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L'Arte innocente

Da Renzo Cresti, L'Arte innocente, con Cdrom, Rugginenti, Milano 2004


Le vie eccentriche
  
Le vie eccentriche sono quelle che non si allineano al centro istituzionalizzato, sia esso il centro dell'apparato politico o quello della morale corrente, del pensare e fare riconosciuto ufficialmente, sia esso il linguaggio codificato e le tecniche che i poteri forti della musica nuova hanno imposto, sono vie che eccedono il l(u)ogo comune per intraprendere direzioni diverse, strade decentrate e autonome. Strade non urbane, viottoli, che partono lontano dalla città quale luogo dei mercanti e, direbbe Nietzsche, s'incamminano verso la montagna, quale posto di solitudine e di meditazione, di rigore e di purezza. Vie innocenti.
 
L'indipendenza della musica è un (f)atto eccentrico, che eccede ogni centralità storica, ogni stare linguistico, ogni modo teoretico compiuto, per non lasciarsi imbrigliare nelle maglie dei generi omologati e degli stili consolidati. L'arte tutta dovrebbe essere ecceità, eccedenza dell'ordinario: come la poesia lo è nei confronti del parlare consueto, (f)atto stra-ordinario, stra-vagante, che oltre-passa e scava dentro e guarda dietro al significato usuale delle cose, donando loro un senso nuovo e dinamico e più profondo.
 
Nella condizione caotica, sia a livello politico-sociale (tempi tristi di guerra e di miserie), sia a livello culturale (dove l'opera è sempre più un'opera al nero, nella quale il posto dell'alchimia è preso dal Cyberspazio, dal Web, dall'omologazione, dal pensiero unico e da un gigantesco Mc World, dove viene venduta la fast art), fare critica musicale è davvero un'impresa difficilissima. A differenza di quanto si crede, non è tanto la mancanza di un filtro storico a creare dei dubbi e degli imbarazzi critici, quanto piuttosto il marasma generale, la situazione complessa nella quale, come ha scritto Henri Atlan, rimane sempre un qualcosa di inconoscibile, per le molteplici forze e direzionalità in movimento. Situazione analoga a quella che, in fisica, è degli attrattori strani, ossia di quelle energie dalle tante direttrici che non si possono bene analizzare, perché hanno tanti micro-mutamenti sempre cangianti.
 
La contemporaneità è fatta di mille aspetti, spesso contrastanti, è in movimento e brucia tutto in poco tempo, bisogna però avvicinarsi ad essa, con amore, e riflettere su ciò che vediamo-ascoltiamo con strumenti critici affinati, non tanto per (s)comporre e classificare, quanto per potersi orientare e non subire passivamente i dati di fatto. Per capacitarsi occorre prima avere una buona educazione generale ai (f)atti della cultura odierna, poi un'informazione dettagliata, in quanto senza un bagaglio culturale di partenza e senza disporre dell'elenco dei materiali a disposizione non è certo possibile prendere dimora dentro la musica del nostro tempo. Le vie eccentriche sono anche erranti, non solo nel senso del nomadismo culturale, così caro alla Worl music, che vuole cancellare ogni genere per aspirare a descrivere la multietnicità, ma nel senso di una continua inquietudine che obbliga a non fermarsi al già acquisito, una costrizione interiore ad approfondire le qualità di un io plurale. Si tratta di sondare le possibilità di spazi e luoghi, di tempi e modi in movimento, i quali riguardano molteplici piani della cultura, sottolineandone la poliedricità e le tensioni (del suono e del rumore, del ritmo e del colore…), in tal modo si sconfessa l'asetticità dell'estetica formalista che, nell'algida messa a punto di prospetti preparatori, si chiude in un'autoreferenzialità meramente descrittiva del proprio progetto. I nostri Autori nel loro nomadismo, sono simili al "pastore errante" di Leopardi e creano dei rapporti fra ciò che "il guardo esclude", tra il limite, e ciò che il guardo include, il loro infinito interiore, al confine fra la "siepe" e gli "interminati spazi al di là di quella".
 
Falsa comunicazione
  
Oggi si fa un gran parlare di comunicazione, come se non fosse stata un problema aperto per ogni epoca e per ogni musicista (da un punto di vista storico è dunque un falso problema), e si va alla ricerca di una trasmissione di idee e (f)atti immediata, cosa impossibile, oggettivamente: non si tratta di una posizione ingenua, quanto di un cinico atteggiamento che vuol sfruttare i meccanismi leggeri della società dei consumi, regolata dallo strapotere dei mass-media. La comunicazione è comunque dispersa in mille rigoli o al più fiumiciattoli - in quei pochi casi in cui si tenta di abbracciare i grandi (bi)sogni dell'uomo - il cui approdo al mare magnum dell'informazione viene sempre rinviato, è impalpabile perché non si fonda sul contatto diretto, sulla partecipazione attiva e umana: sono questi gli anni della ridondanza condivisa, in maniera eterea, leggera, vaga. Siamo dentro l'occhio del ciclone, sentiamo un turbinio di parole e di suoni, vediamo milioni di immagini, ma nulla ci tocca veramente e proviamo sempre meno sentimenti autentici. Più le parole vengono ripetute, i suoni moltiplicati e le immagini ingrandite e più aumenta la nostra solitudine. Così altro non possiamo fare che abitare la distanza da una comunicazione che non comunica, da un'espressione programmata, dalla leggerezza dell'essere e dalla pesantezza del pensiero forte e burocratico (o "politicamente corretto"). Abbiamo davvero necessità di una rinnovata e laica spiritualità, non staticamente dottrinale, ma percepita come fonte di senso e di vita. A livello di composizione musicale la problematica è quella che concerne il bisogno di una rinvigorita espressione della forma, che nulla deve concedere ai compromessi neo-qualunquistici e rimanere rigorossima, metabolizzando però, nell'intimo suo farsi, l'esigenza della comunicazione.
 
La relazione tra strutture costruite e percepite dev'essere trasparente e agevole da afferrare (il che non significa affatto che dev'essere semplice e leggera), questo è l'unico modo per superare l'impasse del costruttivismo che, per troppo tempo s'è crogiolato sull'ideologia che bastasse solo il render conto della scrittura e non dell'ascolto. Il caso di Stockhausen, mito di ogni strutturalista, è sintomatico della genialità del personaggio e del fatto che, grazie a idonee modalità che si orientano verso il processo percettivo, si può render conto dell'Erlebniszeit, ovvero del fatto che la durata della percezione di un evento sonoro può essere anche molto diversa dal tempo reale dell'evento: i mutamenti e i gradi di approssimazione del rapporto costruzione/percezione sono decisivi per rendere la musica ricca di un senso che sporge dal costrutto e crea un ponte verso il pubblico.
 
Dalla struttura autoreferenziale all'ascolto
 

Dalla fine degli anni Cinquanta, i grandi compositori, da Boulez a Stockhausen (per citare quelli che si sono formati nello stretto ambito strutturalistico, oppure Maderna, Nono e Berio fra gli italiani), si posero il problema di come dare un senso sonoro al loro operare, compiendo delle scelte all'interno del sistema in funzione dell'ascolto, inserendo quindi il libero arbitrio che "dava aria al sistema" (sono parole di Boulez), valutazioni che devono rendere udibili i percorsi e le fasi del tempo/spazio musicale (la nozione di formante in Boulez, per esempio, o la contrapposizione fra masse e punti, l'utilizzazione di più serie, di serie difettive, di timbri avviluppanti ecc., ossia prendono corpo delle caratteristiche riconoscibili che distinguono i vari aspetti della composizione, creando una segnaletica che caratterizza il percoso della musica). Si passa così dal concetto di "materia" (magmatica) a quello di "oggetto" (riconoscibile) e da una teoria incentrata su un puro conoscere sperimentale a una poetica della forma e della percezione. Riportando anche l'estetica al suo significato originario di percezione (dal greco aisthetes che percepisce), recuperando il piano del sensibile.
 
Se i musicisti davvero grandi hanno bruciato in pochi anni le tappe della loro evoluzione, la maggioranza si è attardata in un accademismo che ha continuato a ruminare gli stessi concetti e le stesse prassi seriali per altri vent'anni, aggiornando la loro musica con qualche spolveratina che faceva tendenza o con qualche trovata elettronica: l'ambiente di Darmstadt degli anni Sessanta e Settanta ne è una prova, così come le troppe partiture autoreferenziali (in ambito tedesco soprattutto, in Italia è stata Milano la città che, guardando al centro Europa, ha creduto di essere all'avanguardia, quando l'avanguardia era già morta). Il sistema autoreferenziale è ideologico, si sorregge su una sua propria logica e chiude a tutte le altre, così come chiude all'ascolto. Non si tratta neanche di distinguere il concetto di musica strutturata da quello di suono, qui manca del tutto la tematica dell'ascolto.
  
Contro il perbenismo culturale, lo storicismo e il neo-romanticismo
  
L'arte, sempre è stata e sempre sarà, il regno delle possibilità, le più strane e le più pazze, le meno prevedibili, la casa dove abitare sogni e bisogni, dove vivere pulsioni e fantasie, personali e collettive: l'arte è u-topia, si situa ciò in un luogo che non fa parte del pensiero e del fare quotidiano, ma abita altrove, in una frontiera indecifrabile dove si decide del sì e del no, al confine fra senso comune e gesto straordinario che, proprio per questa sua eccezionalità, fa eccezione rispetto alle altre discipline e non si lascia facilmente imbrigliare nelle maglie del perbenismo culturale.
 
Sulla miseria dello storicismo ha già detto Propper, riprendendo temi nicciani tratti da L'utilità e il danno della storia. La possibilità di recuperare elementi storici si basa su una lettura del presente che sa essere base del futuro, cioè occorre uscire dal "bordello dello storicismo", per usare le parole di Benjamin, al fine di una nuova creazione di senso. Lo storicismo post-ottocentesco, che ci viene propinato ancora oggi da studiosi di filiazione crociana o marxista, non solo non ha (più) senso, ma crea mostri, come ben si vede e si ascolta nei fatturati Postmodern (dove l'opera è una sorta di puzzle che forma il vestito di Arlecchino, ed è come il personaggio, furbo e sciocco a un tempo, cialtrone ma gradevole). La superstizione del Progresso (nell'arte non c'è progresso, ma differenze) ha sostituito quella della Provvidenza nella storia, il Comunismo è un Cristianesimo travestito, più impaziente e più risentito (la figura e la musica di Nono, fino alla metà degli anni Settanta, ne è una dimostrazione esemplare). Tutte le Chiese hanno sempre voluto far proseliti, si propongono di convertire alla loro verità, anche con la forza e, ahimé, spesso con la violenza, vogliono insegnare, parlano molto e ascoltano poco, mentre si dovrebbe preferire stare con la bocca chiusa e con le orecchie aperte, non essere ideologicamente né fedeli né partigiani, ma aspirare al rispetto, alla discrezione, alla generosità, alla tolleranza, all'ospitalità e all'accoglienza, bramare un'arte che sia libera da ogni impostazione preconcetta, indipendente da tutte le ideologie e dai sistemi, originale nei confronti dei troppi prodotti ben confezionati che si spacciano per "creativi".
 
La nostra cultura è, sostanzialmente, preoccupata dall'horror vacui che cerca di riempire con un mega supermercato dove si trova di tutto, dalle idee prefabbricate alle passioni patinate, nel quale domina un eclettismo stilistico confortante e rassicurante, che però, sotto la superficie bella, è fatto di scatti nevrotici che ammiccano non alla sbandierata forza dell'artista e dell'uomo post-moderno, ma alla sua debolezza, al suo essere homunculus. Nelle arti figurative questo è ben evidente in artisti (come Kushner, Smyth, MacConnell per esempio) che si tuffano in un tutto pieno. In musica i tic sono noti: abbandonarsi fra le dolci braccia della tradizione, ritrovare la tranquillizzante figura e la melodiosa consonanza, la forma torna a farsi sferica e la concezione della musica riprende ad essere quella del linguaggio universale. Ma la musica è un "linguaggio" sui generis, non può essere quella dei manuali di storia e di armonia, occorre scrostare il logoro concetto di musica e riportarlo a quello di suono grezzo, ritrovare la drammaticità del sublime e, soprattutto, la profondità interiore dell'uomo/artista.
 
Nel paradigma della complessità bisogna individuare dei piccoli spazi, come delle soste, delle brevi sospensioni della grande confusione, soffermandosi per un attimo su una soglia stretta che, comunque, possa permettere di focalizzare dei gesti e degli oggetti eccentrici e strani, anomali e lontani dal centro istituzionalizzato e codificato del sapere. Occorre esitare sul gesto artistico ("esitare" deriva da haerere, rimanere attaccato). Ci vuole un'analisi che veda atteggiamenti e opere da più punti di vista, mentre si muovono, senza alcuna pretesa di fissarli con un'analisi che, in ogni modo, risulterebbe deficitaria; serve uno studio minuzioso senza l'ostentazione di un giudizio estetico definitivo. In una società impazzita, fatta da segnali implacabili, forti e velocissimi, dove l'iper-tecnologia porta vantaggi pratici, ma anche superficialità e incoscienza, l'indugiare e il meditare, la lentezza e la calma, rappresentano una scelta precisa contro la furbizia della celerità (del far carriera e soldi, dell'egoismo…) e il vacuo appiattimento conformistico (sui falsi valori del mercato). Ma non c'è solo la negazione del perbenismo artistico e del politicamente corretto, nella scelta c'è pure la positività della proposta di una nuova verginità del pensiero, di una purezza del fare, per approdare a un'opera innocente (etimologicamente: che non ha colpe, è priva di malizie). Un'opera che non intavola compromessi, non fugge dal Mondo, ma lo interroga e interagisce con sana ironia, una lontananza che non significa disimpegno, al contrario, rappresenta la consapevolezza dell'esserci in modo critico. E' bene interrogare la sfera delle ossessioni, facendo ricorso a una sorta di psicanalisi del suono, investigare gli influssi e i riflessi dell'opera, confidando in un potere salvatico della genuinità e della necessità interiore, un'opera indipendente dal dominio delle grammatiche e delle codificazioni, che fa ricorso a un ecologic sound, "sgrammaticato" e naturale, originario e spontaneo, un suono nascente che, come un fiore, dalla Terra si apra al Mondo. Verso il fenomeno primario e primordiale, o come dice Goethe Urphanomen:
 
"ideale, in quanto ultimo conoscibile,
 reale, in quanto conosciuto,
 simbolico, perché racchiude tutti i casi,
 identico con tutti i casi".
 
Pensare con il suono
  

La musica non è una vera e propria forma di linguaggio, non solo per la sua asemanticità ma anche per la sua fisiologia, per il suo modo di essere altro, costituzionalmente differente dal linguaggio verbale, col quale comunemente ci pensa e si esprimono i concetti, inoltre la musica non ha alcuna necessità interna per diventare linguaggio, così la prospettiva linguistica non è che una possibile angolatura e anche la più tortuosa, costretta com'è a riferirsi sempre a un'estensione metaforica. Bisogna pensare col suono, sganciato da sistemi para-linguistici; il pensiero, come nel Fedone, dev'essere "musica suprema". Il pensiero musicale non è un ragionamento, non fa progredire un "discorso", come vorrebbe far credere la banalizzazione della musica intesa quale racconto, stile poema sinfonico o musica "d'accompagnamento", la musica non è "narrazione", perché ha tempi e spazi particolari e dovrebbe essere un processo in verticale, alla ricerca proprio di ciò che i linguaggi delle parole e/o delle immagini non possono dire, come avviene, per esempio, nel "linguaggio" delle leggende e dei riti. L'indicibile diventa così possibile grazie a un dire archetipo che mostra cose lontane e nascoste. Ovviamente anche nel genere della musica descrittiva ci possono essere cose belle e ben fatte, ma non è di questo che si parla, ma di una musica che non deve mostrare un mestiere e descrivere fatti, perché non è sufficiente un'etica professionale e una funzione pragmatica o ludica, si deve richiedere di più, di meglio, di altro, quello che scrive Rilke, la musica può mostrare "quello ch'è semplice, quel che, plasmato di padre in figlio, vive".
 
Al posto del vocabolo "musica", invischiato con troppe definizioni e concetti delimitanti, è consigliabile usare, come Varèse, il termine "suono organizzato", puntando l'attenzione sul suono piuttosto che sull'organizzazione, non per aderire a uno spontaneismo infantile, ma perché sul costrutto e sulla struttura molte pagine si sono finora riempite, ingrossando la tradizionale cultura razionale occidentale. "Suono" come qualcosa di simile a un Unklang più che a un Logos, oppure a un Logos che sappia essere dia-logos. Suono di natura, Naturlaut, che non deve essere inteso, nell'ingenua maniera del canto degli uccelli e dei suoni naturalistici, ma in quello di un suono vivente, vibrante di vita propria, con le sue ragioni, le ragioni del suono. Suono come DNA di una forma musicale percepita come organismo vivo. Suono come tono più che lingua, udito come portatore, prima del suo strutturarsi, di un campo semantico molto vasto e, contemporaneamente, elementare, basato su archetipi che rimandano, più che alla musicologia, all'antropologia. Il "suono organizzato" non è solo uno schema, un palinsesto di note (senza negare l'importanza dei piani preparatori), ma è anche e prima di tutto pulsione e istinto, eccitazione e depressione, mente e cuore, viscere e intelletto, corpo e spirito, acqua e fuoco, aria e terra, luce e oscurità, chiarezza e cupezza, apertura e chiusura, realtà e fantasia, popolo e individualità, maschile e femminile, urlo e silenzio, umiltà e rinunzia, esperienza del margine e fluttuazione di ogni confine, civiltà e natura, forma e caos, certezza e dubbio, urgenza collettiva e memoria, dura necessità. Da questo punto di vista, non c'è un solo parametro che possa essere inteso in modo comune, sia nel senso della tradizione ottocentesca, sia in quello della Modernità o del post-Moderno: gli elementi costitutivi, quali il ritmo, la melodia e l'armonia/polifonia, il timbro e gli armonici, la dinamica, i concetti di tempo e spazio, di tecnica strumentale e d'interpretazione vanno re-impostati.
 


A Gianvincenzo Cresta




 



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