melodia si alternavano a buffi intermezzi comici, acrobazie, imitazioni o piccoli numeri circensi. Sul finire dell’ottocento il vaudeville emigrò negli Stati Uniti dove, a sua volta, diede vita a nuovi sottogeneri quali i Minstrels (spettacoli dalla forte connotazione razzista dove interpreti bianchi si tingevano la faccia di nero caricaturizzando ferocemente i tratti, il gergo e gli atteggiamenti dei connazionali froamericani), i Medicine shows (strambe rappresentazioni erranti dove sedicenti medici vendevano impacchi e farmaci con tanto di intrattenimento musicale e pagliacci al seguito) e il ben più noto burlesque.
[6] G.Schuller, Il jazz: Il Periodo classico: Gli anni venti, EDT, Torino1996.
[7] Appendice fotografica, foto n. 2.
[8] Luigi Monge, Il Blues degli anni ’20 sito web www.allaboutjazz.com
[9] Angela Y. Davis, Blues Legacies and Black Feminism, First Vintage Books Edition, New York 1998.[10] Tin Pan Alley: “vicolo delle padelle di stagno”. Nome della 28° strada di Manhattan, a New York. Era il luogo dove si trasferirono tutti gli uffici degli editori di canzoni e musica popolare americana. Il nomignolo deriva probabilmente dalla grande quantità di suoni che si udivano dalla strada e assunse il significato simbolico di industria della canzone americana, per il periodo che va dagli anni ’20 ai ’50. Cole Porter, George e Ira Gershwin, Irvin Berlin, alcuni nomi dei compositori che gravitarono attorno a Tin Pan Alley, portandovi le loro eterogenee competenze e determinandone lo stile inconfondibile  seppure vario. Tra gli interpreti: Frank Sinatra, Bing Krosby, Doris Day, Ella Fitzgerald, Louis Armstorng, autentiche leggende intramontabili della canzone americana. Tin Pan Alley connota anche un certo modo tradizionale di intendere la canzone che prevede la prevalenza della melodia, armonie sofisticate, ritmi swing e testi centrati su tematiche amorose. Assimilazione e sintesi di stili diversi costituiscono la cifra essenziale di queste musiche, che contribuirono a decretare il successo del musical di Broadway e del periodo d’oro del cinema americano.
 
 
 



Renzo Cresti - sito ufficiale