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Chi abita oggi la creatività?
Scrivere ciò che scrivendo si profila

Sta acquistando sempre più importanza la naturalezza della scrittura, il saper scrivere in modo fluido, l’esprimersi in maniera diretta senza tanti artifici tecnici, il problema è saperlo fare perché, a differenza di quello che possono pensare alcuni musicisti, la naturalezza della scrittura richiede una grande sapienza tecnica, talmente alta da non costituire alcun ostacolo e quindi di permettere alla mano di comporre in modo spontaneo; anche la comunicazione non è un fatto meccanico ossia non basta desiderare di essere comunicativi per esserlo, poiché occorre musicalità, argomenti da dire, novità e ammiccamenti che creano una complicità con l’ascoltatore, cose più facili a dirle che a metterle in pratica senza abbassare la qualità dell’opera, senza banalizzare il prodotto per farlo giungere nel mercato della musica di consumo.
Ogni scrittura ha sempre le sue ragioni, a queste bisogna essere molto sensibili e lasciarsi prendere, cercando di ritrarre il proprio ego per far parlare l’opera. La volontà di scrivere, il piano di studio e di lavoro inciampa nelle ragioni dell’opera, questo avviene a ogni artista: il compositore urta in un suono sconosciuto, il pittore s’imbatte in un colore inaspettato, l’architetto incespica in una prospettiva che non aveva pensato e che apre nuove scenari, a sua insaputa. Si scrive, si compone, si dipinge, si costruiscono palazzi e chiese sempre incontrando un quid che non era programmato ed è questo “qualcosa” che sostanzia il quanto dell’opera.[1]

Le culture musicali diverse si connettono fra loro perché all’una manca la verità dell’altra, ma proprio in questa mancanza occorre riconoscere ciò che le accomuna. Le differenze sono un nuovo valore, un elemento propulsivo che deve creare l’arte dei popoli. L’indispensabile capacità di compromesso con la banalità della vita quotidiana è, nella società di massa, un pregio non un difetto, fatta salva, sempre e comunque, la qualità dell’opera. Ma la partecipazione sociale della musica non può configurarsi con quello ch’è stata l’art engagé degli anni sessanta e settanta, perché non può essere inchiodata all’attualità, la musica trasfigura la realtà che si rispecchia nell’immediatezza delle cose, è un qualcosa di particolare che sposa senso comune e utopia[2]. Assumere l’utopia significa avere lo sguardo lungo, uno sguardo che permette di andare al di là del proprio orticello, per poter abbracciare il senso generale, per comprendere la molteplicità, per approdare a una sorta di pensiero ecologico, che depura gli interessi personali per andare incontro a quelli collettivi, e per approdare anche a una sorta di geo-arte, di un’arte che più che storia è geografia, solidale alle culture del mondo e relazionata alle tematiche contemporanee.

Occorre avere l’elasticità e la vivacità di mente e cuore aperto per intraprendere il viaggio eccentrico, umano, culturale e artistico, al di là di ogni omologazione, pensando il “linguaggio” come procedimento plurale, fluttuante e instabile, e pensando a un’anti-metodologia che intende il lavoro come un polo di connessione fra la chiusura formalistica dell’opera e l’aperto variegato del mondo. L’io plurale approda a un’e(ste)tica del dialogo, a un’estetica che si contrae in un’etica della cooperazione, dove il musicista vive davvero il mondo dei suoni, partecipando alle gioie di un’umanità rappacificata nel segno di una musica ch’è testimonianza dell’abitare i suoni.

È possibile oggi articolare un’estetica? O l’estetica non può che riferirsi all’etica?
Il termine etica rimanda al concetto di soggiorno, è un concetto di luogo, di radicamento e di valori. Nel nostro luogo bisogna far posto agli altri, la nostra dimora deve essere aperta al viso altrui. Essere dis-posti ad ascoltare gli altrui valori e a dialogare con le altrui provenienze: domandare per imparare. Si tratta di mettere in pratica un’etica del cor-rispondere[3].

L’estetica non può che tramutarsi in etica, non solo per ragioni di partecipazione e di solidarietà, ma perché l’estetica ha perduto ogni sua alta configurazione. Da quando le grandi narrazioni del mondo sono state sbriciolate dalla molteplicità e dalla velocità dei fatti l’estetica s’è ridotta a una semplice riflessione sui (f)atti dell’arte, a considerazioni a posteriori, a classificazioni e descrizioni, ha perso del tutto il suo ruolo guida, non può più indirizzare, in quanto ogni direzione può essere valida, ogni impostazione può essere quella giusta, perché ogni operare può riferirsi, con coerenza e precisione, a principi e a finalità estetiche le più svariate, divergenti e perfino opposte; quindi l’estetica assume i connotati del nihilismo. Non è l’epoca della morte dell’arte, come si potrebbe dire riprendendo suggestioni hegeliane, ma sono gli anni del tramonto dell’estetica, la quale si salva solo se si avvicina all’eticità. Il tradizionale studio del bello sembra disperso nell’infinità delle prospettive e delle proposte, prima irriso dagli austeri guardiani delle ideologie degli anni delle avanguardie e poi forzato ad essere accoppiato alla fuggevole piacevolezza della moda. La bellezza, che rimane l’essenza dell’estetica, può salvarsi se assume lo spessore della vita, il suo sublime fantastico e drammatico, se quindi diventa un bello che dona senso, come il saio del frate, il fiore del deserto, il gesto pietoso verso l’ammalato, il vento che porta via le polveri, la carità verso il povero, l’acqua del ruscello, come l’arcobaleno della pace che si alza sulla terra che canta un musica di speranza, come la rugiada del mattino che intona una melodia sospesa in gocce.

Odo Marquard sostiene che l’estetica nasce quale compensazione per la perdita del trascendente in età moderna, trasformando il “giorno feriale” (Weber) in un rinnovato incanto, rimettendo in gioco quelle facoltà sensibili che l’età della tecnica e della scienza ha umiliato. Un’estetica funzionale è sempre esistita, dalle antiche civiltà a oggi (musica funzionale al rito religioso, alla rappresentanza del palazzo, alle marce militari, alle ideologie politiche o alla didattica pedagogica, alla danza…), è che – oggi come nel passato – i vari poteri e discipline forti hanno spesso sottomesso il (f)atto artistico alle loro convenienze e finalità, giocando su una sorta di connaturata mitezza, delicatezza, affabilità, affettuosità, amorevolezza, disponibilità, generosità e bontà, doti che la vera arte possiede intrinsecamente, qualità che spesso vengono travolte e messe al servizio di un pensiero/fare forte e perfino violento. L’arte viene spesso usata anche per il suo status non definito (Petrarca diceva nescio quid) che, di volta in volta, si lascia trascinare in teorie, filosofie, ideologie ecc. che, senza rispetto, si pongono come un militare di fronte a un monaco. Infine la semplicità/complessità dell’arte crea non pochi problemi all’estetica la quale, sbrigativamente, aggira le tematiche a raggiera per ridurle in ambiti culturali normalizzati, in campi sociali dove ogni istituzione agisce pro domo sua. Un’estetica che si avvicina all’etica ci salva da tutto ciò.

L’Arte (quella con la maiuscola) sostituisce la storia come magistra vitae?
In parte sì e in parte no: la storia è troppo compromessa con gli istinti bassi dell’uomo, il quale, ogni volta, ripete guerre e orrori, provoca fame e dolori, perché non si purifica mai. Inoltre ha lasciato il passo alla geografia nella preminenza della scala di valori. L’arte dovrebbe essere meno legata ai grandi interessi politici-economici e, anzi, per sua natura, vive in un suo specifico spazio/tempo sui generis, ai confini con quello pragmatico delle attività produttive, più impegnato ad andare in profondità e a sondare l'intimità dell'uomo. Tuttavia neanche l’arte può assumere il compito di essere maestra di vita, in quanto riproduce in piccolo gli stessi meccanismi affaristici del mondo politico. Non possiamo quindi affidarle, in generale, un gesto salvitico, possiamo però individuare al suo interno i movimenti buoni e belli, a questi sì possiamo concedere lo status di alto esempio di corrette impostazioni di vita, in tal senso il recupero, scevro da ogni ideologia e inteso in senso ecologico, del concetto di bellezza è fondamentale (fondamento di nuovi modelli comportamentali, essenziali, sostanziali, primari).

Oggi siamo pieni di opere ben fatte, che danno un senso di falso, di ricercato: la storia (della musica) è piena di opere siffatte, che non provocano alcuna emozione, che deludano o lasciano indifferenti, perché manca loro il viaggio, quello geografico-culturale e quello interiore. Non è vero che il pubblico non sia ricettivo, il fatto è che gli sono state propinate per troppo tempo cose astruse, mentre l’ascoltatore, quando è in presenza di una testimonianza vera, di una musica vissuta, sa apprezzarla e sa collegarsi emotivamente a quell’opera, avviene infatti il miracolo dello scambio del flusso di energie.

Molti compositori operano senza la fatica di un continuo mettersi alla prova su terreni differenti, senza lo sforzo di ricercare un pensiero poetico ed e(ste)tico originale, senza l’ossessione del puro umano, affidandosi invece alla leggerezza dell’esposizione scontata della propria maniera. L’apologia del pragmatismo costituzionalmente non ha futuro, vive nell’immediato e tenta di ottenere risultati sfruttando tutto ciò che può sfruttare, cercando di parlare a un pubblico più vasto possibile, convincendolo della bontà del prodotto. Ma la musica può far ben altro!

La musica non è una vera e propria forma di linguaggio, non solo per la sua asemanticità, ma anche per la sua fisiologia, per il suo modo di essere altro, costituzionalmente differente dal linguaggio verbale; la prospettiva linguistica – così cara alle metodiche del moderno – non è che una delle possibili angolature. La musica è una riduzione rispetto al linguaggio concreto e concettuale delle parole, ma proprio questa riduzione consente un’apertura, un’amplificazione degli aspetti emotivi. La musica è anche un’eccedenza, in quanto riesce a cogliere degli aspetti che il linguaggio comune non può nemmeno avvicinare. La musica è meno rispetto alla cultura in genere e alla filosofia in particolare, ma questo meno si rivela essere un di più che inaugura un spazio/tempo sospeso e stra-ordinario, lo spazio comune sparisce e diventa interiorizzato, il tempo si fa estatico e rivelativo di suggestioni che sono praticabili solo attraverso il suono.
Il compositore non può scrivere per se stesso, se non tradendo il suo essere cor-responsabile al mondo, ma non può neanche pensare di scrivere per le masse, perché questo significherebbe commercializzare il suo prodotto, allora a chi deve pensare di rivolgersi il compositore mentre scrive?

Bisogna scrivere per coloro che possiedono il segreto di leggere fra le righe e che sanno riflettere su ciò che hanno letto, anche molto tempo dopo aver chiuso il libro. Coloro che vogliono pensare per il solo gusto di pensare senza secondi fini, così per mantenersi in forma, come si fa con una salubre passeggiata. Ovviamente per scrivere bisogna saperlo fare e per farlo bene occorrono doti naturali e tanto, tanto esercizio, come un artigiano è necessario stare chinati a cesellare suoni e frasi per giorni e giorni, per mesi, per tutta la vita. Per scrivere il cuore e lo spirito non bastano, bisogna studiare con attenzione, con intelligenza e aggiornamento, con la consapevolezza che i risultati si esprimono poi attraverso la scrittura, la quale ha le proprie ragioni, una forza tutta sua. É solo grazie a un affinamento della scrittura che si può sondare la circolazione delle idee, rimanendo al di qua delle codificazioni: non si tratta però di fare la pagina bella, anzi il calligrafismo viaggia sempre in superficie, si tratta di abitare nella scrittura, perché questa sia una forma veritiera di comunicazione, che collega l’ambito di lavoro specialistico al sano senso comune, testimoniando anche l’essere uomo.

Occorre abitare la scrittura con un atto d’amore, che lega con passione la presenza nel mondo posizionandosi fra l’esodo nelle strade del mondo e l’avvento della scoperta del proprio compito (di uomo e d’artista). Oltre alle capacità tecniche e alla musicalità, alla naturalezza della scrittura e alla plausibilità del messaggio, una delle discriminanti per la critica alla musica di oggi potrebbe proprio essere quella etica ossia il percepire la giustezza di fondo dell’operare e l’autenticità dell’atto artistico. L’opera è-nel-mondo, geograficamente situata, il sostituire la storia con la geografia significa privilegiare l’esserci, quale presenza vitale intra-mondana; la storia si fa topologia e si avvicina alla natura; ogni autentica forma d’arte sorge da un vivo e scambievole rapporto dell’uomo con la natura. Il compositore esteriorizza la sua esistenza in forme e ogni forma è estrinsecazione dei suoi pensieri. La forma ritrovata nella musica di oggi, dopo la crisi dei decenni legati allo sperimentalismo, non può certo essere quella delle antiche prassi, si tratta di dar corpo a una plasticità che sia viatico intelligente dell’espressività, una sorta di forma naturale, come quella di un albero che non possiede equilibri e simmetrie studiate a tavolino, ma possiede molto di più, perché sono nate da uno stato di necessità, al fondo del quale si intravede il volto della grande madre o del puro umano (direbbe Wagner), l’essere tale e quale è, l’essere che ha luogo, che nel suo divenire diventa ciò che è.

Il tema della relazione fra le proprie radici, la terra (Hestia nella mitologia) e l’aperto del mondo (Hermes)[4] si con-fonde con quelli della comprensione e dell’accoglienza, tipiche qualità dell’amore. La natura ci insegna l’eterno ritorno dell’uguale. L’eterno ritorno è la forza che porta l’uomo a divenire parte del tutto, in cui vita e morte appartengono alla stessa dimensione, dove bene e male sono inseriti nella ciclicità del mondo e ci consegnano al destino. In ogni destino c’è una metamorfosi attesa. La visione panica del mondo è la possibilità di andare, è utopia del viaggio: andare là dove altro ci può essere. Andare con la speranza nel cuore. Ma «dove stiamo, dunque, andando?» - si chiede Novalis - «sempre verso casa».
Passati gli anni dello sperimentalismo e dell’estetica del negativo, del concetto di complessità e di quello di babele linguistica, ma trascorsi anche gli anni della contro-posizione ideologica del postmoderno, della leggerezza dell’essere e del pensiero debole, dell’amore per la superficie luccicante e per l’attrazione verso il mercato, oggi la musica non può che tentare di ripristinare il rapporto positivo con il pubblico, basato non sulle vecchie metodologie analitiche né su una vacua espressività di chi vuol essere preventivamente comunicativo! ma su un’esigenza vera di comunicare il vissuto, basata su una scrittura ben costruita e scorrevole, riconquistando il senso della bellezza, che non è quella legata al prodotto ben confezionato e piacevole, ma è una bellezza profonda che dona senso, umile, discreta.

Abbiamo oggi un’incredibilmente tribù di compositori e compositrici, la quale costituisce la fase quarta, relativa ai compositori nati fra gli anni Cinquanta e Sessanta, coloro che quindi hanno studiato con i compositori appena citati durante gli anni Settanta-Ottanta-Novanta e hanno iniziato a presentare le loro proposte compositive in questo frangente di secondo millennio. Sono i compositori su cui si addensano le più forti perplessità, in quanto non si sono potuti giovare dell’insegnamento diretto dei grandi maestri ma dei loro allievi, hanno studiato nel periodo dell’ideologica contrapposizione fra moderno e postmoderno (con tutto quello che di ostinato e di poco flessibile il conflitto portava con sé), sono stati inconsapevolmente schiacciati fra un’educazione formalistica e nuove esigenze espressive, si sono spesso mossi in una sorta di via di mezzo che in arte non paga mai e non sono riusciti a produrre opere degne di rilievo, non è un caso che fra i compositori quarantenni nessuno abbia acquisito quell’autorevolezza che invece possedevano i giovani musicisti delle generazioni precedenti (pensiamo a Sciarrino e prima a Berio, Nono e a molti altri che poco più che ventenni già iniziavano un percorso artistico eccezionale).

Se fino agli anni Ottanta la grande generazione dei maestri ha fatto grande la composizione italiana, dagli anni novanta, con la progressiva scomparsa fisica dei protagonisti, la situazione è peggiorata, la generazione nata fra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta è stata l’ultima che, nel suo complesso, ha prodotto compositori importanti[5], secondo l’ottica della musica contemporanea colta. I maestri italiani avevano una grande preparazione tecnico-formale che non si riscontra più fra i giovani e contemporaneamente avevano intuito (qualcuno anche capito) che la tecnica, le regole, il sistema, erano sì indispensabili ma non bastevoli alla completezza dell’opera che doveva esprimere un’aura che non deriva solo o non tanto dalla maestria e dalla metodologia ma soprattutto dal talento, dalla capacità di rendere eccezionale il regolare, di motivare direzioni strane, di praticare il disordine all’interno della struttura, consapevoli che la complessità porta sempre con sé elementi inconoscibili (il linguisticamente impraticabile). Soprattutto il pensiero doveva essere corroborato dall'esperienza, la vita stessa era l’inizio e la fine del pensare e del fare musica. L’energia vitale, con i suoi collegamenti al vivere sociale, era l'irrinunciabile principio di ogni creatività.
 


[1] Nello svolgersi delle ore e dei giorni, mentre lavora l’artista s’imbatte nel viso altrui, volti e sguardi che diventano gli insostituibili compagni di viaggio che a volte stanno annidati nel cuore e altre volte esplodono nella mente. Nello scrivere ciò che scrivendo si profila a volte si inciampa in qualche residuo della memoria inconsapevole, recuperando una parte del proprio passato, solo così le possibili citazioni sono profondamente interiorizzate, non sono dunque un modo per svolgere una scrittura al quadrato, ma sono finestre che collegano il dentro con il fuori, la volontà del compositore con quella della (sua) opera.
Daniele Bertotto (Torino 1947-Avigliana 2007), come spesso gli autori di questa zona, anche Bertotto fu influenzata da tendenze simbolistiche, disposte in maniera libera e immaginifica, come in … con libere ali… (1985), fra le composizioni degli anni Novanta è da citare la sequenza per coro, 4 fiati e percussione De sancta Maria (1995).
Rosario Mirigliano (Catanzaro 1950)
Daniele Zanettovich (Trieste 1950)
[2] Anni fa Umberto Eco divideva gli intellettuali in apocalittici e integrati, i primi sono pressoché scomparsi mentre i secondi sono proliferati, anche se sono inquadrati in maniera disorganica. L’intellettuale come l’artista svolge un’attività pubblica accompagnata dalla ragione critica, ma non è più organico alla società come lo è stato fino a qualche decennio or sono perché nell’epoca del web non può inserirsi in un luogo preciso, non può avere una posizione certa, ma deve porsi all’interno di un intreccio di informazioni senza fine, subendo una metamorfosi del modo di relazionarsi con la collettività, non più diretto ma virtuale.
[3] Ecco perché il musicista non può starsene rintanato nel suo studio dove non può rapportarsi che a se stesso, in un soliloquio proteso alla ricerca della sua presenta ‘verità’ interiore. 
[4] Sul piedistallo della grande statua di Zeus, a Olimpia, Fidia ha voluto rappresentare 12 divinità, raggruppate a due a due; Hestia, l’essenza della casa e del focolare, è messa insieme a Hermes, dio viaggiatore sempre in movimento che rappresenta il contatto fra elementi diversi. L’accompagnamento di questo dio errante con la domestica Hestia sta a significare la complementarietà di movimento e stasi, di moto centrifugo e centripeto, di aperto e chiuso. L’omphalos di Delfi è considerato il trono di Hestia, pietra ovoidale, il suo spazio va in profondità e il suo tempo è a spirale, mentre quello di Hermes va in estensione, è spazio dilatato. Se il linguaggio dei suoni è una sorta di utopia del linguaggio vero e proprio, allora si configura come possibilità autentica che si presenta come vocazione e destino e se è una vocazione non può che compiersi in un contesto pre-compreso (Hestia) e questo contesto non può che essere il mondo dei suoni che sta a monte dell’organizzazione in linguaggio (Hermes). La musica va intesa dunque come uno spazio aperto (Hermes) che diventa spazio interiore (Hestia).
[5] Cfr. Autoanalisi dei Compositori Italiani Contemporanei, a cura di Renzo Cresti, Pagano, Napoli 1992. 




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