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Relazione di Renzo Cresti al Convegno SIMC di Firenze (settembre 2023), contenuta nel libro sul Centenario
Musica presente
 
di Renzo Cresti
 
Solo chi vive non nel tempo,
ma nel presente, è felice.
(Ludwig Wittgenstein, Quaderni)
 
Musica presente non significa solo musica del tempo corrente ma anche musica consapevole e testimone del proprio tempo, partecipante, presente a sé stessa e al proprio tempo. Questo è il compito che la Società Italiana di Musica Contemporanea si è sempre proposto, tenere sveglio il pensiero critico sul testo e sul contesto musicale.

         Il tempo del presente non è unico, non si svolge a una sola velocità; vi è un presente in-tempo, oggettivo, e vi sono molteplici tempi extra-tempo, soggettivi, una soggettività relativa non solo alle singole persone ma al modo di vivere gli aspetti sociali. Si creano diversificate linee di tempo a differenti celerità che creano fra loro reticolati temporali. Lo stesso vale per lo spazio del presente, percepito non in maniera univoca ma come una spazialità a più dimensioni. La sfida per ogni musicista sia esso compositore o interprete o musicologo è quella di trovare spazi di creatività all’interno di questi reticoli spazio/temporali molteplici e in continuo e veloce mutamento.

         Sempre più spazi si aprono al nomadismo degli artisti. Il termine ‘presente’ dà un’attestazione di dinamicità intellettuale, di attivismo culturale, di sentimenti accesi e di vigorosa operatività. Insieme alla sottolineatura della vivacità e vitalità e, di conseguenza, dell’intervento attivo ed efficace, musica presente evidenzia il suo essere del momento. Nessun riferimento a generi e stili, ma a esperienze che sono in atto e che sono degne di essere raccontate per la loro compiutezza, pienezza e unicità di senso. Per l’aderenza del materiale scelto all’idea di partenza, sapienza nell’elaborazione, apertura a prospettive nuove e comunicazione sincera.

         È sul concetto di musica presente che si deve insistere, in quanto quello di musica contemporanea è troppo compromesso in mille elaborazioni, va storicizzato. Appartiene ai decenni del secondo dopoguerra e stava a significare una musica colta esclusiva, mentre, dagli anni Ottanta a oggi, è l’inclusività a predominare. Il molteplice si è fatto soggetto e in questa molteplicità vi è un caleidoscopio di motivazioni e finalità, di linguaggi e stili, di forme e tecniche, ognuna con la sua piccola ‘verità’.

         Come per la società multietnica, le diverse culture si dovrebbero confrontare fra loro e, quindi, le differenti musiche si dovrebbero incontrare in un abbraccio che esalti le diversità. A ogni cultura/musica manca qualcosa dell’altra ed è in questa reciproca mancanza che esse si accomunano.
 
         La SIMC ha proposto, in tutta la sua storia, una costante riflessione sulla creatività, sul come scrivere ma anche sul perché e sul cosa scrivere. Recentemente sono da ricordare le iniziative di Scrivere per il futuro, nata nel periodo buio del lockdown, e di Scrivere per la pace, nata subito dopo l’invasione dell’Ucraina. Due importanti iniziative a cui hanno partecipato centinaia di musicisti che stanno a indicare la profonda attenzione della SIMC agli aspetti etici.
 
         C’è musica e musica, questo popolare modo di dire, che fu ripreso da Luciano Berio per le sue trasmissioni televisive del 1972, sta a significare che vi sono tante tipologie di musica e, dunque, tanti pubblici differenti. Ci sono soprattutto funzioni e funzioni, da quelle professionali a quelle per passatempo; destinazioni musicali sociali o ludiche; gamme infinite di suoni e di relazionarli fra loro e fra la gente; varietà di intenzioni, desideri, progetti, obiettivi, finalità. C’è modo e modo di ascoltare, individuale, privato e solipsistico oppure collettivo e sociale; c’è platea e platea, pubblico colto o ignorante, capace di un ascolto strutturale o solo di intendere i suoni come emozioni. Nel villaggio globalizzato ci sono musiche e musiche, tutto al plurale. E ci sono molti problemi. Ma i problemi ci sono sempre stati, la problematicità non è legata a un particolare momento difficile ma è condizione esistenziale. E secondo la condivisibile opinione di Adorno è proprio nella società problematica che l’arte dovrebbe svolgere la sua missione.

         Già Guy Debord, nel 1967 agli albori dell’era televisiva, nel suo La società dello spettacolo, preannunciava, nelle forme di una leggerezza diffusa, la sostituzione dei concetti di realtà e razionalità con quelli di apparenza e popolarità, tanto che tutto il dibattito successivo, relativo al Postmodern, non fu che la conferma di uno spostamento di valori e atteggiamenti, come attestato dal libro del Premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, La civiltà dello spettacolo (2013, non a caso con quasi lo stesso titolo del libro di Debord). La sottomissione della politica ai poteri economici, la banalizzazione della musica al servizio dell’intrattenimento, la scomparsa degli intellettuali che riflettevano con severità sulle questioni culturali, questi sono alcuni dei motivi indicati da Debord per indicare lo stato di decadenza dell’arte nella società attuale. Vie d’uscita non ve ne sono se non con un cambio epocale, ma però l’arte può inserirsi a cuneo nei meccanismi commerciali e proporre la “bellezza che salva.” – come ha affermato Papa Bergoglio nella sua recente Udienza agli Artisti del 23 giugno 2023 – “La bellezza ci fa sentire che la vita è orientata alla pienezza. Creare l’armonia delle differenze, non annientarle, non uniformarle, ma armonizzarle, allora capiamo cosa sia la bellezza”.

         Qual’è il ruolo della musica nell’epoca della globalizzazione? Quello di far cooperare i vari linguaggi, in modo che ognuno si apra all’accoglienza dell’altro, divenendo il viatico al dialogo fra uomini di culture differenti. Ed è proprio sui concetti di dialogo, comprensione e tolleranza che ci si deve basare per navigare nel mare magnum delle musiche del presente.
         Negli ultimi decenni si è molto parlato dei generi musicali. Si sono diffusi concetti quali superamento e attraversamento. Fermo restando che per superare o attraversare qualcosa bisogna che questo qualcosa sia definito, occorre stabilire come e in che misura questo scavalcamento avviene. Si è discusso di fusion, di worl music e di border music (i termini in inglese dicono quale sia il contesto principale di riferimento) ossia di una sorta di mescolanza dei generi o di combinazione fra aspetti di diversa provenienza geografica. Si è dissertato anche di contaminazioni, termine sgradevole che presuppone una purezza e sanità di fondo che viene contagiata da elementi ad essa non propri. Si è asserita una trasversalità innegabile non solo fra generi ma anche fra stili, tendenze, espressioni, atteggiamenti, motivazioni e finalità. Non bisogna però inglobare le differenze, gettandole nel mare magnum dell’omologazione generale, ma armonizzarle.

         Siamo in presenza di una liquefazione delle categorie tradizionali. La società liquida porta inevitabilmente a una situazione fluida e miscelata del mondo musicale. Ogni solida certezza, che garantiva tranquillità psicologica, si è disgregata. La scala di valori culturali eurocentrica, sulla quale la storia (della musica) si è appoggiata fino al Novecento, ha rivelato il suo carattere ideologico e si è dispersa in un’infinità di pseudo valori pragmatici, pronti all’uso. Anche il concetto di profondità è speculativo, metafora di una concavità dell’essere dove posizionare la ‘verità interiore’. La leggerezza dell’essere appartiene al nostro tempo, librandolo dalla schiavitù delle ideologie, delle filosofie idealistiche, dei cascami romantici e dal peso della storia.
 
Ogni musica ha la propria anima,
non importa che stile sia,
devi essere fedele all’anima.
(Ray Charles, intervista a Quincy Jones)
 
Nell’epoca trans-storica della post-verità non vi sono certezze assolute, ma mezze verità, poche sicurezze e molti dubbi. Post Truth è stata la parola dell’anno 2016, secondo le autorevoli opinioni dei dizionari Oxford. Si sono affermati nuovi valori e nuove musiche che non hanno i classici riferimenti a cui la cultura europea ha continuato e continua a perpetuare, nella sciagurata convinzione di essere sempre dalla parte del bello e del buono. L’egocentrismo porta all’auto-compiacimento del dare patenti di bellezza e bontà, in costanti riferimenti alla solita storia e alla solita musica che tanto onore ha fornito alla cultura europea ma anche tanto peso, tanto da risultare un’insostenibile zavorra per afferrare la musica degli anni 2000.

         Inutile dare giudizi su tendenze artistiche e linguaggi musicali, ogni sentenza non fa altro che chiudere quello che per sua natura è aperto e molteplice, il nostro mondo. Quando è necessario esprimere un verdetto lo si deve fare, dicendo onestamente da quale prospettiva, motivazione e finalità lo si fa. Tutto dipende dall’angolatura con cui si sceglie di studiare il folle intreccio che si è creato – e non da oggi – fra attitudini, orientamenti, direzioni, creatività differenti. “I fatti non esistono isolatamente” – scrive Paul Veyne, in Comment on écrit l’histoire) – “Vi è un intreccio, una mescolanza molto umana e poco scientifica, di cause materiali, di fini e casualità”. Dunque l’intreccio non è solo linguistico, formale, stilistico, ma anche e soprattutto fra culture diverse, fra saperi dissimili, fra educazioni disparate, fra fini e casualità che ogni uomo/artista si porta con sé. L’intreccio è affascinante e i nodi si sciolgono e si ricompongono in continuazione. Ognuno cerca di raccapezzarsi affrontando l’intreccio dalla propria prospettiva e le angolature sono tante quante sono gli individui.

         È sempre una questione ermeneutica e il compositore è il primo interprete, egli fornisce il suo punto di vista interno all’opera che è strettamente legato all’ideazione e alla sua realizzazione. Ma la musica, come il teatro, non si esaurisce nel compimento formale abbisogna dell’esecuzione e qui entra in gioco l’interprete, non a caso così chiamato perché è il traduttore del segno in suono. Ma già il compositore tiene o dovrebbe tenere in considerazione, fin dall’ideazione della composizione, il ruolo dell’interprete, il quale, a sua volta, è al tempo stesso esegeta e attore, fondamentale nella comunicazione al pubblico. Ogni esecutore fornisce la sua interpretazione, coglie una parte della piccola ‘verità’ del testo. Più esecuzioni vengono realizzate e più ‘verità’ vengono a galla.

         Come scrive Heidegger, nel suo libro L’origine dell’opera d’arte, ogni interpretazione produce uno svelamento. Così l’opera si apre e s’illumina, grazie anche ad altri interpreti quali i critici musicali, i musicologi e lo stesso pubblico. Grazie alla girandola di prospettive l’opera si avvicina al suo senso ultimo. I commentari fanno integralmente parte dell’opera, essi contribuiscono a scoprirne l’essenza.
 
         La storia della SIMC nel suo complesso non è altro che una continua interpretazione del senso della musica nelle varie epoche, alla ricerca del senso, del valore, delle ragioni e dei sentimenti che hanno spinto i musicisti ad affidare alla musica la propria vita. È stata ed è una storia di intelligenze e di sensibilità, di ingegni e intuizioni che ha contribuito a formare la civiltà del nostro Paese.
 
         Per Herbert Spencer l’eterogeneità è sinonimo di equilibrio, perché solo attraverso continui mutamenti si trova il bilanciamento. A proposito dell’eterogeneo, Paul Feyerabend dà per scontato che sia una condizione non superabile, per cui diventa ridicolo pensare a un’organizzazione ordinata del tutto, anzi, è solo rimanendo fedeli alla variegata molteplicità che si può evitare il conformismo, anche dal punto di vista sociale. Inoltre, si evitano i rischi di cadere in forzature ideologiche e in sistemi metodologici fatti apposta per far tornare i conti. Sono le devianze non previste che danno vita al metodo, non l’adeguamento a un’idea o a un piano di lavoro pre-ordinato. L’anarchismo feyerabendiano, col suo Anything goes, è una risposta alla chiusura della metodologia compositiva classica, infatti, Paul Feyerabend intende l’anarchia come una sorta di ingovernabilità dell’eterogeneo.

         La varietà è molto difforme e in veloce cambiamento, di essa solo una parte può essere compresa, quella che è possibile analizzare dall’angolatura prescelta, la quale a sua volta, dipende da ciò che colpisce lo studioso, dal punctum, dalla sollecitazione avuta, da un’illuminazione che gli permette di rendere meno oscura la complessità. Il punctum è ciò che Heidegger chiama la luce della radura, l’illuminazione sperata, attesa, improvvisa che si manifesta nell’oscurità. L’indagine, l’analisi, lo studium è naturalmente necessario che sia attento, sollecito, profondo, intenso, ma se non è colpito dal puntum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes, il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, punge e prende e permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente più piccolo e (s)fuggente che l’analisi razionale non coglie; una conoscenza che supera ogni riferimento codificato e concede di cogliere «L’aria di un volto. […] Il supplemento intrattabile dell’identità. […] Il riflesso del valore di una vita […] L’ombra luminosa che accompagna l’oggetto».[1] È l’aria che il filosofo cerca di cogliere quando l’oggetto diventa un concentrato di sguardi che producono avventura ossia quell’atto per il quale l’oggetto (d’arte) avviene. È il di più, è la pienezza dell’arte.

         L’errore è voler cercare la strada maestra, volere a tutti i costi individuare l’unicità del tutto, quando le grandi narrazioni non sono più possibili dalla Romantik in avanti, e totalmente frantumate nel corso del Novecento, divenute schegge pericolose e oggi briciole acquiescenti.
 
          La SIMC ha sempre difeso la libertà creativa. Non si è mai schierata a favore di una posizione estetica e di un particolare metodo di scrittura, anzi, quando la Società Internazionale, durante gli anni Sessanta volle appoggiare esplicitamente le posizioni più sperimentali ma SIMC prese le distanze. Evidentemente, fin dall’inizio i maestri italiani furono convinti che la diversità è un valore.[2]
          
         Non è una questione di stare da una parte o dall’altra, la critica del giudizio è assai scivolosa e troppo spesso più che mostrare l’oggetto mostra l’ego di chi il giudizio esprime. Nel viaggio alla ricerca del senso, la critica del giudizio non va sospesa, altrimenti si approda al qualunquismo, vi deve essere sempre e comunque il pensiero critico ma disponibile al confronto. Il Papa afferma, “chi sono io per giudicare?” Se lo stesso Pontefice sente il bisogno di sospendere i giudizi, figuriamoci gli artisti, i musicologi e i critici (che con il nome che portano sembrano appartenere a ere geologiche passate). Ma Bergoglio non intende arrestare ogni giudizio ma porre l’accento sull’ascolto dell’altro, aprirsi alla discussione e all’accoglienza, essere testimoni, con coscienza critica verso il proprio tempo, non solo spettatore ma partecipante.

         Il problema non è legato né ai linguaggi né ai materiali ma a come questi aderiscono ed esaltano l’idea di partenza, la quale deve richiedere quel materiale e non altro, deve essere espressa in quel modo e non altrimenti, il suo essere così. Per esempio, non è importante se uno scultore usa il marmo o il legno o la plastica ciò che conta è che il materiale utilizzato sia quello idonea a esprimere il suo messaggio e che questo sia elaborato in maniera coerente e partecipata. Se l’idea di partenza è quella di comunicare aspetti classici forse il marmo potrebbe essere il materiale più adatto, se, invece, l’idea è quella di comunicare la problematicità dell’ecologia contemporanea la plastica potrebbe risultare assai più adeguata, fermo restando che poi lo scultore sappia far suo il materiale.

         Nella musica la tematica è la stessa, non è possibile a priori dichiarare che la serialità o la dodecafonia o il cromatismo o il diatonismo o la modalità o l’aleatorietà etc. sia una migliore dell’altra, ma è il loro adeguamento all’idea compositiva che determina la scelta e quindi la capacità del compositore di articolare e finalizzare.

         Non è una questione della tanto sbandierata qualità,[3] altro concetto scivoloso, in quanto si determina non in modo assoluto ma va dinamicamente contestualizzato. Tantomeno non è una questione di definire tendenze, ogni delimitazione crea un limite, contrario alla molteplicità e trasversalità che sono tratti tipici della nostra epoca. Circoscrivere può essere utile per parlare velocemente ma non aiuta certo la comprensione dei fenomeni in atto, i quali, come gli attrattori strani, mutano velocemente e s’intrecciano fra loro.
 
         Proprio la storia della SIMC, giunta ai 100 anni di vita, con il suo costante impegno a diffondere e ad approfondire le nuove creazioni, dimostra una ferrea volontà di futuro, di rinnovate prospettive in cui la musica sappia trovare e mantenere un ruolo prioritario nella cultura e nella civiltà di ogni dove e di ogni tempo.
 
Il futuro della musica è splendido.
(Quinci Jones, Intervista a Ernesto Assante)
 
  
        
 


[1] Roland Barthes, Camera chiara, Einaudi, Torino 1980, pag. 108: «Lo studium è sempre codificato, mentre il punctum non lo è mai. […] Fatalità che mi prende».
[2] In sintesi: nell’anno della fondazione, 1923, vi furono due delegati italiani all’International Society for Contemporary Music, Alfredo Casella e Guido Gatti. Casella fu Segretario fino al 1940. Dal 1946 al 1950 fu Segretario Luigi Dallapiccola. Dal 1950 al 1956 fu Presidente Gatti e Segretario Mario Peragallo, il quale passò Presidente dal 1956 al 1960, con Vittorio Fellegara Segretario che rimase fino alla presidenza di Davide Anzaghi. Dal 1960 al 1963 il Presidente fu Roman Vlad. Dal 1963 al 1986 di nuovo Peragallo, dal 1986 al 2004 Giuseppe Garbarino, dal 2004 al 2016 Davide Anzaghi. Quindi fino a tutto il 2023 Andrea Talmelli.
[3] Il concetto di qualità è quello più volte evocato, ma è concetto molto difficile da definire se prima non si danno delle coordinate entro cui delimitare ciò che ha valore o meno. Perfino da un punto di vista tecnico alcuni aspetti considerati pregevoli in un’opera potrebbero apparire negativi in un’altra. Ciò che occorre è dunque una grande attenzione sia alla sapienza tecnico-formale sia a come questa viene modellata sia alla forza della partecipazione emotiva e soprattutto alle idee e alla prospettiva.




Renzo Cresti - sito ufficiale